di Marco Toscano
Nuovo appuntamento con le letture del nostro amico Marco Toscano intorno alla prima guerra mondiale, e alla guerra in generale.
Cari di storiAmestre,
nell’estate 1917 uscì a Zurigo un libro anonimo dal titolo Menschen in Krieg (Uomini in guerra). Romain Rolland scrisse nel suo diario che si trattava di una raccolta di racconti “legati l’uno all’altro solo dal comune orrore della guerra”, stupendosi che autori di una requisitoria così radicale contro governi, comandi militari e fabbricanti d’armi fossero non soldati semplici ma ufficiali, com’erano i protagonisti del libro. L’autore, Andreas Latzko (1876-1943), ebreo ungherese, quarant’anni, aveva combattuto come primo tenente nel fronte italiano sull’Isonzo. Ricoverato in ospedale otto mesi per shock da combattimento, alla fine del 1916 aveva potuto raggiungere la Svizzera, dove aveva scritto il libro. Nel settembre 1918 andò a fare visita a Rolland, che lo descrisse nel diario come “un piccolo ebreo debole, magrissimo, un po’ contorto, con un lungo viso olivastro, un lungo naso da rabbino”. Alle domande di Rolland che chiedeva come fosse stato ferito, Latzko raccontò di aver avuto in realtà “una violenta scossa nervosa”. Tutto era nato dopo aver visto “due buoi e tre uomini fatti a pezzi da una granata”: due giorni dopo, “mentre mettevano in tavola un piatto di manzo ai ferri, si mise a urlare, a vomitare, fu preso da convulsioni”; per sei mesi “continuò a tremare in tutto il corpo e a rifiutare il cibo”, tanto che “dovettero nutrirlo con una sonda”. Riuscì a rimanere in Svizzera fino alla fine della guerra. Riparato in Olanda nel 1931, all’arrivo dei nazisti, che avevano bruciato i suoi libri, scappò negli Stati Uniti, dove morì nel 1943. Uomini in guerra fu tradotto in italiano dalla Società editrice “Avanti!” nel 1921: ed è da questo opuscolo con le pagine ingiallite che vengono le citazioni.
Nei racconti di Uomini in guerra la verità viene gridata dai pazzi. Nel primo racconto un tenente, con “tono doloroso di una lamentazione, che usciva dalla gola serrata come il singhiozzo di un ubriaco”, ribalta la retorica sui primi giorni di guerra e dice che la scena più crudele di tutte non è stato il fronte bensì la partenza, quando le donne sorridevano e gettavano rose perché “ognuna si sarebbe vergognata di non avere un eroe in famiglia”. E così ogni uomo è partito pensando che con una medaglia avrebbe potuto portare via le donne degli altri. “Le donne ci han mandati al fronte! Nessun generale avrebbe potuto fare qualcosa, se le donne non ci avessero cacciati nei treni, se esse avessero gridato che non ci guardavano più in faccia se diventavamo assassini. Non uno sarebbe andato al fronte, se le donne avessero giurato che nessuna di loro sarebbe andata a letto con un uomo il quale abbia spaccato crani, fucilato uomini, trafitti i suoi simili. Non uno, vi dico”. E più avanti: “Non hai mai sentito parlare delle suffragette che hanno schiaffeggiato ministri, incendiato musei, che si son fatti incatenare alla lanterna per avere il diritto al voto? Per il diritto al voto, comprendi? E per i loro mariti, no? Non un tono, non un grido! […] Hai tu mai sentito parlare di una donna, che si sia gettata davanti al treno per suo marito? Ha forse mai una donna schiaffeggiato per noi i ministri, o si è mai aggrappata alle rotaie? Neppur una hanno dovuto strappar via. Neppure una ha lottato, neppure una ci ha difesi” e così via. Dopo aver chiesto al medico di aprirgli la testa e di tirar fuori sua moglie, il tenente si strappa con forza un ciuffo di capelli. Dei soldati lo bloccano e lo riportano nell’edificio dov’è ricoverato.
Per scegliere qualche passo per la mia scheda mi soffermerò sul racconto Il camerata, che si presenta sotto forma di diario. Autore del diario è un ufficiale che scrive di aver conosciuto “sulla via che conduce a Gorizia” un commilitone, un soldato semplice che da allora non l’ha più lasciato. Lo segue dappertutto, a tre passi di distanza come prescrive il regolamento, sta zitto e lo guarda con insistenza. “Egli è entrato nel mio essere, vi si è comodamente installato. Vive in me, come nella cassetta nera del cinematografo, il misterioso mago, che, al di sopra delle teste degli spettatori, sta chino alla manovella; e attraverso i miei occhi proietta la sua immagine su ogni muro, ogni tenda, ogni superficie, su cui si posa il mio sguardo”. I medici non gli credono. “I medici non credono che un uomo possa unirsi ad un altro nella morte, che egli possa sopravvivere a sé stesso nel corpo di un altro con sì tenace inesorabilità. […] Ma io so, che non sono io a trascinare a forza attraverso la mia vita il camerata morto. So che il morto vive nel mio essere più intensamente di me stesso! […] alla manovella siede il morto! È lui l’operatore cinematografico”. Il racconto diventa così una requisitoria contro i medici e le loro diagnosi, contro i generali e i loro bollettini di guerra, contro i giornali e la loro propaganda. In conclusione, chi tiene viva la memoria mette in crisi l’ordine; chi rivela il volto delle cose viene preso per pazzo.
Nel ringraziarvi, un caro saluto dal vostro
Marco Toscano
Malato io?, di Andreas Latzko
Bisogna dunque, per essere considerato sano di mente, trattare il proprio cervello come lavagna, bisogna dunque strappare, a comando, le orribili immagini scritte a carattere di fuoco nel cuore, così come si strappano le pagine di un album di fotografie…
Un uomo è morto davanti ai miei occhi; morte dura e dolorosa; dopo fiera lotta, lacerato dai due titani: la vita e la morte. E perché io, che ho conservato nel mio cervello, come tante istantanee, tutte le fasi della sua lotta, e le debbo rivivere con sempre nuova forza, perché quanto accade me le fa inesorabilmente rievocare, dovrei essere malato?… Malato io? E quelli che possono sorvolare, come su pagine bianche, sulla sbranamento, sul dilaniamento, sul calpestamento dei loro fratelli, sulla lenta, tormentosa fine di uomini nei reticolati spinosi, costoro sarebbero i sani?
Ma, signori dottori, ditemi voi come posso fare per dimenticare. […]
“Verso il fronte!”
Sono proprio io il malato, perché non posso scrivere né pronunciare questa parola senza che l’odio più intenso mi faccia rivoltare la lingua? O non sono forse pazzi gli altri, che, con devozione mista a romantica bramosia e a paurosa simpatia fissano lo sguardo, come ipnotizzati, su questa fabbrica meccanica di mutilati e di cadaveri? Non sarebbe più giusto osservare una volta lo stato mentale di questi altri? Devo dirlo forse io ai signori dottori, che mi sorvegliano tanto pietosamente, che causa di tutto il male sono state le poche parole lanciate come cani arrabbiati sull’umanità?
“Fronte”, “nemico”, “morte eroica”, “vittoria”. […]
Figuriamoci che la parola “guerra” non sia stata ancora inventata, non ancora santificata dall’uso millenario, come una enorme trappola avviluppata in vividi colori. Chi oserebbe sostituire la deficiente espressione “dichiarazione di guerra” col discorso seguente?
“Dopo lunghe e infruttuose trattative, il nostro rappresentante presso lo Stato vicino ne è ripartito oggi. Dal finestrino del suo vagone-salone ha sventolato, per l’ultima volta, il suo cilindro davanti ai signori che son venuti ad accompagnarlo. Egli non andrà più incontro a loro con un amabile sorriso sulle labbra, fino a che voi non avrete assassinato molte centinaia di migliaia di uomini dello Stato vicino. Avanti, dunque! Dentro nei vostri vagoni-merci, per 6 cavalli o 28 uomini! Andate incontro a questi altri! Ammazzateli, tagliate loro la gola, rintanatevi come bestie feroci in umidi antri, abbrutiti, inselvatichiti, coperti di pidocchi… fino a che riterremo giunto il momento opportuno per sederci di nuovo nel vagone-salone e sventolare il cilindro e cominciare a discutere, con ogni distinzione e compostezza, in sale sontuose, intorno al vantaggio che da quel macello può derivare ai nostri padroni di fabbrica e ai nostri grandi negozianti. Allora, se non siete ancora marciti sotto la terra, e se non zoppicate, elemosinando di porta in porta, potete ritornarvene a casa dalle vostre famiglie mezzo affamate e potete – no, dovete! – rimettervi al lavoro, con zelo raddoppiato, più instancabile e con meno pretese di prima, per potere, con sudore e con privazioni, pagar le scarpe che avete lacerato in cento marche e gli abiti che vi ammuffiscono addosso!…”
[…] È permesso servirsi abusivamente della parola “guerra” come di stendardo, quando, in luogo di coraggio e forza, lottano gli obici e la portata dei cannoni e l’assiduità delle donne e dei fanciulli nel far granate? Chi osa ancora nominare senza rispetto i tiranni di oscuri tempi passati, i quali gettavano uomini impotenti ai piedi di leoni e di tigri, quando si paragonino a quelli che sui fili telegrafici dirigono, come un gioco di marionette, questa lotta tra uomo e macchina, animati dalla bella speranza che la nostra provvista di carne umana possa durare un po’ più a lungo che non la provvista d’acciaio e di ferro dell’avversario?
No! Tutte le parole che furono coniate prima dell’inizio di questo macello, son troppo belle e troppo ideali; come la parola “fronte” che ho imparato ad odiare! Si tien forse “fronte” a cannoni che, appiattati dietro a montagne, vomitano la morte a distanze enormi, o a trincee serpeggianti, invisibili, dieci metri sotto terra? […]
Quando io, sull’imbrunire, discesi a quella stazione, vidi seduto a terra, appoggiato alla ringhiera della panchina, un soldato barbuto, col braccio destro al collo. E quando vide passar me, sano e ben vestito, accarezzò amorosamente con la mano sinistra la sua destra sfracellata, mi gettò un’occhiata cattiva, piena d’odio, e gridò, digrignando i denti:
– Già, signor tenente. Qui si fa un’insalata d’uomini!…
Come dimenticare il malizioso sogghigno, che allargò quella bocca convulsa dallo spasimo? Sono io malato, se non posso udire più la parola “fronte” senza che un’inevitabile eco mi gridi negli orecchi “insalata d’uomini”? Oppure sono malati gli altri, i quali, invece d’udire l’espressione “insalata d’uomini”, ingoiano avidamente il miserabile cicaleccio di quei contemporanei bardi di guerra che, simili a viaggiatori di vini, fanno alacremente la réclame per la marca “Guerra mondiale”, per avere il diritto di girare in automobile come un generale in capo, invece di star distesi nel fango, in faccia alla morte, agli ordini di un appuntato?
[…] Ci sono uomini, che ritornano a casa con occhi muti, attoniti, in cui si rispecchia ancora la morte. Dubitosi, come sonnambuli, passano per le strade fulgenti di luce. Nei loro orecchi risuona ancora il bestiale ruggito, che essi stessi urlarono nell’uragano del fuoco tambureggiante, per non dover scoppiare dall’intimo affanno. Presi d’orrore, come un mulo sotto il peso del suo carico, essi arrivano, avendo nella coscienza l’attonito sguardo dei nemici uccisi, infilzati. Non osano aprir bocca, perché intorno a loro la stessa moglie, i figli, pieni di curiosità, chiacchierano di granate, di bombe a gas, di assalti alla baionetta. Così passano i giorni di licenza, e il ritorno verso la morte è per essi una liberazione dall’onta: quella di essere stati vili, mascherati fra i rimasti a casa, per cui la morte e il macello son diventati luoghi comuni senza orrore.
Nota. Tratto da Andrea Latzko, Uomini in guerra, trad. di Amalia Sacerdote, Società editrice “Avanti!”, Milano 1921, pp. 119-127; il racconto Il camerata alle pp. 113-138; le altre citazioni alle pp. 30-33. Uno dei racconti – una satira di un generale delle retrovie coperto di medaglie e provvisto di un ricco stipendio – è disponibile online sul sito Storia in Network. Le citazioni da Rolland in Romain Rolland, Diario degli anni di guerra 1914-1919, 2 vol., trad. di Giovanna Bonchio, Parenti, Milano-Firenze 1960, II, pp. 340 e 561. (m.t.)
Le puntate precedenti:
13. Józef Wittlin, I misteri della subordinazione militare
12. Elias Canetti, Inni nazionali e facce stravolte dall’odio
11. Karl Kraus, Davanti a una bottega di barbiere
10. Jaroslav Hašek, Quale Ferdinando, signora Müller?
9. Virginia Woolf, Togliere dai cuori degli uomini l’amore delle medaglie e delle decorazioni
8. La rivolta della Catanzaro, da Plotone di esecuzione
7. Emilio Lussu, Un episodio di decimazione
6. Corina Corradi, La scena si faceva sempre più spaventosa
5. Helena M. Swanwick, Il senso dell’onore è causa di guerre
4. Romain Rolland, Ciascuno ha il suo Dio e combatte quello degli altri
3. Guglielmo Ferrero, Cesarismo, burocrazia, esercito
2. Bertha von Suttner, La storia insegna l’ammirazione per la guerra
Davide dice
Sto leggendo in questi giorni il libro, ripubblicato questa estate da Keller di Rovereto con una nuova traduzione di Melissa Maggioni, e sono rimasto colpito da una espressione. Il secondo episodio “Il battesimo del fuoco” è basato sulla contrapposizione tra il capitano Marschner e il tenente Weixler; il primo è la figura positiva del racconto mentre il secondo rappresenta l’assurdo eroismo bellico. C’è un dialogo durante il cambio della truppa della prima linea: il tenente del plotone che deve lasciare la linea racconta a Weixler degli attacchi subiti nei giorni precedenti in cui ha perso molti uomini e commenta:
«“Che domande!” gridò in faccia al suo ascoltatore ridendo. “Se anche gli italiani hanno avuto grandi perdite? Sì, credi che siamo stati lì a farci sparare addosso? Te lo puoi immaginare che cosa hanno perso, negli undici attacchi, se da me sono rimasti trenta uomini senza uscire dalla trincea. Devono solo andare avanti così, ancora qualche settimana, e avranno finito il loro materiale umano!”
Il capitano Marschner non aveva voluto prestare attenzione, era chino sulla carta e balzò in piedi quando l’espressione “materiale umano” gli arrivò all’orecchio. Nei suoi pensieri risuonava come un grido di scherno, come se i due avessero capito le sue intenzioni e si fossero dati appuntamento per fargli vedere quanto era solo.
“Materiale umano!”».
Ecco, quel “materiale umano” mi ricorda molto l’espressione “risorse umane” molto in voga nelle aziende moderne.
PS. Per la nuova edizione del libro, potete vedere a questo indirizzo:
http://www.kellereditore.it/index.php?option=com_content&task=view&id=473&Itemid=85