di Piero Brunello
Pubblichiamo una parte dell’intervento tenuto da Piero Brunello, in qualità di presidente uscente di storiAmestre, durante l’assemblea annuale dei soci del 30 gennaio 2020. Il discorso riguardava un bilancio del biennio 2018-2019, si riprende qui la riflessione partita dall’invito ricevuto da storiAmestre di far parte del Comitato scientifico di un Convegno promosso dall’Associazione Italiana di Public History. Il testo è stato rielaborato per l’occasione, aggiungendo informazioni per i lettori che non conoscono l’attività che storiAmestre svolge da più di trent’anni.
JOURDAIN: E quando si parla, che cosa è?
MAESTRO DI FILOSOFIA: Prosa.
JOURDAIN: Come? quando dico: «Nicoletta, portami le pantofole, e dammi il berretto da notte», è prosa?
MAESTRO DI FILOSOFIA: Sì, signore.
JOURDAIN: Per tutti i diavoli! Sono più di quarant’anni che parlo in prosa. Vi sono molto grato di avermi informato.
Alla fine di ottobre ho ricevuto la proposta, allora ero presidente di sAm, di indicare una persona dell’associazione per far parte di un Comitato scientifico di un Convegno promosso dall’Associazione Italiana di Public History presso M9 a Mestre (29 maggio-2 giugno 2020). Nell’associazione non avevamo mai parlato di Public History, e meno ancora sapevamo indicare un nome adatto, perciò, esaminata la cosa nel direttivo, abbiamo declinato l’invito. Però poi, discutendone in una assemblea dei soci, abbiamo pensato che il tema merita un approfondimento, anche per capire se e che cosa abbia a che vedere con la Public History quello che sAm fa da quando è nata, cioè da più di trent’anni. Ecco come l’associazione si presenta nel sito: “L’associazione storiAmestre nasce nel 1988 come spazio di mutuo scambio e di mutuo apprendimento tra storici e storiche, archivisti, insegnanti impegnati nel Movimento di cooperazione educativa, urbanisti provenienti dall’esperienza di Urbanistica democratica. Nel corso degli anni si è occupata di storia locale, di storia delle donne, di storia orale, dell’uso politico della memoria, dell’insegnamento della storia, del rapporto tra storiografia e impegno civile, di archivi e musei cittadini. L’associazione intende riflettere sui più recenti mutamenti urbanistici e ambientali, su come la città si racconta e viene raccontata, e sul rapporto tra luoghi, potere e memoria”.
1. Cominciamo col nome: Public History. Ho letto parecchie traduzioni, ma escluderei che chi propone la Public History intenda dire “Storia in pubblico”, perché sarebbe un’espressione tautologica, a meno finché continuiamo a ritenere la storiografia una pratica di discussione libera e pubblica delle testimonianze, e finché continueremo a ritenere che compito di chiunque si occupi di storia – per mestiere o no, dipartimento universitario o associazione culturale – sia quello di assicurare un certo standard nel trattamento delle fonti.
Il manifesto che lancia la Public History in Italia rivendica la scelta di usare il termine in inglese per evitare «le ambiguità che una letterale traduzione in italiano avrebbe potuto creare con l’espressione “storia pubblica”, vicina al concetto, spesso strumentale, di “uso pubblico della storia”». A me sembra invece che dirlo in italiano eviterebbe la sensazione che detta in inglese una cosa sembri tanto più intelligente quanto più è misteriosa; e poi ci aiuterebbe a capire gli elementi di novità, se ce ne sono. Faccio il pignolo perché vorrei capire se continuiamo a distinguere finzione da non finzione (fiction da non-fiction), e in quale dei due ambiti si colloca la Public History, o se invece non preferisca far parte di quei generi “misti di storia e di invenzione” su cui si discute in Italia almeno fin dai tempi di Alessandro Manzoni.
Ho chiesto a Mario Infelise di spiegarmi la differenza, se c’è, tra quello che fa storiAmestre da decenni e la Public History, e la sua risposta è stata: “Fare public history non significa fare storiAmestre, ma, se mai, studiare in modo scientifico storiAmestre come fenomeno”. È qui che mi è venuto in mente il dialogo di Molière tra Jourdain e il Maestro di filosofia. Ricordate quando, tanto tempo fa, si parlava di storia locale? Eravamo tutti storici, a prescindere dal mestiere che facevamo per vivere, e si dava per scontato che seguissimo tutti le regole della disciplina, anche i pensionati che facevano ricerche genealogiche o compilavano liste di parroci: si pensava che tutti avessero accesso agli archivi e alle biblioteche, o facessero ricerche sul campo e interviste. E anche se all’università c’era chi parlava di “storici scalzi” per indicare gli studiosi che non facevano gli storici di mestiere, si supponeva che gli uni leggessero gli scritti degli altri: e poi c’erano regole valide per tutti, almeno così si dava per scontato.
Mario Infelise parte da quando decenni fa i libri di storia (intendendo quelli che fanno parte del genere storiografia) avevano un mercato, ed erano comperati da non addetti ai lavori: della Storia d’Italia Einaudi si sono vendute 125.000 copie, del Mussolini di De Felice 340.000, del Populismo russo di Venturi 33.000. “Nessuno – mi ha scritto – si poneva il problema se quei libri fossero anche public history”. Da allora tutto è cambiato. Le case editrici, abituate ad attingere ai fondi di ricerca universitari, prima di pubblicare un libro di storia può capitare che chiedano soldi all’autore; oltretutto “la storia ha smesso di essere elemento fondante della cultura”. In altre parole i due ambiti – ricerca e divulgazione – si sono separati. L’università ha cominciato ad attribuire “maggior valore ai saggi in inglese pubblicati su certe sedi e scoraggiano le monografie”, con il risultato che “molti degli attuali dei lavori degli storici sono tipologicamente più simili agli articoli dei medici o dei chimici”. E per venire incontro alla curiosità del pubblico per la storia? Per questo ci sono i romanzi e la Public History. “E quello che era un unico ambiente – se usava le accortezze di sAm – si trova diviso e senza capacità di comunicare. Ho l’impressione che la PH cominci qui”.
Penso che Mario individui bene una tendenza in atto: da un lato i docenti universitari che sono spinti a scrivere per la propria corporazione, dove contano la sede in cui pubblichi e il numero di citazioni che hai nelle riviste secondo gerarchie ben precise anche se non sempre comprensibili, e dall’altro quell’insieme di attività che la Public History cerca di coagulare attorno a sé. Tuttavia non si tratta di due ambiti separati. Non basta “fare public history” infatti per essere riconosciuti come “public historian”, ma c’è bisogno di una struttura universitaria specifica che ne rilasci il relativo certificato.
Un amico mi fa notare che questa divisione assume il fatto che quanti lavorano o aspirano a lavorare all’università, oltre a occuparsi di “inezie o bagatelle tradizionali” e a non saper comunicare al pubblico i risultati delle loro ricerche, “hanno come interesse dominante se non addirittura unico quello di fare carriera”. Il mio amico dice di non voler sottoscrivere questa affermazione, e io da parte mia spero che non sia vera, non del tutto almeno: non piacendo neanche a me l’idea di negare agli studi universitari la possibilità di concorrere alla formazione di un costume civile (o almeno di averne l’aspirazione).
E poi c’è un’altra assunzione: che chi fa una ricerca storica fuori dell’università prima o dopo avrà bisogno di un certificato. Ma non ci avevano detto che la storia è “un bene comune”? e non è proprio questo il titolo del convegno di Public History che si terrà a M9?
2. Ho cercato il “Regolamento del Centro di Digital and Public Humanities” di Ca’ Foscari (l’inglese è nell’originale), ed ecco un brano: “Sviluppo di competenze ibride per permettere ai laureati in materie umanistiche di essere portatori di innovazione nella valorizzazione del cultural heritage (PNR 2015-2020) e favorire lo sviluppo di un approccio trasversale e creativo indispensabile in un mondo del lavoro in continua mutazione”. Non riporto la frase per dire che è oscura, ma per far notare che sta nascendo una professione che ha bisogno di parole d’ordine e di un gergo settoriale. Ci sono sempre stati storici che scrivevano su temi accreditati solo nel mondo accademico e per interlocutori appartenenti alla corporazione; così come c’era chi scriveva su commissione di Istituti, Banche, Enti locali, Fondazioni, Parrocchie, Imprese e Pro Loco; tuttavia mi sembra che la divisione netta in due ambiti (linguaggi e professioni distinte) oggi sia una cosa nuova, e soprattutto una tendenza in atto. Chi è quello studioso che scriverebbe più in una rivista locale o per una libreria cittadina, come pure è avvenuto, se vuole intraprendere una carriera universitaria? Sono anni che Filippo Benfante e io, che curiamo il sito di storiAmestre (nell’ultimo biennio con Andrea Lanza ed Enrico Zanette), abbiamo la concorrenza di sedi editoriali che non è detto siano di qualità superiore, però sono accreditate nel mondo accademico e quindi ti consentono di fare curriculum.
Come ha lavorato sAm dopo l’acqua alta in terraferma del 2007? Istituendo un comitato scientifico che propose di inserire l’evento del 26 settembre 2007 in una fase congiunturale climatica (2006-2007), in assetti territoriali di più lungo periodo (deviazione di fiumi, urbanizzazione, costruzione di rete di scolo e di fognature eccetera) e in una conformazione idrogeologica che risale alla formazione della pianura; promuovendo incontri pubblici con geologi, storici della città e del territorio, associazioni ciclistiche, associazioni del Dopolavoro, geografi, ecologisti, geometri, biologi, ingegneri idraulici, comitati di cittadini in un periodo in cui erano accusati di essere quelli del Not in my backyard, rappresentanti di istituzioni, persone che avevano monitorato la situazione idraulica sotto casa (fognature, tombini, livelli di pendenza e altezza dei còrdoli eccetera), pescatori di fiume, ex mugnai, abitanti di case lungo gli argini eccetera; organizzando convegni (a Mestre e a Castelfranco Veneto), presentazioni di libri, sopralluoghi a piedi e in bici (Fossa Pagana, Marzenego, Risorgive), giochi con bambini (“Gioco dell’oca lungo il Marzenego” curato da M. Giovanna Lazzarin e Maria Marchegiani assieme al Movimento di Cooperazione Educativa), interviste, incontri nelle scuole, proiezioni video, articoli di giornale, mostre, assemblee pubbliche, negli ultimi anni whatsapp, passeggiate con pranzo a base di erbe raccolte nel corso della passeggiata, resoconti di un percorso a piedi lungo il fiume di Carlo Cappellari; istituendo al proprio interno un gruppo di lavoro che partecipasse a nome dell’associazione ai lavori del Contratto di fiume Marzenego-Acque risorgive; aprendo un sito interamente dedicato alla questioni storico-ambientale legate al Marzenego, che Mario Tonello ha trasformato in un enorme archivio di documentazione; pubblicando interventi di volta in volta nel sito e nel Quaderno Acque alte a Mestre e dintorni, curato da M. Luciana Granzotto e M. Giovanna Lazzarin (2013). Insomma, per riprendere le parole dell’amico già citato sopra, “la ricostruzione del passato non può essere monopolio di nessuna particolare corporazione certificata, bensì impresa cui possono applicarsi saperi diversi, tanto meglio quanti più sono”.
E oggi? Come si svolgerebbe oggi una ricerca sullo stesso tema o su tema analogo? Ecco un brano scelto da un documento in cui sAm viene invitata a collaborare a un “progetto CREW – Coordinated wetland management in Italy-Croatia cross border region, cofinanziato dal Programma Interreg Italia-Croazia”, in cui “l’Università Iuav di Venezia, in qualità di capofila e di responsabile per l’implementazione di un percorso pilota di governance di un’area umida italiana, ha previsto di affrontare le questioni di cui sopra attraverso un percorso di concertazione che coinvolga tutti i settori interessati della Laguna Nord di Venezia e del territorio a questa connesso, nonché la volontà comune di perseguire in modo integrato obiettivi di tutela, riqualificazione e sviluppo di tali ambito” eccetera. Non ho scelto il brano perché sia particolarmente significativo, ma per mostrare il linguaggio settoriale necessario nella pratica che qui voglio esaminare, in cui una struttura universitaria ottiene un finanziamento che prevede il concorso di gruppi di intervento e di studio radicati, come si suol dire, nelle realtà locali. Bisogna tener presente che il gergo è un elemento essenziale perché un progetto sia preso in considerazione. Le parole cambiano, guai sbagliarle, guai non seguire la moda. Quando ne abbiamo discusso, la nostra socia Cate Minosso ci ha detto che nel suo campo periodicamente ci sono delle parole che si devono usare nei documenti: per un po’ si doveva scrivere per esempio la parola “sinergia”, e poi basta “sinergia” e si doveva mettere la parola “governance”. Nessuna meraviglia se lo stesso dovesse valere nei progetti che, per ottenere un finanziamento, devono indovinare i termini che chi valuta si aspetta.
Una università che fa da “capofila” e che mette in contatto associazioni locali con il mondo accademico e con un ufficio che eroga finanziamenti. Ecco un esempio di come oggi il mondo accademico, come ha osservato di recente Stefano Portelli, tenda a “parassitare le nostre reti di fiducia, sviluppate durante anni, trasformandole in informazioni” che confluiscono in riviste scientifiche e accademiche, le quali utilizzano tali dati per legittimare la ricerca stessa e quindi promuovere carriere e ottenere finanziamenti: e questo naturalmente senza dubitare della buona fede dei promotori e della qualità dei risultati (Stefano Portelli, Fare politica o fare ricerca, “Lo stato delle città”, 3, ottobre 2019).
Per capire la nascita di una nuova disciplina, come suggerisce ancora Stefano Portelli, bisogna perciò esaminare la divisione del lavoro nella quale è inserita. Nel nostro caso, come si trasforma il linguaggio con cui si fa ricerca e si comunicano i risultati se gli interlocutori non sono i tuoi vicini di casa ma la compilazione periodica di report? e come si modificano i rapporti tra associazioni quando le pratiche richieste devono rispondere non alla logica e ai tempi delle reti sociali basati sulla fiducia e sulla conoscenza reciproca ma sulle tappe previste da chi valuta i progetti, certifica la loro attuazione e decide il loro eventuale rifinanziamento?
3. La Storia pubblica è una disciplina che rilascia i relativi titoli professionali a chi svolge il ruolo di “public historian”. In questo nuovo assetto della produzione di conoscenze la ricerca locale legittima la disciplina accademica, e in cambio ottiene un riconoscimento scientifico. Obiettivo finale, trovare un lavoro ai laureati in storia, dato che le università (è così che la Public History è nata negli Stati Uniti) sfornano più storici di quanti il sistema riesca ad impiegare. La Public History ha già corsi, master, Centri di eccellenza, Research Institute, Summer School, Convegni a cui si accede pagando una quota in cambio di una certificazione; avrà dottorati (se già non ci sono); ci saranno laureati in Public History, verrà istituito un album professionale e così via.
Gli ambiti in cui la nuova professione si sta formando sono molto vari, vanno dai progetti europei alle operazioni di marketing territoriale. Non esiste doc o docg se non hai una storia da raccontare; non ottieni finanziamenti per “riqualificare” una periferia se non dimostri il coinvolgimento di una comunità che racconta se stessa; i musei trasformano gli oggetti fisici o virtuali messi in mostra in simboli di identità culturale e in elementi di una narrazione che stabilisce chi fa parte di una comunità e della sua storia. Poi ci sono tutti i generi a cui oggi – venuto meno il riconoscimento sociale del ruolo della storiografia – è demandato il compito di venire incontro alla domanda di storia (film, serie tv, teatro, graphic novel, romanzi, cortei in costume, sagre medievali, commemorazioni eccetera): saranno tutti questi gli ambiti in cui dovrebbero trovar lavoro i laureati in public history, estromettendo chi non lo è.
Troveranno un lavoro? Voglio dire, si aprono davvero nuove possibilità di lavoro? Ricordi che cosa promettevano i corsi di laurea in Beni culturali nati negli anni Novanta? mi ha scritto Filippo. La Public History, ha concluso, fatte le debite proporzioni e al netto del tempo che passa, sembra annunciare un altro mercato del lavoro, ma il risultato sarà lo stesso: più utile per le università che per i loro studenti. Possibile. Di sicuro la Public History promette lavoro retribuito, le associazioni di storia no, a meno che non rientrino in quell’ambito: questo è il terreno in cui associazioni come storiAmestre dovranno muoversi nel futuro. È un terreno in cui un esercizio intellettuale aperto a chiunque ne accetti le regole, gratuito e spesso animato da impegno civile, diventa una professione certificata. È questo a cambiare il senso delle cose che si sono qui fatte. Per questo alla fin fine penso che la battuta di Jourdain non sia più adatta a definire il ruolo che l’esercizio della ricerca avrà in questo nuovo contesto: oggi Jourdain, per ottenere la certificazione dal Maestro di Filosofia, cercherebbe per prima cosa termini nuovi, non dico in inglese ma senz’altro sofisticati se non oscuri, per designare le pantofole e il berretto da notte.
Concludo invitando a leggere o a rileggere il Quaderno di storiAmestre di Gigi Corazzol, Pensieri da un motorino. Diciassette variazioni di storia popolare, che abbiamo pubblicato nel 2006. Non perdete le pagine in cui l’A. rievoca Maria Giuseppina Vettorata, che per vent’anni aveva fatto l’infermiera in un ospedale psichiatrico, e poi la madre di famiglia. Dopo aver frequentato un corso di storia dell’arte all’università degli anziani, Maria Giuseppina aveva raccolto “quante più attestazioni di Tomo possibile (innanzi tutto nei libri) per poi disporle in ordine cronologico”. Tomo era il suo paese: nessun committente, se non uno “severo”, quello interiore (pp. 107-112).
E le associazioni di storia? “Può essere una buona mossa tentare di allargare la cerchia di quanti, allorché discorrono di cose che non sono più, sanno all’incirca di cosa parlano? Se non altro è provarsi a far qualcosa” (p. 64).
Cate Minosso dice
Ho letto e riletto il tuo articolo. Secondo me la confusione tra termine/concetto inglese ed italiano (confusione come mancanza di sovrapposizione, come sfocatura) nasce dall’esser approdati ai termini attraverso contesti culturali e processi diversi, ma partendo comunque dalla stessa esigenza di dare un nome a qualcosa che avviene in contesto pubblico come non vincolato all’accademia. Ritengo che non ci sia una traduzione letterale e neppure una ragionevolmente vicina; per trovarla forse dobbiamo allontanarci dalle parole e pensare solo ai concetti – come tu fai. Forse questo è in comune tra Nordamerica ed Europa (parlo di Nordamerica secondo me la codifica parte da quel contesto): io faccio ricerca storica dentro o fuori l’Università e mi devo definire (Public vs Academic). Ma tra mondo nordamericano ed europeo (con ulteriori osmosi in ambienti anglofoni in senso ampio dove lingua e cultura inevitabilmente si confondono e si trasmettono anche geograficamente), c’è un processo di genesi da un terreno diverso che porta a due cose diverse. Tu sottolinei un punto fondamentale, questo: “Non basta “fare public history” infatti per essere riconosciuti come “public historian”, ma c’è bisogno di una struttura universitaria specifica che ne rilasci il relativo certificato”. Forse non è un problema se non ci interessa minimamente il bollino. Secondo me la qualità sta nelle finalità e nel metodo, ed è così in tutte le attività: possiamo agire per uno scopo interessante per una comunità (nel senso più ampio) e in modo conforme a pratiche condivise e consolidate cosiderate buone e giuste, ma non per questo corriamo dietro ad ente certificatore. Detto questo, quindi: non è necessariamente la “storia per il pubblico”, ossia divulgativa; è la ricerca storica che si sviluppa in ambiente non accademico.
Marta Baiardi dice
Grazie davvero per questo intervento. Condivido le valutazioni critiche sulla Public History, a partire dal nome, che si destreggia fra varie accezioni ma convince poco, il che per la PH mi pare il colmo!
Franca dice
Grazie. È da tempo che mi interrogo su cosa sia Public History, ho chiesto ad amici storici di professione una spiegazione ma non ho mai ricevuto una risposta chiara. Si stanno organizzando dei convegni, la PI è materia d’esame. Ma confesso che la materia mi è ancora oscura, la mia impressione è che si tratti di fuffa. Mi fa piacere che storiAmestre pubblichi questa riflessione, la leggerò con attenzione. Un abbraccio Franca Cosmai