di Marco Toscano
Nuovo appuntamento con le letture del nostro amico Marco Toscano intorno alla prima guerra mondiale, e alla guerra in generale.
Cari di storiAmestre,
come vi ho raccontato nella mia ultima scheda di lettura, Andreas Latzko osservò nel 1917 che il termine “guerra” designava una cosa del tutto nuova nella storia: per la prima volta cannoni “appiattati dietro a montagne” vomitavano la morte “a distanze enormi”, e “in luogo di coraggio e forza” contavano “gli obici”, “la portata dei cannoni e l’assiduità delle donne e dei fanciulli nel far granate”. La percezione di che cos’era divenuta la guerra – uno sterminio di massa dominato da una spaventosa tecnologia distruttiva in cui uomini e animali erano al servizio delle macchine – si fece più chiara e si diffuse negli anni successivi. Per questo ho ripreso in mano gli scritti di Simone Weil, non perché lei appartenga alla generazione del 1914 (quando in Europa furono mobilitati gli eserciti aveva cinque anni), ma perché nei primi anni Trenta, presagendo con angoscia l’avvicinarsi di un nuovo conflitto mondiale, Simone Weil fu tra quanti rifletterono con maggiore lucidità sulla guerra moderna inauguratasi nel 1914-18.
In uno scritto del 1933 Simone Weil analizzò le tradizionali posizioni del movimento operaio nei confronti della guerra. Fino al conflitto del 1914-18, osservò, il movimento rivoluzionario europeo si basava sul ricordo leggendario della guerra del 1792 perpetuato dall’inno della Marsigliese: di lì era nata “la concezione della guerra rivoluzionaria, difensiva e offensiva, di una guerra che era non solo una forma legittima, ma una delle forme più gloriose della lotta delle masse lavoratrici insorte contro gli oppressori”. I rivoluzionari giudicavano in altre parole la guerra “non per la violenza dei mezzi impiegati, ma per gli obiettivi perseguiti attraverso questi mezzi”. Anche dopo il 1918 il movimento operaio, pur con divisioni interne che Simone Weil analizza, continuava a mantenere questo atteggiamento: “invece di condannare la guerra in quanto imperialista, ci si è messi a condannare l’imperialismo in quanto fomentatore di guerre”. Non ci si era ancora resi conto in altre parole che “la guerra moderna differisce assolutamente da tutto ciò che veniva indicato con questo nome sotto i precedenti regimi”. Bisognava al contrario considerare la guerra per i mezzi che mette in atto, non per gli scopi che proclama. Come il sistema produttivo sottomette i lavoratori ai mezzi di produzione diretti da chi non lavora, così la guerra assoggetta i soldati ai mezzi di combattimento guidati da chi non combatte. Riducendo i propri cittadini “alla condizione di materia passiva nelle mani d’un apparato militare e burocratico”, la guerra non risponde a logiche di politica estera ma a esigenze di politica interna: da qui avrebbe dovuto prendere il via una riflessione del movimento operaio, abbandonando vecchie posizioni anche alla luce delle novità di cui la prima guerra mondiale era l’emblema (la seconda doveva ancora arrivare). Il brano che ho scelto per questa scheda denuncia gli apparati industriali e burocratici che opprimono le masse e dirigono gli Stati e le guerre, e invita a sottrarsi al loro funzionamento per rimanere fedeli ai valori umani.
Simone Weil (1909-1943) nacque a Parigi da genitori ebrei (padre alsaziano, madre russa); nel suo percorso fu molto influenzata dal suo professore di filosofia, Alain, che i lettori del sito hanno cominciato a conoscere l’anno scorso, grazie alle traduzioni di Giacomo Corazzol. Fu vicina ad ambienti anarchici, marxisti eterodossi, sindacalisti rivoluzionari, pacifisti; si accostò al pensiero mistico; nel luglio 1942 riparò con i genitori a New York; alla fine del 1942 si recò a Londra per partecipare all’attività dell’organizzazione di esuli antifascisti France Libre, e a Londra morì pochi mesi dopo, a trentaquattro anni. I suoi scritti furono fatti conoscere da Albert Camus.
Nel ringraziarvi per l’attenzione, vi manda un caro saluto
Marco Toscano
La società attuale è un’immensa macchina di cui nessuno conosce i comandi, di Simone Weil
Da un lato la guerra non fa che prolungare quell’altra guerra che si chiama concorrenza e che rende la produzione stessa una semplice forma di lotta per il dominio; dall’altro, tutta la vita economica è attualmente orientata verso una guerra futura. In questo intreccio inestricabile del fattore militare con quello economico, in cui le armi sono messe al servizio della concorrenza e la produzione al servizio della guerra, questa non fa che riprodurre i rapporti sociali che costituiscono la struttura stessa del regime, ma a un livello molto più elevato. Marx ha mostrato con forza che il modo moderno della produzione si definisce attraverso la subordinazione dei lavoratori agli strumenti del lavoro, strumento di cui dispongono coloro che non lavorano; e ha mostrato inoltre che la concorrenza, non conoscendo altra arma che lo sfruttamento degli operai, si trasforma nella lotta di ogni padrone contro i suoi stessi operai, e, in ultima analisi, nella lotta dell’insieme dei padroni contro l’insieme degli operai. Allo stesso modo, la guerra, ai giorni nostri, si definisce attraverso la subordinazione dei combattenti ai mezzi di combattimento; e gli armamenti, autentici eroi della guerra moderna, sono, come gli uomini votati al loro servizio, diretti da coloro che non combattono. Poiché questo apparato direttivo non ha altro mezzo per sconfiggere il nemico che quello di mandare a morire i propri soldati con la forza, la guerra di uno Stato contro un altro Stato si trasforma immediatamente in una guerra dell’apparato statale e militare contro il proprio esercito. E la guerra rivela d’essere in ultima analisi una guerra condotta dall’insieme degli apparati di Stato e degli Stati maggiori contro l’insieme degli uomini validi, in età da portare le armi. Solo che, mentre le macchine strappano ai lavoratori solo la forza lavoro, e i padroni non hanno altro mezzo di costrizione che il licenziamento – un mezzo limitato dalla possibilità che il lavoratore ha di scegliere tra diversi padroni – ogni soldato è invece costretto a sacrificare la sua stessa vita alle esigenze dell’apparato militare, e vi è costretto attraverso la minaccia di un’esecuzione senza processo che il potere dello Stato mantiene costantemente sospesa sul suo capo. Di conseguenza, importa assai poco che la guerra sia difensiva o offensiva, imperialista o nazionale; ogni Stato in guerra è costretto a usare questo metodo dal momento che il nemico lo usa. Il grande errore di cui quasi tutti gli studi relativi ai conflitti armati, errore in cui sono caduti in particolare tutti i socialisti, è quello di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre essa costituisce innanzitutto un fatto di politica interna, e il più atroce di tutti. Non si tratta qui di considerazioni sentimentali o di un rispetto superstizioso della vita umana. Si tratta di una considerazione assai semplice: il massacro è la forma più radicale dell’oppressione; i soldati non si espongono alla morte, sono mandati al massacro […]; armi gestite da un apparato di Stato sovrano non possono portare alla libertà di nessuno.
[…] E, in particolare, in caso di guerra bisogna scegliere: o ostacolare il funzionamento della macchina militare di cui ognuno in sé costituisce un ingranaggio, o aiutare questa macchina a stritolare ciecamente le vite umane. La celebre frase di Liebknecht “Il nemico principale è nel nostro stesso paese”, acquista così interamente il suo senso, e si rivela applicabile a ogni guerra in cui i soldati vengono ridotti alla condizione di materia passiva nelle mani d’un apparato militare e burocratico. […]
Ogni tentativo rivoluzionario avrà qualcosa di disperato finché non escogiteremo il modo di evitare, nell’atto stesso di produrre e di combattere, questa oppressione degli apparati sulle masse. […] La società attuale è paragonabile a un’immensa macchina, che senza sosta ghermisce gli uomini, e di cui nessuno conosce i comandi; e coloro che si sacrificano per il progresso sociale sembrano persone che si aggrappano alle rotelle e alle cinghie di trasmissione per cercare di fermare la macchina, facendosi a loro volta stritolare. Ma l’impotenza che non deve mai essere considerata definitiva, non può esentare dal rimanere fedeli a se stessi, né scusare la capitolazione davanti al nemico, qualunque maschera assuma. Il nemico capitale rimane l’apparato amministrativo, poliziesco e militare, qualunque sia il nome di cui si fregi: fascismo, democrazia o dittatura del proletariato. E non è il nemico che abbiamo di fronte, perché lo è solo nella misura in cui è quello dei nostri fratelli, ma è il nemico che dice d’essere il nostro difensore e fa di noi degli schiavi. Il peggior tradimento possibile, in qualunque circostanza, consiste sempre nell’accettare di sottostare a questo apparato e di calpestare in se stessi e negli altri, per servirlo, tutti i valori umani.
Nota. Tratto da Simone Weil, Riflessioni sulla guerra (1933), in Ead., Sulla guerra. Scritti 1933-1943, traduzione e cura di Donatella Zazzi, Pratiche editrice, Milano 1998, pp. 32-33, 38-39 (lo scritto, da cui provengono le altre citazioni della scheda, alle pp. 27-39). Si veda anche l’Introduzione, pp. 9-26. (m.t.)
Le puntate precedenti:
14. Andreas Latzko, Malato io?
13. Józef Wittlin, I misteri della subordinazione militare
12. Elias Canetti, Inni nazionali e facce stravolte dall’odio
11. Karl Kraus, Davanti a una bottega di barbiere
10. Jaroslav Hašek, Quale Ferdinando, signora Müller?
9. Virginia Woolf, Togliere dai cuori degli uomini l’amore delle medaglie e delle decorazioni
8. La rivolta della Catanzaro, da Plotone di esecuzione
7. Emilio Lussu, Un episodio di decimazione
6. Corina Corradi, La scena si faceva sempre più spaventosa
5. Helena M. Swanwick, Il senso dell’onore è causa di guerre
4. Romain Rolland, Ciascuno ha il suo Dio e combatte quello degli altri
3. Guglielmo Ferrero, Cesarismo, burocrazia, esercito
2. Bertha von Suttner, La storia insegna l’ammirazione per la guerra