di Marco Toscano
Il nostro amico Marco Toscano ci ha scritto dopo tanto tempo. Per le ragioni che lui stesso spiega nell’introduzione, ha ripreso in mano libri accumulati in casa nel corso degli anni, sul tema della prima guerra mondiale, e ha deciso di condividere con noi le sue letture. Questo è il primo di una serie di appuntamenti.
Cari di storiAmestre,
vedendo il moltiplicarsi attorno a me delle commemorazioni della Prima guerra mondiale, mi è venuto voglia di dare un’occhiata alla mia libreria, accorgendomi di aver comperato nel corso degli anni un po’ di volumi su quella vicenda, pur non avendo interessi particolari a riguardo. Si tratta soprattutto di scritti che testimoniano il dissenso e il rifiuto, secondo gli insegnamenti appresi da bambino dai racconti di chi quella guerra l’aveva subita. A pensarci oggi, gli scritti che ho in casa sono delle variazioni sul tema dei racconti sentiti dai nonni e dalle nonne che avevano vissuto la guerra in trincea o nelle zone di occupazione: oppure delle risposte a interrogativi che le loro storie mi avevano suscitato.
Approfitto dunque del centenario per prendere in mano quelle pagine, su cui mi è capitato più volte di riflettere, e farne delle schede di lettura. Lo faccio in ordine sparso, senza uno schema in testa. Molti partecipanti o testimoni di quel massacro hanno scritto per i posteri, perché sapessero che cosa stava per avvenire o era avvenuto, e per scongiurarli di far di tutto per evitarlo. Ecco, cercherò di raccogliere le loro testimonianze, le loro voci, le loro grida, di rabbia e di avvertimento. Sarà questo, perlopiù, il criterio della scelta: un viaggio intorno alla mia stanza, che è anche un viaggio intorno al Tempo.
Il testo che ho scelto per primo è una lettera che Kurt Tucholsky scrisse nel 1926 ai posteri, e più precisamente a un lettore del 1985, che doveva sembrargli una data lontanissima: a maggior ragione dovrebbe suonare attuale oggi. Tucholsky era nato a Berlino da una famiglia ebraica benestante di origine polacca. L’esperienza del fronte (nel 1914 aveva ventiquattro anni) lo portò a maturare posizioni antimilitariste: i suoi pamphlet più conosciuti del dopoguerra hanno per titolo Militaria. Tucholsky sentiva l’urgenza di rivolgersi ai posteri, perché era testimone del fatto che la memoria ufficiale che si andava costruendo era piena di bugie. Nel 1920 scrisse: «Dignitosi arriviamo alla posterità, talmente ritoccati che già oggi non ci riconosciamo più». Bisognava contrastare la falsificazione all’opera. In un’altra lettera indirizzata a un futuro storico del 1991 scrisse, a proposito del 1914: «Noi, signor professore, abbiamo un archivio del Reich, pagato con il denaro della comunità, che mente, mente, mente. […] Non presti fede all’archivio del Reich! Le cose non sono andate così» eccetera. In un altro articolo si rivolse ai giovani che sarebbero stati «la Germania del 1940» per dire loro «gli ideali che vi hanno insegnato sono sbagliati!» e per scongiurarli a intraprendere «la battaglia più morale che mai sia stata combattuta: quella contro la guerra». Ho scelto questa lettera perché, come ho detto, è rivolta a noi. Ve la trascrivo qui di seguito, con qualche taglio.
Marco Toscano
Una lettera ai posteri, di Kurt Tucholsky
«Caro lettore del 1985!
[…] Buon giorno. Sono molto imbarazzato: tu indossi un abito molto diverso dal mio di allora, e anche il cervello lo porti in tutt’altra maniera… Per tre volte tento di attaccare discorso: sempre con un argomento diverso, ci sarà pure un modo per stabilire un contatto… E ogni volta devo rinunciare: non ci comprendiamo affatto. Forse sono troppo piccolo; il mio tempo mi arriva al collo e con la testa riesco appena a vedere un po’ oltre… ecco, lo sapevo: ora ridi di me.
Tutto di me ti sembra fuori moda: lo stile, la grammatica, l’atteggiamento… eh non darmi una pacca sulla spalla, non mi piace. Invano cerco di spiegarti come ce la siamo passata, come è stato… niente. Sorridi, impotente la mia voce echeggia dal passato, e su ogni cosa la sai più lunga di me. Devo forse raccontarti che cosa turba la gente nel mio villaggio temporale? Ginevra? La prima di Shaw? Thomas Mann? […] Tu sbuffi su tutto, e la polvere si alza per metri, per la polvere non riesci a distinguere un bel niente.
Vuoi che ti faccia dei complimenti? Non ci riesco. Naturalmente voi non avete risolto il dilemma: “Lega delle Nazioni o Paneuropa”, l’umanità non risolve i problemi, ma li lascia lì a marcire. Sicuramente avrete a disposizione per la vita quotidiana trecento macchine inutili più di noi, ma per il resto siete altrettanto ottusi e altrettanto intelligenti, proprio come noi. E che cosa è rimasto di noi? Non frugare nella memoria, in ciò che hai imparato a scuola. È rimasto quel che è rimasto per caso, quel che era talmente neutro da poter giungere fino a voi; di ciò che era veramente importante, più o meno è arrivata solo la metà, e nessuno se ne cura, semmai un pochino la domenica mattina, al museo. È come se oggi volessi parlare con un uomo della Guerra dei Trent’anni. “Sì? All’assedio di Magdeburgo c’era tanto vento, vero…?”, e cose che si dicono in casi del genere. Non sono neppure in grado di conversare con te in modo elevato, sopra le teste dei miei contemporanei, della serie: noi due ci intendiamo, siamo entrambi progressisti. Ahimé, mio caro, anche tu sei un contemporaneo. Al solo pensiero che, alla parola “Bismarck”, tu debba frugare nella memoria per ricordare chi fosse, mi viene già da sghignazzare: non immagini nemmeno quanto la gente intorno a me vada fiera della sua immortalità… Ma lasciamo stare. Del resto ora vorrai andare a fare colazione.
Buon giorno. Questa carta è tutta ingiallita, come i denti dei nostri giudici; ecco, il foglio ti si sbriciola fra le dita…, beh, ormai è così vecchio. Vai con Dio, o comunque chiamerete allora quella cosa lì. Evidentemente non abbiamo molto da dirci, noi mediocri. La nostra vita è consumata, il contenuto è scomparso con noi. La forma era tutto.
Sì, voglio ancora stringerti la mano. Per educazione.
E ora te ne vai.
Ma questo voglio ancora gridarti dietro: Voi non siete migliori di noi, e nemmeno di quelli che c’erano prima. Neanche un po’, ma neanche un po’».
Nota. La traduzione è di Susanna Böhme-Kuby, Non più, non ancora. Kurt Tucholsky e la Repubblica di Weimar, il melangolo, Genova 2002, pp. 10-12. Le altre citazioni sono da Susanna Böhme-Kuby, Kurt Tucholsky ai posteri, “L’ospite ingrato”, VII (2004), 2, p. 167 (il saggio alle pp. 167-183), e da Alessandra Luise e Susanna Böhme-Kuby, Kurt Tucholsky. Quattro testi, ibid., p. 253 (i quattro testi alle pp. 247-261). (m.t.)