di Virginia Woolf
Nel 1931 la Lega cooperativa delle donne (Co-operative Women’s Guild), fondata a Londra nel 1883, pubblicò alcune autobiografie di donne proletarie inglesi. Era un progetto che risaliva a molti anni prima, a lungo rimandato per molte ragioni, compresa la prima guerra mondiale.
Invitata a scrivere una Prefazione alla raccolta, Virginia Woolf lo fece, vincendo una certa riluttanza, sotto forma di una lettera a Margaret Llewelyn Davies, segretaria della Lega. Vi rievocava un congresso della Lega del 1913, a cui aveva assistito, e una discussione avvenuta qualche mese dopo presso l’ufficio centrale dell’organizzazione, dove per la prima volta aveva potuto vedere le lettere che alcune donne avevano indirizzato alla Lega, raccontando le proprie vite. In quei testi trovò “qualcosa della minuziosità e della chiarezza di una descrizione di Defoe”.
Dopo aver affrontato il tema dei rapporti tra donne borghesi e proletarie, Virginia Woolf osservava che quelle autobiografie, scritte “in cucina, nei ritagli di tempo libero, in mezzo a ogni sorta di distrazioni e ostacoli” rappresentavano un documento della “stupefacente vitalità dello spirito umano”, di quella “innata energia che nessuna sequela di parti e di bucati era riuscita a spegnere”.
Lettera introduttiva a Margaret Llewelyn Davies
Quando mi chiese una prefazione per una raccolta da lei curata di lettere di donne proletarie, le risposi che avrei preferito annegare piuttosto che scrivere una prefazione a qualsiasi libro del genere. Il mio ragionamento – e credo si tratti di un ragionamento corretto – era che i libri debbono reggersi sulle proprie gambe: se hanno bisogno di essere puntellati da una prefazione di qua e da introduzione di là, non hanno diritto di esistere più di un tavolino che non stia dritto se non gli si infila un pezzo di carta sotto una gamba. Ma lei mi lasciò quelle lettere e sfogliandole mi accorsi che in questo caso il mio ragionamento non funzionava: questo libro non è un libro. Voltando le pagine, cominciai a chiedermi: che cos’è allora questo libro, se non è un libro? Quali qualità possiede? Quali idee fa venire in mente? Quali antichi ragionamenti e ricordi suscita in me? E poiché tutto ciò non aveva nulla a che fare con una introduzione e una prefazione, bensì mi riportava alla memoria lei e talune immagini del passato, ho allungato la mano per prendere un foglio di carta e ho scritto questa lettera, che è diretta non al pubblico, ma a lei.
Lei ha dimenticato (cominciai così a scrivere) una calda mattina di giugno a Newcastle nell’anno 1913, o almeno lei non ricorderà quello che ricordo io, perché era occupata in altre faccende: la sua attenzione era completamente assorbita da un tavolo verde, da parecchi fogli di carta e da un campanello, e per di più lei veniva spesso interrotta. C’era una donna che portava intorno al collo qualcosa di simile a una catena da sindaco, che prese posto forse alla sua destra; c’erano altre donne prive di ornamenti, tranne una penna stilografica e una cartella, che si sedettero forse alla sua sinistra. Ben presto lassù sul palco si era formato un coacervo di tavoli, calamai e bicchieri d’acqua, mentre sotto noi, parecchie centinaia di noi, parlando tutte insieme e facendo una gran confusione, riempivamo l’intero spazio di un qualche ampio edificio municipale. Come Dio volle, cominciarono i lavori. Forse c’era un organo che suonava, forse si cantarono delle canzoni. Poi di colpo il brusio e le risa cessarono. Suonò un campanello, qualcuno si alzò, una donna si fece strada tra noi, salì sul palco, parlò per esattamente cinque minuti, ridiscese dal palco. Appena si mise a sedere un’altra donna si alzò, salì sul palco, parlò esattamente per cinque minuti e ridiscese, poi si alzò una terza, e una quarta. E si proseguì nello stesso modo, un’oratrice dopo l’altra: chi si alzava da destra, chi da sinistra, chi dal centro, chi dal fondo della sala; tutte si facevano strada verso il podio, dicevano quel che avevano da dire e cedevano la parola a quella che seguiva. C’era nella regolarità di questo modo di procedere qualcosa di militare: pensavo che quelle donne erano come tiratori scelti, che a turno regolari si alzano in piedi con il fucile spianato per mirare a un bersaglio. Talvolta esse lo mancavano, e veniva uno scroscio di risa, talaltra lo centravano, e veniva uno scroscio di applausi. Ma che il singolo sparo andasse o meno a segno, rimaneva sempre identica l’attenzione con cui veniva presa la mira. Nessuno menava il can per l’aia, nessuna si abbandonava a facili effetti retorici. L’oratrice si faceva strada verso il podio tutta caricata del suo discorso, con dipinte sul volto la decisione e la risolutezza: aveva talmente tanto da dire tra le due scampanellate che non poteva sprecare un solo secondo. Era giunto il momento da lei aspettato forse per parecchi mesi, il momento per il quale aveva messo da parte il cappello, le scarpe, il vestito: dal suo abbigliamento emanava un’aria di modesta novità. Ma soprattutto era giunto il momento in cui stava per esprimere la sua opinione, l’opinione del suo elettorato, l’opinione delle donne che forse dal Devonshire, o dal Sussex, o da qualche nero villaggio minerario dello Yorkshire, l’avevano mandata al posto loro a esprimere la loro opinione a Newcastle.
Fu ben presto evidente che in una ampia parte dell’Inghilterra erano al lavoro menti energiche e attive: nel giugno del 1913 c’era gente che pensava alla riforma della legislazione sul divorzio, all’imposta sulla rendita fondiaria e al salario minimo, si occupava della protezione della maternità, del Trades Board Act1 e del prolungamento dell’obbligo scolastico oltre i quattordici anni, era unanime nel sostenere che il suffragio universale doveva diventare un provvedimento governativo. Insomma, c’era gente che si stava occupando delle più varie questioni di pubblico interesse con uno spirito di positiva combattività. Ma Accrington non vedeva le cose con gli occhi di Halifax, né Middlesborough con quelli di Plymouth: si tenevano discorsi a favore e discorsi contrari, venivano respinte mozioni e approvati emendamenti. Le mani si alzavano dritte come spade o, altrettanto rigide, venivano lasciate abbassate. Le oratrici si susseguivano una dopo l’altra e la mattinata era sezionata dal campanello in parti uguali di cinque minuti.
E intanto – lasci che io cerchi a distanza di diciassette anni di riassumere i pensieri che attraversavano la mente delle sue ospiti, venute da Londra e da altri luoghi non per partecipare ma solo per ascoltare –, e intanto che cos’era tutto ciò? Che cosa significava? Queste donne richiedevano il divorzio, l’istruzione, il voto, tutte cose ottime, richiedevano aumenti salariali e riduzioni d’orario: che cos’era di più ragionevole? Eppure, sebbene tutte le cose fossero tanto ragionevoli, molte espresse in modo tanto energico, alcune in modo tanto spiritoso, una pesante sensazione di disagio si andava insediando nella mente delle sue invitate e con inquietudine vi si aggirava. Tutte queste questioni – forse era questo il motivo di fondo di quel disastro – che stanno tanto a cuore alle persone qui riunite, questioni relative alla salute, all’istruzione, ai salari, queste richieste di uno scellino in più, del prolungamento di un anno della scuola, di otto ore invece di nove da trascorrere dietro un banco di negozio o in una fabbrica, non mi toccano nella carne e nel sangue. Se anche tutte le riforme richieste da queste donne fossero concesse in questo stesso istante ciò non sposterebbe un solo capello della mia comoda testa capitalistica. Il mio interesse è quindi puramente altruistico, privo di spessore, color chiaro di luna. Il mio sangue non c’entra, né vi è in esso vera urgenza. Posso battere le mani e i piedi forte quanto mi pare: ne esce un suono vuoto che mi tradisce. Sono una spettatrice benevola, irrimediabilmente separata dalle attrici: me ne sto qui seduta ad applaudire e a battere i piedi in modo ipocrita, totalmente isolata rispetto alle altre. E per di più, come culmine di tutto questo, la mia ragione (eravamo nel 1913, si ricordi) non poteva venirmi in soccorso, ma anzi mi diceva che, se anche tutte le risoluzioni fossero state approvate all’unanimità, i battiti dei piedi e gli applausi sarebbero rimasti un vuoto rumore. In ogni caso quel rumore sarebbe uscito dalla finestra aperta, andando a mescolarsi al rombo dei camion e al calpestio degli zoccoli dei cavalli sull’acciottolato di Newcastle sotto di noi: un confuso fragore. La mente poteva essere attiva, poteva essere aggressiva, ma era priva di corpo, non aveva gambe o braccia per dar forza alla sua volontà. In quell’intero uditorio, tra tutte quelle donne che lavoravano, facevano figli, strofinavano pavimenti, cucinavano, andavano al mercato, non ce n’era una sola che avesse il voto. Si divertano pure a sparare i loro colpi di fucile, tanto non colpiranno nessun bersaglio: sono armi caricate solo a salve. Questo pensiero era irritante e deprimente al massimo grado.
L’orologio aveva appena suonato le undici e mezza, dunque dovevano trascorrere ancora molte ore. E se si era raggiunto quel livello di irritazione e depressione alle undici e mezza del mattino, in quali abissi di noia e disperazione si sarebbe sprofondate alle cinque e mezza del pomeriggio? Come si poteva riuscire a sopportare un’altra giornata di arringhe? Come si poteva soprattutto affrontare lei, la nostra ospite, comunicandole che il suo congresso si era dimostrato così esasperante che si stava per ripartire per Londra col primo treno? L’unica speranza stava in qualche felice gioco di prestigio, in qualche mutamento di atteggiamento per cui i discorsi da nebbia e vuoto si trasformassero in carne e sangue: in caso contrario, sarebbero rimasti intollerabili. Ma immaginiamo che si fosse detto, come dicono i bambini, “facciamo finta”. “Facciamo finta – una diceva a se stessa guardando l’oratrice – che io sia la signora Giles di Durham City”. Una donna che portava quel nome aveva proprio allora cominciato il suo discorso. “Sono la moglie di un minatore. Quando torna a casa è sempre sporco di carbone. Prima deve fare il bagno. Poi deve mangiare la minestra. Ma c’è un unico paiolo per far scaldare l’acqua. Il mio fornello è pieno zeppo di pentole da lavare. Il mio lavoro pare non faccia mai un passo avanti. Tutti i miei bricchi di coccio sono sempre coperti di polvere. Perché, in nome di Dio, non devo avere l’acqua calda e la luce elettrica, mentre le donne borghesi…” Così balzo in piedi e chiedo con passione “congegni elettrici che sostituiscano il lavoro domestico e riforma della politica degli alloggi”. Balzo in piedi nella persona della signora Giles di Durham, della signora Phillis di Bacup, della signora Edwards di Wolverton. Ma in fin dei conti l’immaginazione è in gran parte figlia della carne. Non si può essere la signora Giles di Durham se il proprio corpo non è mai stato chino sulla tinozza del bucato, se le proprie mani non hanno mai dovuto lavare, pulire, tagliare la carne (chissà poi quale) con cui prepara la minestra di un minatore. Così il quadro che una si andava configurando conteneva sempre qualche elemento non pertinente: si stava sedute in poltrona, o si leggeva un libro o si contemplavano paesaggi terrestri o marini – forse la Grecia o l’Italia –, mentre la signora Giles o la signora Edwards devono aver contemplato solo mucchi di scorie e interminabili file di case coi tetti color ardesia. C’era sempre qualcosa che si insinuava nel quadro, provenendo da un mondo che non era il loro e rendendo il quadro falso e il gioco troppo simile a un gioco perché valesse la pena di continuarlo.
Era vero che si potevano sempre correggere questi ritratti immaginari gettando uno sguardo sulle persone reali, la signora Thomas o la signora Langrish, o la signorina Bolt di Hebden Bridge. Valeva la pena guardarle. Cero, nella loro vita non c’erano poltrone né luce elettrica né acqua calda, non c’erano nei loro sogni colline della Grecia né golfi del Mediterraneo. Fornai e macellai non chiedevano loro per telefono le ordinazioni. Quelle donne non firmavano un assegno per pagare i conti della settimana né prenotavano per telefono un posto economico ma da cui si vedesse bene all’opera; se facevano un viaggio, si trattava di una gita di un giorno, con i panini nella borsa e i bambini in braccio. Non girellavano per casa dicendo che bisognava mettere nei panni sporchi quella coperta o cambiare quei lenzuoli: immergevano le braccia nell’acqua bollente e strofinavano energicamente i panni loro stesse. I loro corpi, di conseguenza, erano massicci e muscolosi, le loro mani grosse, i loro gesti lenti e accentuati come quelli di chi, spesso indolenzito fino allo sfinimento, si lascia cadere come un sacco su una sedia dalla spalliera rigida. Quelle donne non toccavano nulla con delicatezza: afferravano penne e matite come se si fosse trattato di scope. I loro volti erano compatti, solcati da pieghe pesanti e profonde rughe, i loro muscoli sembravano sempre tesi e sotto sforzo, i loro sguardi sembravano sempre rivolti a un oggetto concreto: pentole che traboccavano o bambini che si facevano male. Le loro labbra non esprimevano mai le emozioni più leggere e disinteressate, che emergono quando la mente è perfettamente tranquilla per quanto riguarda il presente. No, quelle donne non erano minimamente disinteressate, né disinvolte, né cosmopolite. Erano indigene e radicate in un solo luogo. Persino i loro nomi erano come i sassi che si trovano nei campi: comuni, grigi, consunti, oscuri, privi di ogni splendore metaforico o romantico. Era naturale che quelle donne volessero stanze da bagno, forni, istruzione, diciassette scellini invece di sedici, libertà, aria e… “E – disse la signora Winthrop di Spennymoor, spezzando bruscamente il filo di questi pensieri con parole che suonavano come un ritornello – possiamo aspettare…”. “Sì”, ripeté come se avesse aspettato tanto a lungo che l’ultima ora di quella immensa vigilia non significasse nulla, giacché la meta era vicina, “possiamo aspettare”. E scese dalla sua pedana in modo un po’ rigido e si fece strada per tornare al suo posto, una donna anziana con indosso i vestiti della festa.
Poi parlò la signora Potter. Poi a signora Elphick. Poi la signora Holmes di Edgbaston. Si continuò così, e alla fine, dopo innumerevoli discorsi dopo molti pasti in comune alle lunghe tavole e molte discussioni – il mondo doveva essere riformato da cima a fondo in molti e svariati modi –, dopo aver visto mettere in barattolo le marmellate della cooperativa e confezionare i biscotti della cooperativa, dopo alcune canzoni e cerimonie con bandiere, la nuova presidentessa ricevette la catena che la investiva della sua carica con un bacio dalla presidentessa uscente, il congresso si sciolse, e le singole partecipanti che con tanto valore si erano alzate in piedi e avevano parlato con tanta audacia mentre l’orologio ticchettava i cinque minuti tornarono nello Yorkshire, nel Galles, nel Sussex e nel Devonshire, appesero i loro vestiti nell’armadio e di nuovo immersero le mani nella tinozza del bucato.
Un po’ di tempo dopo, in quella stessa estate, i pensieri che ho qui imperfettamente espresso furono di nuovo esposti, ma non in una sala pubblica ornata di bandiere e risuonante di voci. L’ufficio centrale della Lega, da cui, suppongo, provenivano oratrici, fogli di carta, calamai e bicchieri, si trovava allora a Hampstead. Fu là – se posso ancora ricordarle ciò che lei può facilmente aver dimenticato – che lei ci invitò per chiederci di dirle quali erano le nostre impressioni sul congresso. Ma devo fermarmi sulla soglia di quella casa antica, molto dignitosa coi suoi intagli e pannelli del ‘700, come in realtà noi ci fermammo allora, perché non era impossibile entrare e salire al piano di sopra senza incontrare la signorina Kidd. La signorina Kidd stava seduta alla sua macchina da scrivere nell’anticamera dell’ufficio. La signorina Kidd, si capiva, si era piazzata lì come una sorta di cane da guardia per respingere i borghesi importuni che vengono a far perdere tempo e a ficcare il naso negli affari degli altri. Se fosse questo il motivo per cui il colore del suo vestito era di quella particolare sfumatura di porpora scuro, lo ignoro: il colore sembrava in qualche modo simbolico. Era molto bassa, ma, a causa del senso di oppressione che emanava dal suo sguardo e della cupezza che sembrava diffondersi dal suo vestito, era anche molto pesante. Pareva che una parte spropositata delle ingiustizie del mondo gravasse sulle sue spalle. Quando batteva i tasti della macchina da scrivere, si capiva che stava usando quello strumento per trasmettere a un universo distratto messaggi pieni di neri presentimenti e cattivi presagi. Ma si addolciva, e come ogni raddolcimento che segua la cupezza, il suo arrivava con una grazia improvvisa.
Salimmo al piano di sopra, e al piano di sopra ci imbattemmo in un personaggio molto diverso: la signorina Lilian Harris in persona che, forse in virtù del vestito, che era color caffè, o del sorriso, che era sereno, o del posacenere, nel quale si erano graziosamente consumate numerose sigarette, sembrava l’immagine dell’equilibrio e dell’armonia. A chi avesse ignorato che la signorina Harris era rispetto al congresso quello che è il cuore rispetto alle vene più lontane, che senza di lei la grande macchina di Newcastle non avrebbe pulsato e rombato, che era stata lei a raccogliere, selezionare, convocare e organizzare quella assemblea di donne, lei certamente non lo avrebbe detto. Pareva non avesse assolutamente niente da fare: attaccava qualche francobollo e scriveva indirizzi su qualche busta – era una sua mania: questo risultava dai suoi gesti. Fu la signorina Harris a togliere le pile di carte dalle sedie e tirar fuori le tazze da tè dalla credenza. Fu lei a rispondere alle domande sulle varie donne, a poggiare la mano infallibilmente sul fascicolo giusto di lettere, a stare ad ascoltare, senza parlare molto ma con tranquilla comprensione, qualsiasi cosa le venisse detta.
Lasci che io di nuovo condensi in poche frasi e in una sola scena molti discorsi occasionali che si tennero in circostanze e luoghi diversi. Dicevamo allora – perché in quel momento lei emerse dalla stanza interna, e se la signorina Kidd era color porpora e la signorina Harris color caffè, lei, parlando da un punto di vista pittorico (e io non oso parlare in modo più esplicito), era azzurra come un martin pescatore e come quel veloce uccello acuta e decisa – dicevamo allora che il congresso aveva suscitato in noi pensieri e idee della natura più disparata. Era stato allo stesso tempo una rivelazione e una delusione, provocando in noi umiliazione e rabbia. In primo luogo, dicevamo, tutti i loro discorsi, o la maggior parte di essi, riguardavano fatti concreti. Quelle donne vogliono stanze da bagno e denaro. È impossibile pretendere che noi, la cui mente, così com’è, vola libera fino all’estremità del corto filo del nostro patrimonio, ci abbassiamo di nuovo legandoci a quel piccolo angolo di conoscenza e di desiderio. Noi possediamo stanze da bagno e denaro; per quanto intensamente possiamo aver partecipato, la nostra simpatia era in gran parte artificiosa: si trattava di una simpatia estetica, la simpatia dello sguardo e dell’immaginazione, non del cuore e dei nervi, e una simpatia di questo tipo dà sempre una sensazione fisica sgradevole. Chiariamo quel che intendiamo dire, aggiungevamo. Le donne della Lega sono splendide da guardare: le signore in abito da sera sono molto più graziose, ma prive del carattere scultoreo di queste donne proletarie. E sebbene la gamma delle espressioni sia tra queste ultime più limitata, le loro poche espressioni possiedono una forza e un’intensità, nel dramma o nell’ironia, che manca ai volti delle signore. Eppure, allo stesso tempo, è molto meglio essere una signora: le signore desiderano Mozart e Einstein, desiderano cioè cose che sono dei fini e non dei mezzi. Pertanto prendere in giro le signore e fare il verso, come facevano alcune oratrici, al loro modo affettato di parlare e alla loro scarsa conoscenza di quello che le oratrici stesse hanno stabilito definire “realtà” è, secondo noi non solo stupido, ma tale da tradire l’intero scopo del congresso, giacché, se è meglio essere donne proletarie in tutti i sensi, allora che restino tali e non subiscano la contaminazione prodotta da una vita agiata e confortevole.
Malgrado ciò – così continuò il nostro discorso –, lasciando da parte i pregiudizi e gli scambi di complimenti, non c’è dubbio che le donne del congresso possiedono qualcosa che manca alle signore, qualcosa che è desiderabile, stimolante, eppure molto difficile da definire. Non si vuole scivolare in frasi fatte sul “contatto con la vita”, “l’affrontare i fatti” o “la lezione dell’esperienza” che sono sempre fastidiose da sentire, a parte il fatto che nessun uomo o donna che fa un lavoro manuale lavora più duramente o ha con la realtà un rapporto più stretto di quanto lo abbia un pittore col suo pennello o uno scrittore con la sua penna. Ma la qualità che quelle donne possiedono, a giudicare da una frase colta al volo, da una risata, da un gesto visto passando, è esattamente la qualità che sarebbe piaciuta a Shakespeare. Si può pertanto fantasticare di scivolare via dai salotti brillanti delle persone colte per andare a raccontare barzellette nel retrocucina della signora Robson. In realtà, dicevamo, una delle impressioni più singolari che avevamo provato al suo congresso era che “i poveri”, “le classi lavoratrici” o come altro preferiate chiamarle, non siano oppresse, invidiose ed esauste, ma invece piene di senso dell’umorismo, di vigore e di assoluta indipendenza. Cosicché se fosse possibile incontrarle non come il signor tale o la signora talaltra, ma come clienti separati da loro da un banco di negozio, ma accanto alla tinozza del bucato o nella stanza del soggiorno in modo spontaneo e simpatico, come persone a noi simili, con cui si hanno in comune desideri e scopi, ne deriverebbe una grande liberazione, e forse in seguito amicizia e simpatia. Quante parole appassite nel nostro lessico devono nascondersi in quello di queste donne! Quante scene devono giacere addormentate nei loro occhi, mentre i nostri non le hanno mai viste! Quante metafore, quanti detti e proverbi che non hanno mai raggiunto la superficie della lingua scritta devono essere ancora diffusi tra queste donne, che probabilmente conservano la facoltà da noi perduta, di coniarne di nuovi. Nei discorsi al congresso erano presenti molte espressioni argute che neppure il peso di una assemblea pubblica riusciva completamente ad appiattire.
Ma – dicevamo ancora – e forse a questo punto ci mettevamo a giocherellare con un tagliacarte o ad attizzare nervosamente il fuoco per esprimere indirettamente la nostra insoddisfazione, a che cosa serve tutto questo? La nostra simpatia è artificiosa, non reale. Dal momento che il fornaio ci telefona, che paghiamo i nostri conti con degli assegni, che qualcuno ci lava i vestiti e che non siamo capaci di distinguere il fegato dai fegatelli, siamo condannate a restare per sempre chiuse nei confini della classe borghese, indossando mantelle con lo strascico e calze di seta, e a chiamarci signore e signora a seconda dei casi, mentre in verità siamo tutti Giovanni e Maria. E le donne proletarie rimangono private di qualcosa allo stesso modo, poiché noi abbiamo da dar loro tanto quanto loro a noi: spirito e disinteresse, cultura e poesia, e tutti i buoni doni di cui godono per diritto coloro che non hanno mai risposto a uno squillo di campanello o sorvegliato il funzionamento di una macchina. Ma la barriera è insuperabile. E al congresso forse niente era per noi più esasperante (lei avrà notato in certi momenti un certo nervosismo) del pensiero che questa loro forza, questo calore a lenta combustione che per ora ha rotto in alcuni punti la crosta e lambito la superficie con un fuoco ardente e intrepido, sta per aprirsi a forza un varco mescolandoci tutti insieme, cosicché la vita diventerà più ricca, i libri più complessi e la società metterà in comune tutte le sue risorse anziché tenerle divise – tutto questo avverrà inevitabilmente, grazie in gran parte a lei, alla signorina Harris e alla signorina Kidd, ma solo quando saremo morti.
Era in questo modo che cercavamo quel pomeriggio nell’ufficio della Lega di spiegare cosa sia la simpatia artificiosa, come sia diversa dalla simpatia reale, come sia difettosa per il fatto di non fondarsi sulla comunanza delle emozioni inconsce fondamentali. Era in questo modo che cercavamo di descrivere sensazioni contradditorie e complesse che assalgono una visitatrice borghese quando deve assistere in silenzio a un congresso di donne proletarie. Forse fu a questo punto che lei aprì un cassetto e tirò fuori un pacchetto di lettere: non slegò subito lo spago che le teneva insieme. A volte, lei ci disse, riceveva una lettera che non se la sentiva di bruciare; una o due volte una donna della Lega aveva scritto, dietro suo suggerimento, alcune pagine sulla propria vita. Forse quelle lettere potevano interessarci, forse, se le avessimo lette, quelle donne non sarebbero più state dei simboli e sarebbero diventate invece delle persone. Ma si trattava di lettere molto frammentarie e sgrammaticate: erano state buttate giù negli intervalli del lavoro domestico. In realtà lei non poteva indursi a consegnarcele subito, come se esporle allo sguardo di una terza persona significasse tradire la fiducia che le autrici avevano riposto in lei. Forse lo stile rozzo delle lettere ci avrebbe solo sconcertato, forse la scrittura di gente che non sa scrivere… ma a questo punto noi la interrompemmo bruscamente. In primo luogo, tutte le donne inglesi sanno scrivere; poi, anche se non fosse così, basta che una di loro scelga come soggetto la propria vita e scriva la verità su di essa, non un romanzo o una poesia, per suscitare in noi un interesse così appassionato che… che insomma non potevamo aspettare, ma dovevamo leggere subito quel pacchetto di lettere. Dopo queste sollecitazioni lei, gradualmente e dopo molti rinvii – ci fu la guerra, ad esempio, e la signorina Kidd morì, e lei si dimise con Lilian Harris dalla Lega, e le fu consegnato dentro uno scrigno un attestato di riconoscimento per l’attività svolta, e molte migliaia di donne proletarie cercarono di dire quanto lei avesse cambiato la loro vita – cercarono di esprimere i sentimenti che avrebbero provato per lei fino al giorno della loro morte – dopo tutte queste interruzioni, alla fine lei radunò le lettere e finalmente me le mise in mano, ai primi di maggio di quest’anno. Erano là, scritte a macchina, raggruppate con qualche grappetta, con delle fotografie piuttosto scolorite schiacciate tra una pagina e l’altra.
E quando infine cominciai a leggere, mi riaffiorarono alla memoria le donne che tanti anni prima a Newcastle avevo guardato con tanto stupore e curiosità. Ma non stavano più parlando da un palco a una grande assemblea a Newcastle, con addosso i vestiti della festa. La calda giornata di giugno con le bandiere e le cerimonie era svanita, e il nostro sguardo era invece rivolto all’indietro verso il passato delle donne che si erano là riunite: nelle case di quattro stanze dei minatori, nelle case dei piccoli bottegai e dei braccianti, nei campi e nelle fabbriche di cinquanta o sessanta anni fa. La signora Burrows, ad esempio, aveva lavorato nelle paludi del Lincolnshire quando aveva otto anni con altri quaranta o cinquanta bambini, e la squadra era seguita da un vecchio con in mano una lunga frusta “che non dimenticava di adoperare”. Era questa una singolare riflessione. La maggior parte delle donne aveva cominciato a lavorare a sette o otto anni, guadagnando un penny il sabato lavando le scale davanti alle porte, o due penny alla settimana portando il pasto agli uomini che lavoravano alla fonderia. Erano andate in fabbrica a quattordici anni. Avevano lavorato dalle sette del mattino alle otto o nove di sera guadagnando da tredici a quindici scellini alla settimana. Avevano risparmiato su questa somma qualche penny per comprare il gin alla madre, che spesso la sera era molto stanca, e aveva partorito forse tredici figli in altrettanti anni, oppure erano andate a cercare l’oppio per calmare la crisi di una povera vecchia nelle paludi. La vecchia Betty Rollett si era uccisa quando non ce l’aveva più fatta.
Avevano visto donne che morivano di fame stare in piedi e fare la fila per riscuotere il salario per le scatole di fiammiferi che avevano fabbricato, e intanto dalla casa si sentiva arrivare l’odore dell’arrosto che si stava cucinando per il pranzo del padrone. A Bethnal Green aveva infuriato il vaiolo, e queste donne avevano visto che si continuavano a fabbricare le scatole nelle camere dei malati, per poi venderle al pubblico con l’infezione ancora chiusa dentro. Nei campi d’inverno avevano lavorato soffrendo un freddo tale da non riuscire più a fare una corda quando il caposquadra gliene dava il permesso. Avevano guardato le acque della piena quando il Wash era straripato. Gentili anziane signore avevano dato loro i pacchetti di cibo che poi si era scoperto contenevano solo croste di pane e bucce di bacon rancido. Queste donne avevano fatto, visto e imparato tutto ciò all’età in cui gli altri bambini sguazzano ancora nelle pozze d’acqua vicino al mare o compitano favole accanto al caminetto della loro camera. Era naturale che i volti di queste donne fossero diversi, che avessero un’espressione (ci si ricordava) con qualche cosa di indomabile. Per quanto possa stupire, la natura umana è abbastanza forte da poter ricevere ferite come queste, anche nella più tenera età, senza venirne uccisa. Prendete una bambina rinchiusa a Bethnal Green: le basterà vedere la polvere gialla sugli stivali del fratello per sentire in qualche modo l’odore dell’aria di campagna, e non ci sarà niente da fare: lei dovrà andare a vedere “la terra pulita”, come lei la chiama. È vero che da principio “le api le facevano molta paura”, ma lei andò lo stesso in campagna, dove il fumo azzurro e le mucche non la delusero.
Mettete delle ragazze in fabbrica all’età di quattordici anni, dopo un’infanzia trascorsa a badare ai fratelli piccoli e a lavare le scale davanti alle case: volgeranno lo sguardo alla finestra e saranno felici che si possa, dato che la stanza del lavoro è al sesto piano, veder sorgere il sole dietro le colline, “e questo era sempre un tale conforto e aiuto”. Se si cercano ulteriori dimostrazioni della forza dell’istinto umano nel sottrarsi alla schiavitù aggrappandosi a una strada di campagna o a un’alba dietro le colline, c’è il fatto ancora più straordinario che in una oscura fabbrica di cappelli il senso del dovere sia altrettanto vivo ed elevato che in un campo di battaglia. Nella fabbrica di cappelli Christies’, ad esempio, c’erano delle donne che lavoravano per “l’onore”, immolando la vita per la causa di cucire punti dritti sull’orlo della falda dei cappelli da uomo. Il feltro è duro e spesso farci passare l’ago attraverso è difficile, non ci si guadagnano né ricompense né gloria, eppure tale è l’incorreggibile idealismo della mente umana che in quei luoghi oscuri c’erano delle “rifinitrici” che, quando lavoravano, non avrebbero mai cucito un punto storto e che strappavano spietatamente i punti storti cuciti dalle altre. E mentre avanzavano coi loro punti dritti, rendevano omaggio alla regina Vittoria e ringraziavano Dio, stando insieme davanti al caminetto, di essere tutte sposate a dei bravi operai conservatori.
Tutto questo indubbiamente chiariva, almeno in parte, la forza e l’ostinatezza che avevamo visto sui volti delle oratrici a Newcastle. Quando poi si proseguiva la lettura di queste lettere, ci si imbatteva in altri segni della stupefacente vitalità dello spirito umano. Quella innata energia, che nessuna sequela di parti e di bucati era riuscita a spegnere, si era estesa – così sembrava –, aveva catturato vecchie copie di riviste, si era aggrappata a Dickens, aveva appoggiato le poesie di Burns su un coperchio per leggere mentre cucinava. Queste donne leggono durante i pasti, leggono prima di andare in fabbrica. Leggono Dickens, Scott, Henry George, Bulwer Lytton, Ella Wheeler Wilcox e Alice Meynell, e vorrebbero “procurarsi una buona storia della rivoluzione francese, non quella di Carlyle, per favore”; leggono Bertrand Russell sulla Cina, William Morris, Shelley, Florence Barclay e i diari di Samuel Butler: leggono con l’avidità indiscriminata di una fame divorante, che ingoia in un solo boccone caramelle, carne, torte, aceto e champagne. Queste letture naturalmente insegnavano alle donne a ragionare: la generazione più giovane aveva il coraggio di affermare che la regina Vittoria non era superiore a una onesta domestica che aveva allevato dignitosamente i figli ed era così temeraria da dubitare che cucire i punti dritti nelle falde dei cappelli da uomo dovesse essere l’unico fine e scopo della vita di una donna. Cominciarono a ragionare e organizzarono persino dei rudimentali circoli di discussione al pianterreno della fabbrica. Col tempo anche le vecchie rifinitrici misero in discussione le loro certezze e arrivarono a pensare che potevano esserci al mondo altri ideali oltre ai punti dritti e alla regina Vittoria.
Turbinavano nella loro testa idee veramente strane: poteva accadere, ad esempio, che una ragazza riflettesse, mentre passeggiava per le vie di una città sorta intorno a una fabbrica, sul fatto che non aveva diritto di mettere al mondo un figlio se questo doveva essere costretto a vivere in una fabbrica. Poteva accadere che una frase casuale letta in un libro accendesse la sua immaginazione, facendole sognare città future dove ci fossero bagni, cucine, lavanderie, gallerie d’arte, musei e parchi. La mente delle donne proletarie era in fermento, la loro immaginazione si era messa in moto. Ma in che modo potevano realizzare i loro ideali ed esprimere i loro bisogni? Era già difficile per le donne borghesi, che avevano alle spalle una certa quantità di denaro e un certo livello di istruzione. Ma in che modo potevano riuscire a cambiare il mondo in base alle idee delle proletarie, donne con le mani piene di lavoro e di cucina densa di vapore, prive di istruzione, di incoraggiamenti e di tempo libero? Fu allora, presumo, in un qualche momento degli anni Ottanta, che nacque in modo modesto e sperimentale la Lega delle donne. Per un certo periodo occupò sul giornale “Co-operative News” uno spazio di uno o due pollici, che si chiamava L’angolo della donna. Fu là che la signora Acland chiese: “Perché non potremmo tenere delle riunioni di madri della cooperativa portandoci il lavoro e mettendoci a sedere vicine, con una di noi che legge ad alta voce qualche testo della cooperativa che poi tutte discutiamo?”. E il 18 aprile del 1883 annunciò che la Lega delle donne contava sette socie.
Da allora in poi fu la Lega a catalizzare quel flusso incessante di desideri e di sogni, fu la Lega a costituire un punto centrale di incontro in cui potesse prendere forma e consistenza tutto ciò che altrimenti sarebbe rimasto sparpagliato e privo di un significato complessivo. La Lega deve essere riuscita a dare alle donne più anziane, con marito e figli, quello che la “terra pulita” aveva dato alla ragazzina di Bethnal Green o che la vista del sole che sorgeva dietro le colline aveva dato alle operaie giovani della fabbrica di cappelli. Aveva dato loro innanzi tutto il bene più raro fra tutti: una stanza dove poter stare sedute a pensare lontano dalle pentole che bollivano e dai bambini che piangevano. E in seguito quella stanza era diventata non solo un salotto e un luogo d’incontro, ma un’officina in cui, mettendo insieme le loro intelligenze, quelle donne riuscivano a trasformare la loro casa e la loro vita e a progettare le più svariate riforme. E, man mano che il numero delle socie cresceva, e venti o trenta donne acquisivano la pratica di una riunione settimanale, le loro idee diventavano più ricche e i loro interessi più ampi. Invece di discutere solo dei loro rubinetti e lavandini, dei loro lunghi orari e bassi salari, cominciarono a discutere dell’istruzione, del sistema fiscale e delle condizioni di lavoro a livello nazionale.
Le donne che nel 1883 erano entrate timidamente nel salotto della signora Acland per cucire e “leggere ad alta voce qualche testo della cooperativa”, impararono a intervenire, con coraggio e autorevolezza, su tutti i problemi della vita pubblica. In questo modo si poté arrivare al risultato che a Newcastle nel 1913 la signora Robson, la signora Potter e la signora Wright richiedessero non solo stanze da bagno, salari e luce elettrica, ma anche il suffragio universale, l’imposta sulla rendita fondiaria e la riforma della legge sul divorzio. In questo modo, un anno dopo o due, le stesse donne chiesero la pace, il disarmo e la diffusione dei principi della cooperazione non solo tra gli operai inglesi, ma in tutti i paesi del mondo. E la forza che stava dietro i loro discorsi e li faceva andare dritti al punto, indipendentemente dall’abilità oratoria, era intessuta di molte cose: di uomini con la frusta, di camere di malati dove si fabbricavano le scatole di fiammiferi, di fame e di freddo, di parti numerosi e difficili, di tanti bucati e pulizie, della lettura di Shelley, William Morris e Samuel Butler sul tavolo di cucina, di riunioni settimanali alla Lega delle donne, della partecipazione a commissioni e congressi a Manchester e in altri luoghi. Tutto questo stava dietro ai discorsi della signora Robson, della signora Potter, della signora Wright. Le lettere che lei mi aveva mandato avevano indubbiamente gettato un po’ di luce sulle antiche curiosità e perplessità che avevano reso quel congresso tanto indimenticabile e tanto pieno di domande rimaste senza risposta.
Ma probabilmente è difficile che le pagine che qui si pubblicano abbiano tutti questi significati per chi non può integrare la parola scritta col ricordo dei volti e il suono delle voci. È innegabile che i capitoli qui raccolti non formano un libro, che da un punto di vista letterario presentano molti limiti. Un critico letterario potrebbe osservare che la scrittura è priva di soggettività e di ricchezza immaginativa, proprio come le autrici sono prive di varietà e finezza di lineamenti. Potrebbe criticare il fatto che in queste lettere mancano riflessioni, visioni complessive della vita, sforzi per capire dall’interno la vita di altre persone. Sembra che la poesia e la narrativa fantastica siano lontanissime dall’orizzonte di queste donne, che in realtà ci ricordano gli oscuri scrittori che precedettero la nascita di Shakespeare, che non viaggiavano mai al di là dei confini della loro parrocchia, che non leggevano altra lingua che la propria, che scrivevano con difficoltà, e riuscivano a trovare poche e rozze parole. E tuttavia, giacché scrivere è un’arte complessa, molto influenzata dalla vita, queste pagine possiedono anche dal punto di vista letterario delle qualità che potrebbero essere invidiate anche da persone colte e raffinate. Ascolti, ad esempio, la signora Scott, l’operaia dei cappelli di feltro: “Mi sono trovata nella neve alta oltre tre piedi, e in certi punti anche sei. Una volta a Hayfield sono incappata in una tormenta da cui temevo di non uscire viva. Ma nelle brughiere c’era la vita: mi sembrava di conoscere ogni filo d’erba e i posti dove crescevano i fiori e tutti i ruscelletti erano miei compagni”. Avrebbe potuto esprimersi meglio se si fosse laureata in lettere a Oxford? Oppure prenda la descrizione che fa la signora Layton di una fabbrica di scatole di fiammiferi a Bethnal Green e di come lei, guardando attraverso la staccionata, vide tre signore “che stavano sedute all’ombra a ricamare”.
C’è qualcosa della minuziosità e della chiarezza di una descrizione di Defoe. E quando la signora Burrows rievoca il triste giorno in cui i bambini stavano per mangiare il pranzo freddo e bere il tè freddo dietro la siepe e la donna brutta li chiamò nel suo soggiorno dicendo “Che questi bambini siano portati a casa mia, che mangino da me il loro pranzo”, le parole sono semplici, ma è difficile immaginare come potrebbero essere più espressive. E poi c’è un brano della lettera della signorina Kidd, il personaggio color porpora scuro che scriveva a macchina come se sulle sue spalle gravasse il peso del mondo: “Quando ero una ragazza di diciassette anni – scrive – il mio padrone di allora, un signore che godeva in città di un buon reddito e di una alta posizione, mi mandò una sera a casa sua, apparentemente per prendere un pacco di libri, ma in realtà con uno scopo molto diverso. Quando arrivai alla casa, dove non c’era nessuno della famiglia, lui, prima di lasciami andar via, mi costrinse a essere sua. A diciotto anni ero madre”. Che questa sia o non sia letteratura, io non mi azzardo a dirlo, ma che spieghi e riveli molte cose è indubbio. Questo era dunque il fardello che gravava su quel personaggio di colore scuro mentre scriveva a macchina lettere per lei, Miss Davies, questi i ricordi che andava rimuginando mentre stava per lei di guardia alla porta con la sua grinta e la sua indistruttibile fedeltà.
Ma non farò altre citazioni. Queste pagine sono solo dei frammenti. Queste voci stanno cominciando solo ora a emergere dal silenzio con un discorso solo parzialmente articolato. Queste vite sono ancora metà nascoste in una profonda oscurità. Riuscire a esprimere anche solo quello che qui è espresso è stato un lavoro faticoso e difficile. Questi pezzi sono stati scritti in cucina, nei ritagli di tempo libero, in mezzo a ogni sorta di distrazioni e ostacoli – ma non occorre davvero che sia io, in una lettera diretta a lei, a sottolineare quanto sia dura la vita delle donne proletarie. Se lei e Lilian Harris non aveste dedicato i migliori anni della vostra vita… ma silenzio! Lei non mi consentirebbe di terminare questa frase e dunque, inviandole un messaggio antico di amicizia e di ammirazione, mi fermi qui.
Maggio 1930
Nota. Tratto da La vita come noi l’abbiamo conosciuta. Autobiografie di donne proletarie inglesi, lettera introduttiva di Virginia Woolf, traduzione di Anna Rossi-Doria, Savelli Editori, Roma 1980; la lettera alle pp. 15-33. Edizione originale: Life as we have known, Hogarth Press, London 1931.
- Approvata dal Parlamento nel 1909, questa legge stabilì un salario minimo per quattro industrie particolarmente sottopagate, in cui erano impiegate soprattutto donne. Fu esteso ad altre industrie nel 1913 e nel 1918. [↩]