di Sandro Canestrini
Nella notte tra il 4 e il 5 marzo 2019 è morto Sandro Canestrini. In molti hanno ricordato l’uomo, il partigiano, l’avvocato “delle cause perse”, compresa quella dei familiari delle vittime del Vajont: è facile trovare in rete profili, rievocazioni, necrologi. Riprendiamo qui alcune pagine dell’arringa che pronunciò il 23 settembre 1969 (e fu subito stampata, a Firenze). Ci sembra adatto collocarle nella serie “Paroni a casa nostra”: profitti privati garantiti a spese della collettività, opposizioni e proteste locali ignorati o repressi, entusiasmi per le “grandi opere”, connivenza dei controllori con i controllati, tecnici e università al servizio… Due altri aspetti dell’arringa non smettono di sollecitarci: il richiamo alla responsabilità individuale dei tecnici e dei burocrati, la riflessione sulla continuità dello Stato, dei suoi apparati e dei suoi funzionari.
Perché questo è un processo politico1
Un avvocato dell’altro collegio di parte civile e quindi “insospettabile”, e per giunta assai autorevole, ha esclamato in una delle udienze di questo processo: «Si è detto che qualcuno qui ha fatto dei comizi: niente di strano. Il processo è veramente un comizio, cioè uno strumento di persuasione. Ed è anche, a suo modo, una sacra rappresentazione». Potremmo aggiungere che comitium è assemblea di popolo riunita per decisioni di comune interesse, ma ci preme completare il nostro pensiero: perché questo processo è ancora di più, è anche un contributo che dobbiamo dare a una battaglia per l’onestà, per la dignità, per la società nuova che dovrà pur nascere anche dal sangue e dalle sofferenze di questi bellunesi, di questi udinesi, di questi pordenonesi, di questi uomini e di queste donne delle province degli alluvionati, dei silicotici, degli emigranti. Certo, non è un compito facile. Agli avvocati della difesa e ai loro tutelati diremo chiaramente il nostro disagio per essere costretti a batterci nel campo d’Agramante (e non solo giuridico) del sistema. Infatti l’imputazione (colpa con previsione, concetto così strano e dai confini così labili) è quella che piace a voi, al posto della incriminazione per omicidio volontario per dolo eventuale2; il codice penale e la giurisprudenza sono quelli che piacciono a voi, quel codice spietato con il piccolo furto e di manica larga con gli omicidi colposi, quel codice (residuato fascista) che deve regolare un processo come questo che è tutto un grido di rivolta; una sede che piace a voi, per la legittima suspicione che avete in mille modi e attraverso mille vie voluta e ottenuta; i tempi di celebrazione che piacciono a voi, e cioè al limite della prescrizione, di fronte a dei magistrati, della cui personale preparazione e obiettività non vogliamo neppur parlare, tanto è cosa ovvia, ma che nascono dal vostro mondo e dalla vostra società; il tutto condito da un formidabile collegio di avvocati difensori scremati dal meglio ufficiale e in un clima di potere che vi è assai gradito. (pp. 29-30)
Signori Giudici, sono sicuro che abbiate piena coscienza che voi state giudicando qui non solo la più grande tragedia causata da qualcuno da quando lo Stato italiano esiste, ma anche il più grande episodio giudiziario che si sia mai discusso in Italia: il più grande ma anche il più emblematico, il più grande processo emblematico dei primi settant’anni di questo secolo. Certo, ve ne sono stati altri, ma la somiglianza maggiore che siamo riusciti a trovare, meditando e ricercando, è, con singolari affinità, quella con i processi di mafia. Anche negli aspetti nascosti: infatti, sia nel processo del Vajont che in quelli di mafia, restano nell’oscurità i dirigenti di fondo della “onorata società” dalla quale nascono i crimini. O, per dir meglio, i responsabili principali sono da tutti conosciuti ma non vengono incriminati: perché il sistema può giungere persino ai suoi estremi confini, come prova il rinvio a giudizio di questi imputati (sia pure, ricordiamolo sempre, grazie all’eccezionale tenacia di due magistrati), ma non mai oltrepassarli, pena l’autodistruzione. E una società non si autodistrugge mai. (p. 31)
Guardare in faccia i responsabili: cosa sono la SADE, la Montedison, l’Enel
Sappiamo che la Società Adriatica di Elettricità, come società per azioni, è scomparsa, ingoiata dalla Montedison. Ma i suoi uomini e il gruppo di potere che la dirigevano allora e oggi sono in sella al potere. Vittorio Cini, il presidente, accanto al quale stavano i Gaggia, Luigi e Giuseppe, uno vicepresidente e l’altro consigliere; Enrico Marchesano, presidente della RAS, uno dei più grandi assicuratori d’Europa; Tullio Torchiani, il personaggio delle più grandi holdings, dalla Bastogi alla Sviluppo (creatura della SADE); Valeri Manera al vertice della Confindustria; Giovanni Volpi di Misurata, il finanziere fascista e postfascista. Questi nomi sono il Potere Economico. Sono coloro che non potevano non sapere che il monte Toc stava franando nel bacino del Vajont, ma che soprattutto sapevano che la nazionalizzazione aveva messo a disposizione duecento miliardi di indennizzo e che la cosa più importante del mondo era incassarli. Sulle montagne bellunesi, per oltre mezzo secolo, dove arrivava la SADE tutto diventava della SADE, anche l’acqua del cielo, tutta l’acqua pubblica avuta in concessione e che la SADE sfruttava per produrre energia da rivendere con un margine di guadagno, che non è più margine, che non è più guadagno, ma è decisamente solo rapina. Gli impianti frutto di soprusi, di angherie e di illegalità portano le centinaia di miliardi di profitto e poi di indennizzo, quell’indennizzo che l’Enel, imperterrito, continua a pagare e continuerà a pagare, a quanto sembra, fino al 1972. Leggiamo alcune righe del Salvalaggio sul Volpi: «…Con la SADE il Volpi si era fatto assegnare dal Governo il monopolio delle acque, inventando una delle più geniali gabelle di tutti i tempi: l’industria elettrica. Realizzava così senza fatica e formule magiche il sogno degli alchimisti medioevali: l’acqua strappata ai contadini diventava oro. Il prezzo dell’energia elettrica lo stabiliva naturalmente Volpi che in 40 anni riuscì così ad accumulare una fortuna colossale. Diventò il Signore delle Acque e il “Viceré” delle Venezie. Ci furono anni in cui la corrente elettrica costava a Venezia due volte quella di Parigi. Ma chi sapeva? Chi protestava?
In una regione povera, delusa da decenni, sfruttata da secoli, il viceré creò una oligarchia potentissima, una specie di mafia elettrica che cristallizzò ogni impulso dal basso. Da una parte erano i padroni, con il loro codazzo di impiegati, di “chierici”, di maggiordomi; dall’altra gli artigiani, i popolani, i gondolieri e i venditori di souvenirs».
È questa la società che si convoglia nella Montecatini. È difficile di questa protagonista numero 2 poter elencare anche sommariamente la sfera delle attività e delle interessenze. Diremo che alla Montecatini interessavano, a titolo esemplificativo [segue una lunga lista di settori: materie prime e chimica, attività estrattrice, “con interessenze, solo per fare alcuni nomi, alla Pirelli, alla Banca Commerciale, al Credito Italiano e a decine di società consociate dipendenti o collegate”].
E ora un’occhiata, sia pure di sfuggita, alla protagonista numero 3, la Montedison. Il gruppo Montedison è oggi uno dei tre grandi dell’industria italiana: possiede oltre la MontecatiniEdison (presidente Giorgio Valerio), le Officine Galileo (presidente Vittorio Antonello), i magazzini Standa (Ferdinando Borletti, sono sempre i soliti nomi!), l’Acna (Gino Sfera), la Farmitalia (Carlo Faina), la Pavesi (Enrico Bersighelli), la Rhodiatoce (Carlo Faina), la Cokeitalia (Paolo Thaon de Revel), la Monteponi e Montevecchio (Carlo Faina) la Chatillon (Furio Cicogna), la Sisma (Alberto Ferrari), la Sincat (Vittorio Debiasi), la Magrini Scarpa & Magnano (Mario Marconi), e così via: sull’impero di Valerio non tramonta mai il sole. Ricorderemo solo che sul ceppo dello stesso gruppo nascono le società finanziarie e assicurative, come la SADE finanziaria (Vittorio Cini), la Italpi (Galileo Motta), la Previdente (Giovanni Serra), la Fondiaria vita (Alberto Perrone), la Fondiaria incendio, infortuni ecc. L’intera organizzazione produttiva italiana ruota attorno a questi gruppi industriali, l’industria dell’acciaio, della gomma, del petrolio, l’industria chimica e i grandi complessi commerciali. (pp. 33-35)
Alcuni fatti
Il prof. Feliciano Benvenuti è un amministratore dell’Enel, ed è stato sentito anche al dibattimento. Ci ha dichiarato che […] Di Cagno per la nazionalizzazione precisavano «che l’organizzazione locale doveva restare come era nella SADE, senza alcuna innovazione, salvo le nuove relazioni con gli uffici centrali». «La direttiva era di non procedere ad innovazioni sulla struttura dell’impresa nazionalizzata e di continuare nelle attività seguendo quanto si era sempre fatto… dagli stessi organi, dalle stesse persone di prima e con gli stessi poteri».
Come meravigliarsi che (se questa era in realtà la nazionalizzazione, sogno di riformatori, obiettivo della Resistenza, principio della Costituzione repubblicana) possa essere accaduto che l’Enel abbia sposato la tesi della SADE sulla imprevedibilità del sinistro? Questa nazionalizzazione sui generis, che ha finito economicamente per arricchire i nazionalizzati e per offrire nuove leve politiche ai gruppi al potere, doveva affondare in questo processo nella stessa melma della SADE, trascinando nel fango la dignità dello Stato e il prestigio della pubblica amministrazione.
Come meravigliarsi se la mafia pubblica e privata si è messa subito efficacemente in azione quando si è trattato di sottrarre i due maggiori imputati “nazionalizzati” alla giusta espiazione del carcere?
Nasce qui il problema dei rapporti tra l’industria privata e l’industria pubblica, tra il monopolio privato e il monopolio pubblico nel nostro Paese. La SADE e lo Stato sono stati assieme fascisti o democratici, obbedendo agli stessi suonatori della musica perché la SADE e lo Stato appartengono allo stesso comitato di gestione di affari della classe dominante.
L’Enel dimostra con la sua “ideologia” e con il suo comportamento di essere l’erede e il continuatore delle idee, dei programmi e degli interessi della SADE; clamorosa quindi ma non inattesa la rivelazione dell’istruttoria che i pubblici funzionari prendevano i provvedimenti da imporre alla SADE dopo aver sentito dalla SADE stessa quali provvedimenti essa suggeriva di adottare. (p. 36)
Volpi e i suoi uomini hanno costruito la diga quasi interamente con denaro pubblico di contributi e poi hanno riavuto tutto questo denaro, abbondantemente maggiorato al momento dell’indennizzo per la nazionalizzazione. (p. 39)
Quale moralità?
Ecco: in quale modo i sadici (ossia gli uomini della SADE) e i loro correi possono essere delle “brave persone”? Poniamo la domanda: quando il problema era di arrivare al collaudo della diga del Vajont entro i tempi tecnici previsti dalla legge di nazionalizzazione, al fine di lucrarne il bottino, dove c’è posto per il problema della bontà singola, della cosiddetta onestà personale? È tutto qui. Se gli imputati e gli altri che qui non sono imputati hanno ommesso i fatti di cui all’imputazione (persino, come ritengono pubblico ministero e giudice istruttore di Belluno, in previsione dell’evento del disastro) sono dei delinquenti, e non solo in senso giuridico ma anche in senso morale. Non importa assolutamente nulla che possano essere fedeli mariti, padri affezionati, osservanti in religione e in politica. Chi si mette al servizio di interessi disumani perché contro l’umanità, è complice di un genocidio, come è stato un genocidio quello del Vajont, e la qualificazione morale è fuori dubbio. (p. 41)
Ma stiamo attenti: agli imputati di oggi, secondo la imputazione ufficiale, non si fa colpa di non essere stati alla opposizione della società ingiusta in cui hanno operato, non si fa carico di non avere avuto il coraggio di andare controcorrente, con un criterio di moralità nuova. No: essi hanno violato anche le norme del diritto positivo, cioè quelle della società costituita. Di aver violato cioè anche una più piccola morale, anzi il minimissimo della moralità stabilito da quello Stato ufficiale che pure aveva posto con i suoi codici questo minimissimo a presidio di interessi che comprendevano anche quelli della SADE. Gli imputati insomma hanno voluto strafare, hanno voluto instaurare una legge della giungla ancora più spietata di quella codificata nel tipo di società nel quale viviamo. […] Alla luce quindi non di ideali che possono apparire astratti e che per noi sono invece concretissimi, ma persino alla luce del diritto positivo queste buone persone sono immorali. (p. 42)
La violenza del sistema
Abbiamo già detto come questo sia un processo politico: i crimini commessi dagli imputati sono crimini politici e sociali sotto la maschera del diritto comune: anche voi, signori giudici, come uomini, dovete ribellarvi all’ipocrisia e condannando togliere la maschera. Voi sentite benissimo che questi omicidi colposi non hanno nulla a che vedere (anche se truccati dalla tecnica giuridica in modo da sembrare gli omicidi colposi che tutti i giorni si discutono nei tribunali della Repubblica) con il reato di chi, in un attimo di disattenzione, investe e uccide con la sua automobile un pedone. No. La fattispecie del Vajont e dell’incidente stradale potranno essere riunite sotto un medesimo articolo del diritto positivo, ma sono l’una lontana dall’altra come la terra dal sole, sia nella coscienza pubblica come nella nostra stessa coscienza di uomini di legge. Parimenti voi capite e sentite che questi delitti di pericolo così contestati agli imputati, per avere cagionato il disastro di frana, non hanno assolutamente alcuna parentela con quel pericolo che corre e fa correre il ragazzo che si riscalda la merenda nel bosco e che può far propagare le scintille. Era evidente che gli imputati avrebbero minimizzato, avrebbero negato, avrebbero fatto la figura che fecero qui (e con loro molti dei testi) cercando di smentire quel poco o quel tanto che avevano ammesso nell’istruttoria scritta o che risultava dalla documentazione sequestrata: ma è già stato osservato che le dichiarazioni di questa gente hanno la stessa veridicità della ricostruzione di un attentato nella versione dell’attentatore.
Spetta a noi di fronte a questa melma riscoprire la verità dei visi macellati di questi 2000 morti, di ripulire la realtà dallo sterco delle malizie, delle parole, delle carte burocratiche. Di queste 2000 morti violente che ora vengono “pagate” con soldi pubblici, e cioè ancora da noi, e non da chi ha causato il danno. (p. 57)
Un popolo che continua a dare morti
Voi avete visto nelle strade dell’Aquila e al palazzo di giustizia l’esodo dal Veneto all’Abruzzo di un popolo decimato, ormai senza casa e senza terra. Bisogna dire qualcosa su questo popolo, su questi veneti che sono ormai da molto tempo stanchi di sentirsi riconoscere le loro “virtù tradizionali”. Con tale termine si vuole normalmente lodare il loro attaccamento alla montagna dove sono nati, la loro resistenza a sopportare il dolore fisico e quello morale, il loro spirito di sacrificio in pace e in guerra. Ebbene, essi vogliono che questo ciarpame sia buttato via e che si dica la verità. Vogliono che si dica che il potere ha sempre ricavato dal Veneto denari per il fisco e giovani per le guerre e che le virtù tradizionali sono la miseria e l’emigrazione. Le virtù tradizionali sono quelle di vivere e di morire come vuole chi comanda, su di un Veneto considerato da sempre come una colonia. La politica di abbandono e di spopolamento della montagna, la politica di spoliazione dei monopoli elettrici che si sono accaparrati le risorse idriche delle valli, la politica di gestione di questa ricchezza secondo la legge del maggior profitto, la politica dell’indifferenza verso il dissesto idrogeologico che derivava dallo sfruttamento, la politica del rischio calcolato delle frane, delle alluvioni, di quei disastri cosiddetti naturali che trovano la loro regolamentazione nella stanza dei bottoni. E parallelamente la politica di persecuzione di coloro che denunciavano l’ineluttabilità del disastro, la politica di nascondimento dei segni premonitori che per anni la natura violentata aveva inviato.
La disperazione del Veneto aveva trovato un solo momento nella sua storia per imboccare la via giusta, l’unica via per cambiare le cose: è stato il momento della Resistenza alla quale la valle e le montagne del Piave hanno dato un contributo determinante. E verrà qui la pena di nuovamente ricordare che fu possibile erigere la diga del Vajont sulla base di una concessione della Repubblica di Salò alla SADE nello stesso periodo in cui i partigiani combattevano in quella valle. È già stato osservato che evidentemente vi erano due modi diversi di considerare le caratteristiche del Vajont: dei giovani, degli antifascisti, degli spiriti liberi che ravvisavano fra quelle valli strette e nascoste la possibilità di gettare le basi per costruire un esercito popolare capace di sconfiggere i tedeschi e i fascisti da un laro; dall’altro i dirigenti e gli azionisti della SADE che nello stesso momento operavano con tedeschi e fascisti per avere la concessione di quelle acque e per poter innalzare la diga degli enormi profitti. Longarone e gli altri centri abitati che le facevano corona erano roccaforti partigiane e l’antica disperazione e l’antico furore sembrarono per pochi anni, per pochi mesi, poter modificare le cose. Sappiamo però come la SADE, che aveva fatto i suoi affari con tutti i sistemi politici da essi sostenuti (prefascista, fascista e repubblichino), continuò a farli col nuovo sistema democratico. (pp. 59-60)
Questi sono i ribelli del Vajont, i rossi del Sindaco Celso e del Vicesindaco Terenzio3, i partigiani che hanno liberato i loro paesi con le armi in pugno, già ormai domati e risucchiati nel sistema: domandavano solo accorgimenti tecnici, non il prosciugamento della diga. Domandavano solo che la SADE guadagnasse un po’ di meno, non che una buona volta le venissero tagliate le unghie.
E che cosa domandano oggi i superstiti a nome delle vittime […]? […] su questa gente è piombata martellante la voce di quasi tutti i giornali, di quasi tutti i pulpiti, di quasi tutti i benpensanti e cioè che i morti si pagano con il denaro, che l’unico modo per fare giustizia era incassare un po’ di soldi, che d’altra parte mai altro si sarebbe potuto ottenere dal potere se non un po’ di soldi. E quando venne fuori la cosiddetta prima perizia, preceduta dai nefasti prolegomeni delle varie commissioni d’inchiesta, si disse a questa gente su tutti i toni, dalla blandizia alla minaccia, che forse neppure i soldi avrebbe preso, che forse in via di elargizione bonaria e caritativa, l’Enel avrebbe dato ugualmente del denaro. Così, quando molti hanno capitolato e sono rimasti in pochi a tenere fermo che nella vita il peggio è capitolare, gli avvoltoi hanno intonato – come sappiamo – la rauca canzone che i superstiti sono solo affamati di soldi, che in fondo vogliono solo i soldi, e che hanno ragione i gruppi al potere nel dire che con i soldi tutto si può comperare. I gruppi al potere si sono dichiarati soddisfatti nel constatare che la loro legge, quella dei soldi, è anche la legge della maggior parte delle loro vittime.
Ebbene, noi qui ripetiamo che coloro che hanno dovuto capitolare sono ancora più vittime degli altri, sono i superstiti più infelici, sono coloro cui è stato spento persino il senso del dolore e la fiducia nella giustizia. Per questo abbiamo rispetto per coloro che hanno capitolato […]. […]
Occorrerebbe qui pronunciare parole di fuoco, ed invece stringiamo i denti e ci limitiamo a registrare: in fondo siamo ben persuasi che non è questione di uomini ma che i grandi fatti storici e le grandi tragedie si verificano ineluttabilmente date certe premesse; gli interessi si raggruppano diremo istintivamente da una parte o dall’altra, la polvere di ferro corre al suo polo magnetico, il sistema condiziona loro malgrado anche quelli che ne sono solo i burocrati e gli impiegati. Eppure, come possiamo dimenticare i nomi di coloro che avevano sembianze umane ma che vollero schierarsi dalla parte del potere? (pp. 61-62)
Lo Stato è lo Stato dei potenti
Lo Stato è qui tutto insieme giudice, vittime e imputato. Nuove contraddizioni, nuovo naufragio: si chiede giustizia allo Stato attraverso questo Tribunale dello Stato, ma lo Stato a quale Stato darà ragione? Allo Stato Enel, alla SADE Stato nello Stato, allo Stato dei cittadini, a quale Stato dei due diversi e opposti tipi di Stato che l’avvocatura dello Stato rappresenta in contrasto insanabile? Ma tant’è, ogni incenso deve essere bruciato, ogni sacrificio deve essere compiuto in nome di un feticcio quale è la teoria della continuità dello Stato, di quella continuità di sistemi economici e politici che la storia superficiale sembra smentire ma che in realtà è, come abbiamo detto, il filo rosso conduttore nonostante le contraddizioni anche spaventose della storia vera del nostro paese. Un finanziere ottantenne è rimasto in sella in tutte le bufere politiche, il mostro sacro della SADE è il simbolo che le bufere politiche sono solo fenomeniche: il noumeno sta più sotto, solo che, per fortuna, non è più inconoscibile. (pp. 67-68)
È doveroso a questo punto distinguere tra alta burocrazia che ha larghe possibilità decisionali e piccola burocrazia, più esposta alle critiche di ogni giorno: l’altra burocrazia decide le cose decisive, la piccola burocrazia esegue. […] La casta burocratica è storicamente nata dall’incrocio nel nostro Paese della corruzione borghese con l’autoritarismo piemontese. Male vecchio quindi che si è diffuso dalla sua nascita circa cent’anni fa a oggi, nonostante il Risorgimento e la Resistenza; il discorso può allargarsi all’equivoco storico che è rappresentato dal nostro risorgimento nazionale, al modo come la classe dirigente lo realizzò; il discorso può estendersi al mondo come la Resistenza fu stroncata e vinta nel momento in cui vinceva. Ha trionfato il principio della continuità dello Stato, e non solo da fascismo a democrazia ma persino da burocrazia dei piccoli stati italiani a burocrazia nazionale. Ciò che è stato definito «il metodo delle indulgenze compiacenti», dei ritardi, degli insabbiamenti, non rappresenta la responsabilità storica sostanziale dell’alta burocrazia, ma solo lo squallido aspetto esterno, che tutti identificano nel miserando comportarsi quotidiano di molta parte della piccola burocrazia. Dietro sta molto di più, dietro sta la burocrazia grossa, colonna del potere e della società così come è costituita ed è quindi logico che con questa “continuità” anche nel crimine non possa essere stata, come era richiesto, sospesa la corresponsione alla SADE dell’indennizzo stabilito per la nazionalizzazione dei suoi impianti elettrici. Se ciò fosse accaduto, sarebbe stata una rottura, un’inversione di tendenze, un fenomeno rivoluzionario: sarebbe crollato un mondo. (pp. 68-69)
Il mito della tecnica pura e progressiva
Ma vi è l’altro aspetto […], e cioè quello dei tecnici come alienati, come uomini che hanno perduto la propria ombra, come uomini che al servizio degli interessi che sappiamo, ritengono che ciò possa essere giusto e doveroso e che veramente viviamo nel migliore dei mondi possibili. Questo è l’aspetto più tristo, questa catastrofe negli animi dei tecnici, che non è seconda alla catastrofe caduta sul Vajont per la sua obiettiva drammaticità, realtà tanto più drammatica, quanto più gli alienati non si accorgono di esserlo. Quando l’ing. Semenza raccomandava al tecnico che era suo figlio, al fine di far approvare erti progetti del Vajont, di «attenuare qualche affermazione», questo aspetto emerge in tutto il suo spavento. Un padre raccomanda al figlio la menzogna: questa è questa tecnica, umile con i potenti, ipocrita con tutti, feroce con i poveri, disumana, se è solo così che può manifestarsi. Il tecnico obiettivo, cioè il tecnico non al servizio dei potenti, non fa carriera, non fa strada, come è dimostrato da quell’improvviso trasferimento dell’ing. Desidera, he fu una delle più evidenti manifestazioni della prepotenza del monopolio idroelettrico; non fa strada come non si permette di far strada al prof. Calvino, l’unico consulente tecnico italiano che il giudice è riuscito a trovare tra centinaia di specialisti e di professori di università, e che ha subito sentito addosso il morso della vendetta […]. È stato ricordato qui da altri con quale angoscia difensori di parte civile e superstiti si sono sentiti dire, uno dopo l’altro, i no da parte dei tecnici dei laboratori e delle università, quando venivano a sapere qual era l’oggetto di una perizia chiesta dalle vittime. Credo che ognuno dei difensori di parte civile abbia fra gli atti delle lettere più o meno riservate e personali, in cui si dice – come in documenti che ho io – che non è possibile per l’interessato interpellato accettare l’incarico, avendo ricevuto autorevoli consigli negativi. (pp. 75-76)
La scuola, la scienza, la tecnica al servizio del potere
Gli uomini della classe scientifica si sono nella stragrande maggioranza inchinati al vitello d’oro: facciamo un esempio tra le centinaia? Ecco il prof. ing. Marin, uno degli imputati di oggi, che è stato insegnante incaricato di comunicazioni elettriche prima e di trasmissione dell’energia poi, presso l’Università di Padova dal 1930 al 1965! Del resto basta vedere la ricchezza, l’imponente spiegamento, con la quale nei discarichi a difesa degli imputati vi è l’offerta di consulenze tecniche: professori e insegnanti pronti a venire a dimostrare che i loro colleghi imputati sono del tutto innocenti. Chi ha parlato autorevolmente di “viltà accademica”? Gli imputati lo sanno da chi queste parole sono state pronunciate, da un seggio insospettabile4. Ed è da questa stessa “viltà” che è disceso il crimine, è anche da questo atteggiamento che è nata una strage che qualcuno ha definito assurda e che invece è spaventosamente nella logica sol che si abbia la pazienza di studiare con obiettività i 115 quintali delle carte processuali di questa esemplare vicenda giudiziaria. Prof. Guido Oberti, ing. Camillo Linari, ing. Egidio Piancastelli, ing. Quirino Sabadini, ing. Luigi Rossi Leidi: il filo rosso corre dentro e fuori i tecnici cosiddetti dipendenti e i tecnici cosiddetti indipendenti; imputato prof. Tonini, docente di costruzioni idrauliche, direttore dell’ufficio studi della SADE, docente presso l’Università di Padova, consulente della SADE e poi dell’Enel […]; imputato prof. Ghetti, direttore dell’istituto di idraulica della facoltà di ingegneria dell’Università di Padova, consulente della SADE, direttore delle esperienze modellistiche a mezzadria tra lo Stato e il monopolio privato; prof. Dalpiaz, titolare della cattedra di geologia della facoltà di scienze dell’Università di Padova, legato da mille fili ufficiali e ufficiosi alla SADE; imputato ing. Sensidoni, ispettore generale del Genio Civile presso il consiglio superiore dei lavori pubblici, componente la commissione di collaudo, riconosciuto dalla SADE suo (sic!) “buon avvocato”; prof. Marzolo, docente di idraulica e consulente della SADE. In verità manca lo spazio e il tempo, non certo la messe dei nomi.
Per triste dovere di obiettività dobbiamo però subito riconoscere e ammettere che il fenomeno di queste prostituzioni della scienza al potere economico non è limitato certo al campo delle acque […]. Sempre nel campo della medicina, e per tornare in Italia, anzi nel Veneto, la collusione tra Università, potere accademico e potere economico, fra ricerca scientifica e grandi monopoli industriali, è giunta recentemente al Parlamento a proposito della convenzione intercorsa fa la facoltà di medicina dell’Università di Padova e la società Montedison per l’espletamento e la gestione del servizio di medicina di fabbrica a Porto Marghera. Era in quell’occasione persino emerso che dei medici dipendenti dalla Montedison erano stati nominati assistenti presso l’Università di Padova pur continuando a svolgere esclusivamente il loro lavoro nell’azienda. Del resto uno studio recentemente pubblicato ha dimostrato che, negli anni Trenta, otto ingegneri su dieci, usciti dall’Università di Padova, erano stipendiati o in qualche modo “agganciati” alla SADE. (pp. 82-83)
Fatalità o non fatalità dei cosiddetti disastri naturali
Ma vi è un altro punto sul quale credo bisogna essere assai chiari: è quello relativo a una argomentazione fondamentale della difesa degli imputati, e cioè che il disastro è accaduto per fatalità di fenomeno naturale. ossia, in altre parole, che la colpa di ciò che è successo è del buon Dio. È una giustificazione che cominciò a nascere quando questi uomini si accorsero che passavano i mesi e gli anni, che i veneti non avevano fatto giustizia sommaria, che l’opinione pubblica iniziava a essere disposta a inghiottire anche le ipotesi più assurde. […]
Non c’è [nulla] di meno naturale della frana del Toc: abbiamo già visto che la SADE ben sapeva da anni quale era l’esatta naturale geologica della montagna, ben aveva capito che le frane e gli smottamenti, i rumori e i movimenti denotavano che l’irreparabile stava per compiersi, in diretta e unica relazione con lo sfruttamento della diga e la presenza di enormi quantità di acque. In questo nostro paese dove le sciagure nazionali si ripresentano a ritmi sempre più frequenti a una opinione pubblica non del tutto cosciente delle loro cause, e dove al destino e alla fatalità vengono addossate le colpe della negligenza dei responsabili, il fenomeno del Vajont è un esempio da manuale.
La frana del monte Toc era stata prevista tre anni prima, calcolata in tutte le sue possibili conseguenze, compreso lo sterminio di una intera popolazione. Imputata la SADE, imputato l’Enel, ma anche certamente lo Stato che non è ignorante della insaziabile avidità del monopolio privato e delle compiacenze dell’Ente di Stato. Lo Stato che, come è stato scritto, mostra un uguale volto di follia burocratica ai superstiti del Vajont, agli alluvionati del Polesine e del Biellese, ai terremotati di Irpinia e della valle del Belice; «lontano dagli uomini», come è stato giustamente detto, ma assai vicino agli interessi del grande capitale.
[…] È una battaglia per una diversa scala di priorità nelle scelte economiche e negli stessi valori morali che accomuna la contestazione della naturalità di fenomeni sia, come quello del Vajont, definito dalla classe dirigente come eccezionale e imprevedibile, sia di quelli (alluvioni, terremoti, crolli, incendi) definiti inarrestabili.
Perché alla radice di questi cosiddetti fenomeni naturali vi è l’arretratezza civile, la carenza urbanistica, la presenza della speculazione, il marcio della burocrazia che fanno sì che una pioggia diventi un dramma, come in Piemonte, o un terremoto, come in Sicilia, diventi una tragedia. A proposito: dov’è la naturalità del crollo di Agrigento? E il monte Toc non era già stato da decenni definito «una montagna senza piedi»? E non è un caso che nei nostri riferimenti si accomunino le zone montane del nord e le zone del meridione, perché ambedue hanno pagato prezzi altissimi all’espansione capitalistica e dove solo il mendace può parlare di “natura ingrata”. Sono tutti esempi del livello di subordinazione agli interessi dei gruppi di potere cui lo Stato stesso ha condannato intere regioni del nostro paese. Per le classi dominanti il Vajont è solo, come molti altri, “un incerto del mestiere”. E pertanto è vero che anche questa rientra in un “ordine naturale” ma non degli eventi bruti, bensì del sistema che regola la nostra società e le stesse leggi violentate delle natura.
Le inadempienze, le colpe nei confronti dei decisivi problemi della montagna e del suolo, dei fiumi, della sicurezza e della vita della gente, hanno nomi e volti precisi, sigle prestigiose, con apparati tecnici e culturali al loro servizio. (pp. 92-94)
Osservazioni conclusive: dimenticare o minimizzare è una colpa
Di fronte a tutto ciò il processo è esemplare perché il dolore è il lievito di un nuovo impegno civile; perché si deve ristabilire il valore primario e insostituibile della vita umana di fronte a qualsiasi feticcio del profitto o del progresso tecnico; perché si deve gridare qui, e dimostrare, che il potere economico, il prestigio scientifico e la posizione dominante nell’apparato dello Stato non devono garantire l’impunità e assolvere da responsabilità.
Per questo, anche se non sopravviveranno le arringhe degli avvocati, io sono convinto che continuerà, anche molto dopo di noi, a insegnare, a stimolare, a muovere tutto ciò che dal processo è uscito, il solco che il processo lascerà nella storia. Proporre agli uomini un’altra maniera di vivere, senza il sacrificio a un dio che vuole sacrifici umani.
Mentre così diciamo abbiamo di fronte agli occhi le fosse comuni dei Lager nazisti, le vittime dello stessa sistema: e pensiamo a Filetto. Filetto è un paese qua vicino5 e tra quella strage e quella del Vajont c’è solo un sottile schermo. Defregger ha ucciso Filetto, voi imputati avete ucciso la valle del Piave.
La vostra indifferenza verso quegli uomini, quelle donne e quei bambini, verso la loro sorte, verso la morte che ogni giorno contro di loro avanzava ha le stesse origini dell’odio del capitano tedesco contro i poveri della montagna di Abruzzo. Quest’origine è comune, anche se lo scoppio feroce del terrore con le armi che vomitano fuoco si realizza in modo diverso contro la popolazione di Longarone: l’odio della SADE è gelido, efficiente, tecnicizzato, tutto d’acciaio. Ma tra le giustificazioni di Defregger e quelle di Biadene e soci non vi è differenza: essi invocano di essere solo dei piccoli ingranaggi di un grande meccanismo e di essersi limitati a eseguire degli ordini. Il processo di Norimberga ci ha insegnato che queste giustificazioni e queste scusanti non hanno nessun valore.
Nell’ultima pagina della motivazione della sentenza istruttoria, il giudice a completamento del suo lungo lavoro un compito ci affida (e quel «ci» significa a tutti quanti noi!): il compito di rispondere a «difficili interrogativi» e non solo di natura strettamente giuridica ma anche «di diversa natura». Il magistrato, senza il quale questo processo non si sarebbe stato, sottolinea la necessità che «in avvenire, in nome del progresso tecnico, dell’esigenza produttiva dello Stato, del profitto di pochi o di molti, i nostri stessi figli non siano testimoni e vittime di analoghe tragedie… se non vogliamo che essi… si trovino improvvisamente soffocati dal fango senza sapere questi e molti altri perché». (pp. 103-105)
Nota. Tratto da Sandro Canestrini, Vajont: genocidio di poveri, Cierre, Sommacampagna (Verona) 2003, con una introduzione e note di Adriana Lotto (ma le note a questa antologia sono nostre). Si tratta la terza edizione del testo dell’arringa (pronunciata il 23 settembre 1969, tra le prime del collegio di difesa della parte civile), dopo la prima Cultura, Firenze 1969, con una prefazione di Carlo Bertorelle e il testo della sentenza del giudice istruttore che permise l’apertura del processo (si ritrovano entrambe nell’edizione Cierre), e una seconda, catalogata senza note tipografiche nel sistema bibliotecario italiano, ma di certo realizzata nel bellunese nel 1992-93, per il trentesimo anniversario.
L’edizione Cierre riprende anche la “postilla” datata 1992 scritta da Canestrini per la seconda edizione, e contiene una ulteriore nota di Canestrini, secondo il quale nel 2003 non c’era altro da aggiungere o da attualizzare: “Cosa c’è da rivedere o da cambiare? È di pochi mesi fa la sentenza per i morti di Marghera [nel novembre 2001, la sentenza di primo grado del processo per i morti del Petrolchimico di Marghera assolse tutti gli imputati]. È di pochissimi anni fa il risultato per la strage della diga di Stava [Canestrini difese anche i familiari delle 268 vittime di Stava, travolte dall’inondazione del 19 luglio 1985]. Giriamo le pagine dei giornali e vediamo cosa sta succedendo in campo politico e giudiziario sui fatti di Genova. Da una parte le vittime, tante e innocenti, dall’altra parte il coro assordante del capitale che vuole far dimenticare tutto, con i suoi mezzi di stampa e di propaganda. La parola d’ordine è: tenere nascosti i massacri, e dimenticare le parole sui cimiteri. Forse allora […] il ricordare con una nuova manifestazione la tragedia del 9 ottobre 1963 perde ogni possibile definizione di un mesto anniversario per assumere fortemente quella rivoluzionaria. Anche la ristampa degli atti di allora è tutta un grido: non dimenticheremo MAI” (pp. 13-14).
(f.b.)
- I numeri di pagina al termine delle citazioni rimandano all’edizione Sandro Canestrini, Vajont: genocidio dei poveri, Cierre, Sommacampagna (Verona), 2003; i titoletti sono nel testo originale. [↩]
- Cioè per azioni proseguite malgrado l’evento previsto come concretamente possibile. [↩]
- Il sindaco di Longarone Giuseppe Celso morì la sera del 9 ottobre 1963, a 41 anni; Terenzio Arduini, vicesindaco, gli subentrò fino alle elezioni del 1964; la sera del 9 ottobre 1963 Arduini perse un figlio, i genitori e una sorella, che fu travolta insieme a tutta la sua famiglia. [↩]
- Il riferimento dovrebbe essere a un articolo di Guido Nozzoli, giornalista del Giorno. [↩]
- A Filetto, nei pressi dell’Aquila, il capitano nazista Matthias Defregger fece fucilare 17 persone per rappresaglia, il 7 giugno 1944. A quanto si legge, per questo ottenne la promozione a maggiore. Dopo la guerra Defregger entrò nella Chiesa cattolica: consacrato prete nel 1949, fu elevato a vescovo di Monaco nel 1968. Il silenzio sulla strage del 1944 fu rotto solo nel giugno del 1969 grazie a un’inchiesta giornalistica del settimanale Der Spiegel; il caso era quindi alla ribalta quando Canestrini pronunciò la sua arringa. Per la strage di Filetto non ci sarebbe stato alcun processo. [↩]
enzo ferrara dice
Care e cari amici di Mestre, ci fate un enorme regalo con questo testo sistemato online e accessibile a tutti, una lezione densa di significato che ci aiuta a tessere un filo che continuerà a tramandarsi, nonostante l’evidenza dei tanti nostri limiti. Un caro saluto da Torino, Enzo Ferrara, per il Centro Studi per la pace Sereno Regis e per Medicina Democratica