di Marco Toscano
Nuovo appuntamento con le letture del nostro amico Marco Toscano intorno alla prima guerra mondiale, e alla guerra in generale.
Cari di storiAmestre,
l’autobiografia di Robert Graves (1895-1985), Addio a tutto questo, ha in copertina (mi riferisco alla traduzione italiana del 2005) la scritta “Un grande libro contro tutte le guerre. The Times”.
Conosciuto per i suoi studi sui miti greci, Robert Graves era di ottima famiglia: il padre Alfred Perceval era irlandese e la madre, Amalie Von Ranke, tedesca, era bisnipote del famoso storico Leopold. Cresciuto in una casa londinese con bambinaia e servitù, Robert era destinato a un college a Oxford quando scoppiò la guerra. Volontario a diciannove anni nel 1914, fu mandato al fronte in Francia, mentre i suoi cugini e i suoi parenti materni combattevano con l’esercito tedesco. Partecipò alle battaglie della Somme come ufficiale; ferito e dichiarato morto, si salvò e venne ricoverato in un ospedale a Oxford; quando si ristabilì, fu destinato come istruttore in un battaglione di allievi ufficiali. Malato ai polmoni, passò lunghi mesi di convalescenza (anni dopo avrebbe ricordato che continuava a tossire fino a vomitare). Trasferito in Irlanda, venne smobilitato nel febbraio 1919.
Come accadde a molti, una volta in guerra Graves scoprì la falsità e l’inganno dei valori in cui era stato educato e che l’avevano spinto ad arruolarsi, e lo raccontò nell’autobiografia Addio a tutto questo che pubblicò a trentacinque anni, nel 1929. La parte preponderante dell’autobiografia è costituita dal racconto della guerra, in cui si ritrovano temi ricorrenti nella memorialistica: cameratismo, spirito di corpo (Graves fu arruolato nel Royal Welch Fusil), terrore dei bombardamenti, incubo del gas, trincee infestate dai ratti, senso di estraneità nei confronti dei famigliari e dei civili nei periodi di congedo, lamenti dei feriti nella terra di nessuno, assalti inutili sotto il fuoco delle mitragliatrici, villaggi rasi al suolo, file dei soldati davanti ai bordelli (gli ufficiali avevano bordelli loro riservati), puzza dei cadaveri insepolti e rosicchiati dai topi, fucilazioni dei soldati per codardia o diserzione (fucilazioni peraltro negate a livello ufficiale), sensazione d’impazzire vedendo uomini mandati a morte per niente…
Uno spazio di rilievo nell’autobiografia è riservato all’amicizia con Siegfried Sassoon, ufficiale nello stesso corpo di fucilieri, anche lui volontario e poi autore, tuttora celebre, di poesie contro la guerra.
Nel 1916 i due amici conclusero che la prosecuzione della guerra “sembrava semplicemente un sacrificio della generazione più giovane e piena di ideali alla stupidità e ai timori egoistici della generazione più vecchia”. Graves scrisse a questo proposito un commento ironico: «La guerra dovrebbe essere un’attività riservata esclusivamente a uomini dai quarantacinque anni in su, agli Iesse, non ai Davide. “Bene, padre caro, sono orgoglioso che tu serva il tuo paese da prode gentiluomo disposto anche all’estremo sacrificio! Come vorrei avere la tua età: con quanto entusiasmo indosserei l’armatura e andrei a combattere quegli abominevoli filistei! Ma il fatto è che non possono fare a meno di me; devo rimanere qui al ministero della Guerra a governare per voi, fortunati vecchi”…» eccetera (p. 286).
Quando Sassoon, nel luglio 1917, pubblicò in un giornale inglese una dichiarazione “come consapevole atto di sfida nei confronti dell’autorità militare”, scrivendo che la guerra era “deliberatamente prolungata da coloro che hanno il potere di fermarla”, Graves mise in moto tutte le sue conoscenze per salvare l’amico dalla corte marziale e farlo ricoverare come pazzo, e più precisamente “sconvolto” dopo aver compiuto “magnifiche imprese in trincea” (pp. 299-308).
In congedo per malattia nel 1916 all’ospedale di Oxford, Graves conobbe, tramite Sassoon, i proprietari di una fattoria, pacifisti, presso cui erano stati mandati a lavorare degli obiettori di coscienza. (In quell’anno il governo britannico decretò la coscrizione obbligatoria e contemporaneamente riconobbe il diritto all’obiezione di coscienza, a cui si appellarono circa ventimila persone). Fu allora, scrive Graves, che “sentii dire per la prima volta che c’era un altro modo di considerare le colpe della guerra”. Tra gli obiettori di coscienza c’era Clive Bell, “il più importante critico d’Inghilterra”, che aveva sposato Vanessa Stephen, sorella di Virginia Woolf. Venivano in visita alla fattoria Aldous Huxley e Bertrand Russell, quest’ultimo “troppo vecchio per il servizio militare ma ardente pacifista (una rara combinazione)”. In quell’ambiente Graves conosce Lytton Strachey, che allora stava scrivendo Eminenti vittoriani. Inabile alla leva, Strachey “invece di farsi respingere dai medici preferì comparire davanti a un tribunale militare come obiettore di coscienza”. Alla domanda del presidente del tribunale militare se la sua fosse un’obiezione di coscienza nei confronti della guerra, Strachey raccontava di aver risposto (“con la sua bizzarra voce in falsetto”, scrive Graves): “Oh, no, niente affatto, solo di questa guerra”. Il presidente, allora, con “altra domanda classica”: “Mi dica, signor Strachey, cosa farebbe vedendo un soldato tedesco che tenta di violentare sua sorella?”; e Strachey, “con aria di nobile virtù”: “Cercherei di interpormi fra loro” (pp. 289-290).
Per la mia scheda voglio riportare alcuni brani su atrocità commesse contro civili e soprattutto contro prigionieri. Si tratta di racconti che Graves raccoglie quando per alcune settimane si trova ad addestrare le reclute in Francia, prima di mandarle al fronte.
Dopo la guerra Graves, che nel frattempo si era sposato, insegnò per qualche anno letteratura inglese all’università del Cairo. Nel 1927 si trasferì a Maiorca. Nel 1936, agli inizi della guerra civile, andò con la famiglia negli Stati Uniti e Inghilterra, per far ritorno a Maiorca dieci anni dopo. Negli anni Sessanta insegnò a Oxford e tenne conferenze negli Stati Uniti. Tornato a Maiorca, vi morì a novant’anni.
Nel ringraziarvi per l’ospitalità, un caro saluto dal vostro
Marco Toscano
Quel giorno non facemmo prigionieri, di Robert Graves
I rapporti della propaganda sulle atrocità erano concordemente ritenuti ridicoli. Ricordavamo che mentre i tedeschi potevano commettere atrocità contro i civili nemici, la Germania, a parte un attacco iniziale della cavalleria russa, non aveva mai avuto il nemico sul proprio territorio. Non credevamo più nei coloriti racconti sulle atrocità tedesche in Belgio, ora che conoscevamo i belgi di prima mano. Per atrocità intendevamo specificamente stupri, mutilazioni e torture, non le fucilazioni sommarie di sospette spie. Protettori di spie, franc-tireurs o funzionari locali ribelli. Se nelle atrocità bisognava comprendere i bombardamenti accidentali fatti di proposito o i mitragliamenti di civili dal cielo, gli alleati stavano commettendo altrettante atrocità dei tedeschi. I civili francesi e belgi avevano spesso tentato di suscitare la nostra pietà presentando bambini mutilati – privi di mani e piedi, per esempio – come il frutto di deliberate atrocità, mentre con buona probabilità era semplicemente frutto dei bombardamenti. Non pensavamo affatto che gli stupri fossero più diffusi sul lato tedesco del fronte rispetto a quello degli alleati. E poiché la dieta a base di carne in scatola, la paura della morte e l’assenza delle mogli rendevano necessaria un’ampia fornitura di donne nelle zone occupate, le autorità militari tedesche allestivano bordelli nelle principali città francesi dall’altra parte del fronte, così come facevano i francesi per gli alleati. […]
Quanto alle atrocità contro i soldati, doveva andava fissato il limite? Le truppe britanniche, all’inizio, consideravano atroce l’uso di coltelli da caccia da parte delle pattuglie tedesche. Dopo un po’ impararono a usarli anche loro: erano armi letali più pulite delle rivoltelle o delle bombe. I tedeschi consideravano altrettanto atroci i proiettili da fucile Mark VII impiegati dai britannici, che avevano una maggiore capacità di penetrazione di quelli tedeschi. Le occasioni per compiere vere atrocità, ovvero violazioni personali più che militari del codice di guerra, erano scarse, tranne che nell’intervallo fra la resa dei prigionieri e il loro arrivo (o mancato arrivo) al quartier generale. Questa occasione veniva sfruttata fin troppo spesso. Quasi tutti gli istruttori della mensa potevano citare esempi specifici di prigionieri assassinati sulla via del ritorno. Le motivazioni più comuni erano, a quanto pare, la vendetta per la morte di amici o parenti, l’invidia per il prigioniero destinato a un confortevole campo di prigionia in Inghilterra, il fanatismo militare, la paura di essere improvvisamente sopraffatti dai prigionieri o, più semplicemente, la poca voglia di scortarli. In tutti questi casi le scorte riferivano al loro arrivo al quartier generale che un proiettile tedesco aveva ucciso i prigionieri, e nessuno faceva domande. Avevamo tutti motivo di pensare che lo stesso accadesse sul lato tedesco, dove i prigionieri, inutili bocche da nutrire in un paese già a corto di viveri, dovevano essere ancor meno benvenuti. […] In tutti i casi, molti stranieri, e alcuni soldati britannici, facevano delle atrocità contro i prigionieri un motivo di vanto, non una confessione.
In seguito udii due resoconti di prima mano.
Uno scozzese delle forze canadesi: “Mi rispedirono indietro con tre merdosi prigionieri, capisci, e uno si mise a zoppicare e lamentarsi, tanto che dovevamo mandarlo avanti a calci in culo lungo la trincea. Era un ufficiale. Stava facendo notte e io non ne potevo più, così pensai: “Adesso gli faccio vedere io”. Tenendoli sotto tiro con la rivoltella dell’ufficiale, gli feci aprire le tasche senza voltarsi. Poi infilai una bomba a mano in ogni tasca, con la linguetta tirata, e mi acquattai dietro una traversa. Bang, bang, bang! Niente più prigionieri di merda. Gli unici crucchi buoni sono quelli morti”.
Un australiano: “Be’, non mi sono mai divertito tanto come a Morlancourt, quando la prendemmo per la prima volta. C’erano un sacco di crucchi in una cantina, e io dissi: “Venite fuori, camerati!” E loro vennero fuori, una dozzina, con le mani in alto. “Rovesciare le tasche” feci io. E loro le rovesciarono. Orologi, oro, altra roba, tutta giusta. Poi dissi: “Ora tornate in cantina, figli di puttana!”. Perché non mi andava di occuparmi di loro. Quando furono tutti giù gli lanciai dietro una mezza dozzina di bombe a mano. Naturalmente avevo intascato tutto la roba, e non facemmo prigionieri quel giorno”.
Nota. Robert Graves, Addio a tutto questo, trad. di Annalisa Carena, Piemme, Casale Monferrato 2005, pp. 214-216. Goodbye to all that uscì per la prima volta nel 1929; la traduzione italiana si basa però sulla seconda edizione (1957), a proposito della quale Graves scrive: “Il libro ha subito molte modifiche: omissioni di brani noiosi o insulsi, ripristino di alcuni aneddoti soppressi, sostituzione del capitolo su T. E. Lawrence con uno più lungo scritto cinque anni dopo, correzioni di inesattezze nell’esposizione dei fatti e una revisione generale della mia prosa, comprensibilmente grezza. Alcuni nomi propri sono stati ripristinati laddove il loro mascheramento iniziale non è più necessario” (Prologo, p. 5). Non ho potuto verificare se i brani sulle atrocità contro i prigionieri, che qui riporto, fossero presenti nella prima edizione. Notizie sull’obiezione di coscienza in Gran Bretagna in Ben Copsey (responsabile di Progetto Obiettare alla guerra, Peace Pledge Union), L’obiezione di coscienza in Gran Bretagna durante la prima guerra mondiale, trad. di Miky Lanza, disponibile online presso il sito del Centro Sudi Sereno Regis. (m.t.)
Le puntate precedenti:
21. Vera Brittain, Roland Leighton, Cos’hanno a che fare Giovinezza, Gioia e Vita con la guerra?
19. Fanny Dal Ry, Non obelischi, ma colonne infami
18. Erich M. Remarque, Nessuno vuol sapere la verità
17. Aldo Palazzeschi, Il mandolino è mille volte superiore al cannone
16. Romain Rolland, Opinioni di Albert Einstein sulla guerra in corso
15. Simone Weil, La società attuale è un’immensa macchina di cui nessuno conosce i comandi
14. Andreas Latzko, Malato io?
13. Józef Wittlin, I misteri della subordinazione militare
12. Elias Canetti, Inni nazionali e facce stravolte dall’odio
11. Karl Kraus, Davanti a una bottega di barbiere
10. Jaroslav Hašek, Quale Ferdinando, signora Müller?
9. Virginia Woolf, Togliere dai cuori degli uomini l’amore delle medaglie e delle decorazioni
8. La rivolta della Catanzaro, da Plotone di esecuzione
7. Emilio Lussu, Un episodio di decimazione
6. Corina Corradi, La scena si faceva sempre più spaventosa
5. Helena M. Swanwick, Il senso dell’onore è causa di guerre
4. Romain Rolland, Ciascuno ha il suo Dio e combatte quello degli altri
3. Guglielmo Ferrero, Cesarismo, burocrazia, esercito
2. Bertha von Suttner, La storia insegna l’ammirazione per la guerra