di Marco Toscano
Finita l’estate, aumentano gli impegni, ma Marco Toscano ha trovato il tempo per mandarci ancora qualche sua lettura intorno alla prima guerra mondiale, e alla guerra in generale.
Cari di storiAmestre,
l’opuscolo che ho sotto gli occhi, Militarism versus Feminism. Writings on Women and War, raccoglie scritti di due donne, Mary Sargant Florence e Catherine Marshall, e di un uomo, Charles Kay Ogden; l’editore è Virago di Londra; l’edizione, del 1987, riprende quella originale del 1915. La mia copia viene da una bancarella, e la pagina che precede il frontespizio porta una firma che non riesco a decifrare.
Nelle prime righe dell’Introduzione, le curatrici Margaret Kamester e Jo Vellacott spiegano di aver pubblicato il libro per dimostrare la falsità dell’immagine che viene normalmente data del femminismo del primo Novecento. Si dice infatti che il femminismo chiedeva il diritto al voto alle donne, appoggiò la guerra e alla fine fu ricompensato con la concessione del suffragio. Non è vero, sostengono le curatrici: c’era anche un movimento femminista pacifista che reclamava un cambiamento sociale e un nuovo ordine internazionale, opponendosi alla guerra e alla coscrizione (cosa che sfuggì anche ad Andreas Latzko). Solo così, aggiungono, si può capire la grande attività della Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà negli anni Trenta: un movimento, concludono, che illumina ancor oggi il nostro comportamento e ci incoraggia a proseguire nelle nostre mobilitazioni. Nel ricordare i moniti che vengono dalle parole qui pubblicate, l’Introduzione si chiude così: “Possano queste parole non essere state scritte invano”.
L’opuscolo Militarism versus Feminism è uno dei tanti scritti antimilitaristi pubblicati nel 1915 in Gran Bretagna. Ho già presentato in questo sito lo scritto di Helena Swanwick. Tra gli interventi raccolti nel pamphlet scelgo il testo di un discorso preparato da Catherine Marshall (1880-1961) per un incontro pubblico tenuto a Londra nel marzo 1915. Catherine Marshall avrebbe dovuto parlare di Donne e guerra nell’ambito di una serie di incontri sugli aspetti religiosi del movimento delle donne. Ma problemi di salute le impedirono di tenere il discorso, e fu sostituita da un’altra attivista: il suo intervento fu conosciuto grazie alla pubblicazione del testo.
Catherine Marshall, spiegano le curatrici, mostra bene l’intreccio tra femminismo e internazionalismo che fu uno delle componenti dell’opposizione alla guerra nel 1914. Nata nel 1880 da una famiglia di intellettuali liberal, ebbe un’istruzione privata. Coinvolta assieme alla madre nelle campagne per il diritto al voto alle donne fin dai primi del Novecento, ebbe modo di conoscere attiviste provenienti dalla classe operaia, giungendo a individuare, come altre donne in Europa, un legame tra le lotte dei lavoratori e quelle delle donne. Il 4 agosto 1914 il governo britannico dichiarò guerra alla Germania. Aria di festa, come sappiamo: guerra breve, vittoria assicurata, a Natale tutti a casa. Nel primo periodo questo clima ridusse l’opposizione femminista e internazionalista al silenzio. L’Unione che raggruppava tutti i gruppi per il suffragio alle donne si divise al proprio interno. La maggioranza appoggiò la guerra. Una parte invece si oppose dichiarando che il militarismo implicava la sottomissione delle donne: come potevano le donne accettare i ruoli definiti dagli uomini sia in pace sia in guerra e tradire così la loro natura materna?
Nell’aprile 1915 si tenne all’Aja una Conferenza internazionale delle donne, provenienti da molti paesi, per chiedere la fine della guerra e proporre concreti piani di pace. Almeno 180 donne britanniche avrebbero voluto parteciparvi, ma il governo di Londra chiuse la navigazione nel Mare del Nord e quindi solo tre di loro, che avevano già lasciato il paese, poterono prendere parte all’iniziativa. Tra queste c’era la coautrice dell’opuscolo che vi presento, Mary Sargant. La Conferenza (che fu la prima iniziativa internazionale contro la guerra) incoraggiò le femministe pacifiste a prendere la parola. In quell’anno si costituì anche in Gran Bretagna la Lega Internazionale delle donne, di cui fu presidente Helena M. Swanwick, e Catherine vi partecipò attivamente. A partire dal 1916, per rispondere all’introduzione alla leva obbligatoria in Gran Bretagna, Catherine s’impegnò assieme all’allora suo fidanzato Clifford Allen, presidente della No Conscription Fellowship, nelle attività volte a incoraggiare gli uomini a rifiutare il servizio militare per ragioni di coscienza.
Sommarie, nelle note a questo pamphlet, le notizie su Catherine Marshall negli anni successivi. Alla fine degli anni Trenta Catherine aiutò gli ebrei a mettersi in salvo dalla Cecoslovacchia; abbandonò il suo pacifismo assoluto per appoggiare la guerra contro Hitler; dopo la guerra aderì al Labour Party e collaborò con organizzazioni delle Nazioni Unite. Morì a ottant’anni nel 1961.
I brani che qui presento costituiscono l’inizio e buona parte del discorso di Catherine Marshall. Per l’occasione ho chiesto a un’amica di tradurli in italiano: per questo ringrazio Luisa Corbetta.
Vi saluta il vostro
Marco Toscano
Le donne considerano le persone come esseri umani e non come numeri di un esercito o di un censimento, di Catherine Marshall
Quando, l’estate scorsa, nel giro di poche brevi giornate le nazioni europee sono state travolte una dopo l’altra nella grande tragedia della guerra (come alpinisti in cordata sul ciglio di un precipizio pericoloso, quando il capo-cordata precipita), credo che la prima reazione della maggior parte di noi donne sia stata un sentimento d’orrore paralizzante all’idea della scelta che gli uomini si trovavano di fronte. Per la gran parte degli uomini inglesi si trattava di decidere se accettare che il loro paese tradisse la parola data, mostrandosi sordo al grido di dolore del Belgio, o mettersi in marcia per uccidere ed essere uccisi; subire e, peggio ancora, infliggere tutti gli orrori della guerra, fare violenza allo spirito fondante della civiltà, agli insegnamenti del Cristianesimo stesso.
Subito dopo questa prima reazione e all’impeto di compassione e tenerezza suscitato nei nostri cuori al pensiero degli uomini che si trovavano di fronte a questa scelta terribile, sopravvenne la schiacciante consapevolezza della nostra responsabilità e colpa – la colpa della società civile – per aver permesso che si compisse una simile tragedia. È pur vero che il popolo non voleva la guerra; ma non ha neppure voluto la pace. Gli è bastato che chi si trovava al governo evitasse di fare la guerra, non ha preteso, in modo chiaro e definitivo, di fare la pace – di creare cioè condizioni che favorissero reciproca fiducia e cooperazione invece di rassegnarsi a uno stato di fatto che incoraggiava il reciproco sospetto e l’inimicizia. Se il popolo avesse davvero avuto a cuore la pace, avrebbe chiesto a gran voce che si stabilissero tra i paesi civili relazioni tali da rendere impossibile un disastro come la guerra. Perché la scelta che oggi i nostri uomini si trovano ad affrontare non doveva essere l’unica alternativa possibile; i sacrifici che ogni nazione sta affrontando, non dovevano essere gli unici praticabili. L’onore, è vero, esige che una nazione debba mantenere la parola data, che non abbandoni al suo destino un vicino che ha indotto a confidare nel suo aiuto. Ma l’onore non pretende che distruzioni e massacri debbano essere l’unico strumento per adempiere a questo obbligo morale. Se lo scorso agosto ci siamo trovati costretti a decidere se tradire la fiducia del nostro vicino o violare la legge di Cristo e della fratellanza umana, è solo perché non siamo stati capaci di costruire altre alternative.
E noi donne ci siamo finalmente rese conto di essere a nostra volta responsabili di questa mancata volontà di pace, questa acquiescenza alle condizioni che hanno reso possibile, se non inevitabile, il cataclisma in cui ora ci dibattiamo; e in ciò risiede, io credo, la grande speranza per il futuro, la fonte da cui le forze di pace potranno trarre nuovo slancio vitale. L’istinto materno delle donne è stato scosso nel profondo; ed è grazie al movimento delle donne, con tutto quello che ha significato in termini di risveglio e rinnovamento culturale, se il sesso femminile ha sviluppato un forte senso di responsabilità, nuove facoltà intellettuali e nuove capacità di collaborazione.
E che contributo può offrire questo risveglio femminile alla soluzione dei grandi problemi di ricostruzione che il mondo civilizzato si trova ad affrontare?
In tutti i paesi le donne hanno dimostrato quanto sia preziosa la loro opera nell’alleviare le sofferenze e mitigare i danni materiali provocati dalla guerra, ma il contributo più prezioso sta nella loro capacità di immaginazione, di fede, e di amore incondizionato; nell’abitudine a considerare le persone, in qualsiasi circostanza, come esseri umani e non semplicemente come numeri nelle stime di un esercito o nei dati di un censimento; nella loro esperienza di madri e regine della casa, capaci di regolare i rapporti tra i vari membri di un nucleo o gruppo famigliare e conciliare le richieste e le esigenze dei vari esponenti in base ai diversi caratteri e alle differenze di età, così che ciascuno possa sviluppare appieno le proprie potenzialità nel comune interesse del gruppo. In alcuni casi, poi, è stata proprio l’inesperienza delle donne a rivelarsi preziosa: le ha spinte a non lasciarsi abbattere da difficoltà che agli uomini, stanchi e scoraggiati da precedenti fallimenti, erano sembrate insormontabili.
Sono convinta che tutte queste qualità siano indispensabili, sia per realizzare un nuovo tessuto sociale, che per rappezzare e rammendare il tessuto esistente su cui la guerra ha operato tanta distruzione. Sono convinta che le donne possano fare molto sia per curare le ferite fisiche che gli uomini si sono inflitti l’un l’altro, sia per curare le ferite spirituali che un paese sta infliggendo all’altro. Sono convinta che, se le donne si muoveranno in questa direzione, sapranno trovare più facilmente di quanto non facciano gli uomini un modo di appianare i contrasti internazionali che non sia quello del ricorso alla forza, proprio perché l’uso della forza non è un’opzione che si offra a loro in quanto donne, e di conseguenza non hanno mai avuto l’abitudine di fare affidamento su di essa. (Da questo punto di vista è interessante l’analogia tra la posizione delle donne e quella dei paesi più piccoli). Sono convinta che l’esperienza e gli atteggiamenti mentali che le donne acquisiscono in quanto madri e regine della casa potrebbero, se applicati a un campo più ampio, gettare nuova luce sui problemi della grande famiglia umana delle nazioni e aiutare a costruire un sistema di relazioni internazionali che renderebbe impossibile il ripetersi di una tragedia simile all’attuale.
Ma sono soprattutto convinta che spetti in gran parte alle donne fornire l’energia propulsiva indispensabile per rendere tutto questo possibile e che senza di essa neppure la macchina più perfetta del mondo potrebbe funzionare. E sono convinta che questa energia propulsiva scaturirà dall’orrore profondo per la guerra che per la prima volta ha penetrato l’animo di un movimento organizzato di donne. Le donne, migliaia di singole donne, hanno conosciuto fin troppo bene quell’orrore anche in passato; perché la guerra per le donne è soprattutto un crimine contro la maternità e tutto quello che la maternità può significare; la distruzione della vita e la dispersione dei nuclei famigliari significa la negazione dell’opera delle donne intese come donatrici di vita e costruttrici di affetti domestici. Ma nelle grandi guerre del passato non esisteva un movimento organizzato di donne che desse voce all’impeto di orrore dei loro cuori e le incitasse all’azione collettiva. Adesso quel movimento c’è, organizzato e propositivo, in quasi tutti i paesi belligeranti e nella maggior parte di quelli neutrali. E credo che il grande appello che il movimento lancia a tutte noi – se abbiamo orecchi per intenderlo e coraggio, fede e amore sufficienti per rispondere – sia quello di riconoscere in tutti gli aspetti gli orrori della guerra e accollarci la nostra parte di responsabilità, perché avremmo potuto contribuire – se davvero lo avessimo voluto – a salvare il mondo da questa tragedia.
Nota. Catherine E. Marshall, Women and War, in Mary Sargant Florence, Catherine Marshall, Charles Kay Ogden, Militarism versus Feminism. Writings on Women and War, ed. by Margaret Kamester and Jo Vellacott, Virago, London 1987 (ed. or. Allen & Unwin, London 1915), pp. 37-40 (il discorso alle pp. 37-42). Mary Sargant Florence (1857-1954), pittrice, partecipò alla Conferenza dell’Aja: fu suo figlio Filippo a metterla in contatto con Charles K. Ogden (1889-1957), studioso del Magdalene College di Cambridge, noto soprattutto per gli studi di filosofia del linguaggio. Sul tema cfr. Bruna Bianchi, “Militarismo versus femminismo”. La violenza alle donne negli scritti e nei discorsi delle pacifiste durante la Prima guerra mondiale, “DEP. Deportate, esuli, profughe”, 10 (2009), pp. 94-109, disponibile online. (m.t.)
Le puntate precedenti:
19. Fanny Dal Ry, Non obelischi, ma colonne infami
18. Erich M. Remarque, Nessuno vuol sapere la verità
17. Aldo Palazzeschi, Il mandolino è mille volte superiore al cannone
16. Romain Rolland, Opinioni di Albert Einstein sulla guerra in corso
15. Simone Weil, La società attuale è un’immensa macchina di cui nessuno conosce i comandi
14. Andreas Latzko, Malato io?
13. Józef Wittlin, I misteri della subordinazione militare
12. Elias Canetti, Inni nazionali e facce stravolte dall’odio
11. Karl Kraus, Davanti a una bottega di barbiere
10. Jaroslav Hašek, Quale Ferdinando, signora Müller?
9. Virginia Woolf, Togliere dai cuori degli uomini l’amore delle medaglie e delle decorazioni
8. La rivolta della Catanzaro, da Plotone di esecuzione
7. Emilio Lussu, Un episodio di decimazione
6. Corina Corradi, La scena si faceva sempre più spaventosa
5. Helena M. Swanwick, Il senso dell’onore è causa di guerre
4. Romain Rolland, Ciascuno ha il suo Dio e combatte quello degli altri
3. Guglielmo Ferrero, Cesarismo, burocrazia, esercito
2. Bertha von Suttner, La storia insegna l’ammirazione per la guerra