di Marco Toscano
Nuovo appuntamento con le letture del nostro amico Marco Toscano intorno alla prima guerra mondiale, e alla guerra in generale.
Cari di storiAmestre,
“Tutti e quattro di diciannove anni, tutti e quattro partiti dalla stessa aula scolastica per andare in guerra”: così, nelle prime pagine di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque (1898-1970), il protagonista Paolo Bäumer conclude la prima presentazione di sé e di tre compagni di scuola. Tutti, nella loro classe, erano stati spinti ad arruolarsi volontari da un professore, alla notizia che il proprio paese, la Germania, aveva dichiarato la mobilitazione generale. “Lo vedo ancora davanti a me, quando ci fulminava attraverso i suoi occhiali e ci domandava con voce commossa. «Venite anche voi, nevvero, camerati?»”.
Riprendo in mano il libro lunedì 15 settembre, inizio delle lezioni scolastiche nella maggior parte d’Italia, pensando alla recente notizia che il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e il ministro della Difesa hanno firmato un accordo – per ora della durata di tre anni – che affida a militari delle varie armi l’insegnamento nelle scuole dei «valori della democrazia, partendo dalla conoscenza della Costituzione e della “cultura della Difesa”»; e naturalmente nel 2014/15 si approfitterà di una “significativa ricorrenza, quale il centenario della grande guerra”, scritto minuscolo forse per non esagerare in retorica. Altrove ho letto che poi toccherà anche alla “Liberazione” e alla “Resistenza”, pure queste in omaggio agli anniversari tondi.
La copertina colorata dell’Oscar Mondadori degli anni Sessanta che ho sotto mano mostra due occhi di uomo fissare una farfalla di color giallo: chi ha letto il libro ricorderà il passo in cui per un’intera mattina due farfalle volteggiano dinanzi alla trincea fino a che non si riposano sui denti di un teschio. La quarta di copertina presenta il libro così: «Alla fine, la guerra si rivela per quel che è: un massacro privo di senso». Vedo come data di pubblicazione il 1965: quello stesso anno don Lorenzo Milani, processato per incitamento alla diserzione e vilipendio alle Forze armate, pubblicava L’obbedienza non è più una virtù.
Anche oggi lo stesso editore presenta il libro di Remarque come «Un drammatico messaggio di pace, un’appassionata requisitoria contro le spaventose conseguenze della guerra». L’autore sapeva bene di che cosa parlava: anzi, proprio per questo poteva parlare. Volontario nell’esercito tedesco a diciotto anni, più volte ferito, pubblicò il romanzo nel 1929; due anni dopo si trasferì in Svizzera e di lì negli Stati Uniti. Le sue opere furono tra quelle bruciate e messe al bando dai nazisti. La prima edizione italiana risale al 1931, nella traduzione di Stefano Jacini, che continua a essere ripubblicata oggi.
Il protagonista del romanzo viene spinto ad arruolarsi volontario, assieme ad un gruppo di compagni di classe, dagli insegnanti e in particolare dal professore di ginnastica Kantorek. Il suo ambiente borghese non gli concedeva alternative: «In fondo i soli veramente ragionevoli erano i poveri, i semplici, che stimarono subito la guerra una disgrazia, mentre i benestanti non si tenevano dalla gioia, quanto proprio essi avrebbero potuto rendersi conto delle conseguenze» (p. 15). I giovani diciottenni credettero ai padri e agli insegnanti: «Al concetto dell’autorità di cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un’idea di maggior prudenza, di più umano sapere» (p. 16). In guerra videro le morti e i massacri. Nelle retrovie continuarono a esaltare «la grandezza del servire lo Stato», ma i giovani sapevano «che il terrore della morte è più forte». I giovani continuarono a combattere «con coraggio», ma avevano imparato a guardare le cose in faccia, e si accorsero che del mondo dei loro genitori e insegnanti «non sopravviveva più nulla» (p. 17). Ed è questo che il romanzo si propone di raccontare. Tranne uno che si salva, tutti gli amici muoiono in modo orribile. Nelle ultime righe del libro una voce diversa racconta la morte del protagonista, a pochi giorni dalla fine della guerra, «in una giornata così calma e silenziosa su tutto il fronte, che il bollettino del Comando Supremo si limitava a queste parole: “Niente di nuovo sul fronte occidentale”» (p. 237).
Ho preso nota di molti brani: preparazione in caserma, per imparare a essere «duri, diffidenti, spietati, vendicativi, rozzi», qualità senza le quali al fronte «i più sarebbero impazziti» (p. 27); il dover sottostare alla disciplina («La vita militare consiste in questo che uno ha sempre potere su un altro», p. 40); una volta al fronte, le urla dei cavalli feriti (p. 55); lo scoppio delle granate («la terra si apre, la pressione dell’aria tuona nelle mie orecchie», p. 58); i pidocchi (p. 65); la vita appesa al caso in trincea («La prima linea è una specie di gabbia in cui si soffre l’attesa nervosa di ciò che sta per avvenire», p. 84); l’assalto alle trincee di grossi topi affamati («Uno stormo di topi si precipita dall’ingresso e si slancia su per le pareti del ridotto. Le lampadine tascabili illuminano la scena. Tutti gridano e bestemmiano e picchiano», p. 91); la mancanza d’acqua (p. 91); il terrore delle reclute sotto il fuoco («la parete della trincea è sporca di schegge scottanti, brani di carne e pezzi di uniforme», p. 93); un assalto con fucile e pugnale contro una postazione di mitragliatrice («A uno dei mitraglieri superstiti Kat col calcio del fucile riduce il volto in poltiglia. Pugnaliamo gli altri senza dar loro tempo di metter mano alle bombe», p. 98); feriti rimasti a morire tra le due linee del fronte («Oggi non fa che piangere. Verso sera la voce si spegne in un singhiozzo; ma continua a gemer tutta la notte. Lo udiamo bene ancora, perché siamo sotto vento. La mattina, quando crediamo che sia ormai in pace, ci giunge ancora un rantolo soffocato», p. 106); il gas che brucia i polmoni (p. 110); le vessazioni nei confronti del professore di ginnastica nel frattempo richiamato nell’esercito, a cui i suoi ex scolari infliggono le stesse frasi che il professore era solito dire loro in classe («Non andiamo bene, Kantorek, non andiamo bene!…», «E non dimenticare mai, per qualche piccolezza, il grande evento storico, soldato Kantorek», pp. 144-148); le discussioni tra soldati sul perché professori e parroci in Francia sostenessero di aver ragione, e altrettanto lo facessero professori e pastori in Germania, oppure sul perché tutti dicessero di non aver voluto la guerra e intanto la facevano (p. 166-168); ospedali militari («Bisogna venire qui per vedere in quante parti un uomo può esser ferito», p. 213); casi di diserzione (p. 223); considerazioni sulla condizione dei soldati in guerra («Trincea, ospedale, fossa comune: altre possibilità non ci sono», p. 229).
Alla fine ho scelto per la mia scheda un passaggio che si riferisce al racconto di una licenza grazie alla quale il protagonista, tornato a casa scopre che in paese nessuno vuole sapere la verità, preferendo la retorica. Come già in Guerra e pace, i racconti dei soldati devono corrispondere alle aspettative, e cioè alla retorica ufficiale, per essere creduti. I posteri sono sull’avviso di come prendere la letteratura di guerra.
Ringraziando per l’attenzione, vi saluta il vostro
Marco Toscano
Nessuno vuol sapere la verità, di Erich M. Remarque
La mamma è felice ch’io vesta in borghese: le pare di conoscermi meglio così. Invece mio padre sarebbe più lieto se restassi in uniforme, per portarmi in giro dalle sue conoscenze. Ma io mi ricuso.
È bello star quietamente seduti in qualche luogo, per esempio nel giardino dell’osteria dirimpetto, sotto i castani, vicino al gioco delle bocce. Le foglie cadono sul tavolo e a terra, poche, le prime. Ho davanti a me una tazza di birra, sotto le armi si impara a bere. La tazza è vuotata a metà; me ne rimangono ancora alcune buone, fresche sorsate: posso, se voglio, ordinarmene una seconda, una terza. Niente appelli, niente fuoco tambureggiante. I figli dell’oste ruzzano sulla pista delle bocce, il cane mi posa la testa sulle ginocchia. E il cielo è azzurro; tra le frasche dei castani si slancia dritto il verde campanile di Santa Margherita.
Tutto ciò fa bene, e mi piace. Ma con la gente non so cavarmela. La sola persona che interroghi è la mamma. Già col babbo è un’altra cosa. Vorrebbe ch’io gli raccontassi qualche cosa di laggiù, ha delle curiosità ch’io trovo commoventi e stupide ad un tempo; già con lui mi sento meno affiatato. Il suo gusto sarebbe di sentir parlare del fronte, di continuo. Io mi rendo bene conto che non sa, come certe cose non si possano raccontare, e sarei d’altronde tanto lieto di fargli questo piacere. Ma sento che c’è un pericolo per me, perché, se traducessi quelle cose in parole, temo diventerebbero enormi, gigantesche, e che non le saprei più dominare. Che sarebbe di noi, se avessimo chiara dinnanzi agli occhi la visione di ciò che avviene laggiù! Perciò mi limito a raccontargli barzellette. Mi domanda se ho mai preso parte ad un corpo-a-corpo. Rispondo di no e mi alzo per andarmene.
Neanche questo però mi salva. Dopo esser trasalito un paio di volte per strada, perché il cigolio del tram sulle rotaie mi ricorda le granate in arrivo, ecco che qualcuno mi batte sulla spalla. È il mio professore di tedesco, che mi assale con le domande di rito: «Ebbé, come va lassù? Terribile, terribile, vero? Ah, sì, è una cosa atroce, ma resistere bisogna. E alla fin fine laggiù il vitto almeno è buono, a quanto mi si dice: infatti lei ha una buona cera, Paolo, aspetto florido. Bravo, bravo! Qui beninteso si sta peggio, come è giusto, si capisce: il meglio sempre per i nostri soldati!».
Mi trascina al suo tavolo di birreria, dove i suoi amici mi fanno un’accoglienza grandiosa. Un direttore di azienda mi stringe la mano: «Dunque, Lei viene dal fronte? Bravo! Com’è lo spirito delle truppe? Eccellente, nevvero? Eccellente».
Io spiego che tutti si verrebbe a casa volentieri. Lui ride rumorosamente: «Lo credo bene! Ma prima dovete dare una buona strigliata ai Francesi! Lei fuma? Qua, si accenda questo sigaro. Cameriere, una birra per il nostro giovane guerriero».
[…] Discutono circa i paesi che ci dobbiamo annettere. Il direttore d’azienda, con la sua ferra catena d’orologio, è quello che pretende di più: tutto il Belgio, i bacini carboniferi della Francia, vaste regioni della Russia; e dà motivazioni precise circa la necessità di possedere tutto questo; ed è inflessibile, finché gli altri non consentono con lui. Poi comincia a spiegare dove si debba spezzare in Francia il fronte avversario, e di quando in quando si rivolge a me: «Dovreste farla un po’ finita con quella vostra eterna guerra di posizione. Date una buona scoppola a quelle canaglie, e avremo la pace».
Gli rispondo che a nostro avviso non è possibile aprire una breccia nel fronte nemico. Quelli di là hanno troppe riserve. Inoltre la guerra è alquanto diversa da ciò che qui si immagina. Ma lui ribatte con sussiego, e mi dimostra che io non ne capisco nulla.
«Naturale, così pare al singolo individuo» dice «ma non bisogna perdere di vista l’insieme. E l’insieme voi non lo potete giudicare: voi non vedete che il vostro piccolo settore. Arrischiate ogni giorno la vita, ciò è altamente onorevole – ciascuno di voi dovrebbe avere la croce di ferro – ma l’importante è che il fronte nemico sia spazzato in Fiandra e respinto indietro tutto, procedendo da nord a sud».
E qui soffia, e si asciuga la barba. […]
Nota. Tratto da Erich M. Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, trad. di Stefano Jacini, Mondadori [collana Oscar], Milano 1965, pp. 136-139. La prima edizione italiana è del 1931. Il particolare delle farfalle a p. 107. Il film tratto dal romanzo fu messo al bando nel 1930 dalla Repubblica di Weimar, che vi vedeva “una minaccia all’ordine interno e all’immagine della Germania nel mondo” (così Georg Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 220).
Le puntate precedenti:
17. Aldo Palazzeschi, Il mandolino è mille volte superiore al cannone
16. Romain Rolland, Opinioni di Albert Einstein sulla guerra in corso
15. Simone Weil, La società attuale è un’immensa macchina di cui nessuno conosce i comandi
14. Andreas Latzko, Malato io?
13. Józef Wittlin, I misteri della subordinazione militare
12. Elias Canetti, Inni nazionali e facce stravolte dall’odio
11. Karl Kraus, Davanti a una bottega di barbiere
10. Jaroslav Hašek, Quale Ferdinando, signora Müller?
9. Virginia Woolf, Togliere dai cuori degli uomini l’amore delle medaglie e delle decorazioni
8. La rivolta della Catanzaro, da Plotone di esecuzione
7. Emilio Lussu, Un episodio di decimazione
6. Corina Corradi, La scena si faceva sempre più spaventosa
5. Helena M. Swanwick, Il senso dell’onore è causa di guerre
4. Romain Rolland, Ciascuno ha il suo Dio e combatte quello degli altri
3. Guglielmo Ferrero, Cesarismo, burocrazia, esercito
2. Bertha von Suttner, La storia insegna l’ammirazione per la guerra