di Luisa Accati
Presentiamo alcune pagine dal recente libro di Luisa Accati, Apologia del padre. Per una riabilitazione del personaggio reale (2017). Con una nota finale e un invito alla discussione.
Nelle università americane dagli anni ’70 del ‘900 si è cominciato a dire che il sesso non esiste al di fuori del genere, cioè al di fuori delle costruzioni culturali. E questo è vero, si nasce sempre in un contesto che impone una certa idea del “femminile” e del “maschile”. Mentre il passo successivo ha una ben diversa incidenza politica. Infatti si è cominciato a dire che il sesso non esiste, esiste solo il genere, cioè anche il sesso è solo una costruzione culturale. Quest’ipotesi compromette la stessa utilità del concetto di genere e dà inizio a una involuzione dal femminismo. Si torna in sostanza all’ipotesi di un solo soggetto che si vorrebbe asessuato, in realtà, come abbiamo cercato di mostrare, si tratta di un soggetto fusionale madre-figlio. Il sesso viene neutralizzato e, di fatto, le donne come soggetti autonomi diversi, scompaiono di nuovo dentro la categoria asessuata di genere: gli studi di genere sostituiscono la storia delle donne. E il concetto di genere così utile e significativo diventa, suo malgrado, il mezzo per riproporre una sostanziale separazione della mente, dello spirito della psiche dal corpo: la regressione riprende una strada storicamente tracciata. E infatti, non passa molto tempo, e si arriva a teorizzare che termini come “uomo” e “donna” sono obsoleti e il loro uso perpetuerebbe vecchi schemi discriminatori. In sostanza riappare, in forma nuova, la superiorità dello “spirituale” rispetto al fisico, il corpo di nuovo diventa indifferente, né uomo, né donna, un mélange performativo, una sorta di nuova natura angelica. Ovviamente la medicina, la biologia, la genetica e le scienze naturali tutte continuano a pensare che esistano uomini e donne biologici fra loro diversi, addirittura da una goccia di saliva o da un pezzetto di capello, con l’esame del DNA si può risalire a un uomo o a una donna, tanto marcata è la diversità. Una parte rilevante delle scienze sociali (senza suscitare grandi reazioni) invece ripropone l’indifferenziazione, il corpo fusionale. La scienza biologica ha bisogno di precisare le differenze fra uomini e donne, troppo spesso non se ne è tenuto conto adeguatamente e l’approfondimento delle diversità rende gl’interventi terapeutici molto più mirati ed efficaci sia per gli uomini che per le donne. Chiarire quanto più è possibile gli elementi di diversità giova a migliorare la condizione di tutti.
Gli studi umanistici che forniscono elementi di riferimento alla politica vanno nella direzione opposta. La differenza di sesso e di pensiero fra uomini e donne o viene ignorata come se non fosse un problema e come se (malgrado tutto) il problema fosse includere le donne, oppure negli studi che prendono in esame le diversità, per definizione, nuocessero alle donne e rivelassero soltanto la volontà di prevaricare degli uomini. In definitiva sembra che i gender studies, dopo aver cercato di decostruire le incrostazioni culturali che imbalsamavano le donne e gli uomini in ruoli stereotipati, non riescano a proporre nulla di costruttivo e di nuovo. Come se le donne del passato, prima della presa di coscienza femminista, non avessero nulla da insegnare, come se fossero estranee alla storia. Il problema è diventato: cancellare il “femminile”, il “maschile” come due realtà fittizie, ma senza esaminarne il senso storico e senza restituire il credito dovuto alle differenze che esistono. Se fino al ‘600, fino alle lezioni di anatomia, il corpo rappresentativo del genere umano era un corpo maschile e la medicina prima e il femminismo dal ‘700 in avanti cercano di fare emergere un altro corpo, quello femminile, a partire dalla seconda metà del ‘900 il corpo di nuovo smette di essere o maschile o femminile, ma diventa apparentemente neutro. In realtà si tratta di una nuova omologazione al corpo maschile, le donne possono pensare e fare tutto quello che fanno gli uomini, come se ci si dovesse liberare, fra la vergogna e l’indifferenza, degli aspetti sessuali, da dimenticare. Del resto le donne vengono educate a vergognarsi di loro stesse e l’idea di non appartenere più a una categoria segnata dall’inferiorità pare più attraente che affermare l’importanza, il significato e il peso delle attività esercitate dalle donne nel corso del tempo, come la cura dei corpi e l’educazione dei figli e delle figlie, la gestione del cibo, ma soprattutto il lavoro di mediazione nelle relazioni familiari e sociali. In Antico Regime sono state sempre le donne a mediare, negli accordi per i matrimoni, quando le unioni erano alleanze politiche e sociali, da quelli fra sovrani a quelli fra contadini. Da un punto di vista formale-giuridico gli accordi e gli ordini partivano dai padri, ma antropologia e psicologia ci hanno ampiamente insegnato che le trattative fra padri e figli erano affidate alle donne. Senza sottovalutare la natura subalterna del potere di mediazione si deve riuscire a riconoscere anche il valore della mediazione materna e recuperare la capacità di elaborazione che conteneva. In realtà il vittimismo, cioè considerare le donne come vittime e basta, è un modo di non riconoscerne le qualità e i meriti e comporta una identificazione con il padre e con il maschile molto simile all’identificazione così chiaramente rappresentata dall’uso del termine “uomo” per designare anche le donne. Il cerchio si chiude e si torna al punto di partenza dell’immaginario cristiano: l’essere umano è un uomo, uomini e donne sono una sola carne in Cristo, cioè in un uomo. Del resto l’eliminazione dell’altro, la negazione della diversità e l’impossibilità di due soggetti invece di uno è la cifra distintiva della cultura europea e cristiana della incarnazione. Le scienze umanistiche non hanno decostruito il soggetto indifferenziato del cristianesimo, non hanno separato il maschile dal femminile, la madre dal figlio e, al contrario, hanno dato luogo a una contrapposizione uomini-donne in cui sia gli uomini, sia le donne restano soggetti fusionali, cioè persone non differenziate dalle madri. Si rimproverano gli uomini di aver dominato le donne e le donne di essersi lasciate dominare dagli uomini, una contrapposizione semplicistica che tolta dal contesto della lotta politica in cui è nata e ha avuto una funzione essenziale di rottura, trasferita nella ricerca non porta da nessuna parte. L’azione politica per essere efficace deve dividere in bianco e nero, buoni e cattivi, ma dopo la riflessione deve articolare le dinamiche per passare dalla protesta e dalla denuncia al cambiamento e alla soluzione dei problemi. Gli studi di genere invece si sono sempre più involuti in una contrapposizione senza dinamica e progressivamente, ma inesorabilmente sono giunti a riproporre il dominio, cercando soltanto di aprire la possibilità di dominare anche alle donne. Per esempio ci si preoccupa che le donne possano accedere al sacerdozio senza chiedersi se davvero questa sia una promozione e se non sarebbe meglio liberare i preti dalla loro identificazione con la madre. Con ogni probabilità se questa identificazione fusionale venisse risolta, il sacerdozio non esisterebbe più, infatti le pretese di superiorità morale e la funzione di rappresentanza della madre che sono i sintomi di un disagio sociale irrisolto, verrebbero meno. L’ipotesi che accedere al mondo maschile sia di per sé una promozione ripete l’idea che l’unico essere umano in cui s’incarna il divino sia l’uomo. Il difetto di laicità, la compulsione al dominio che si esprime nella idea fusionale dell’essere umano e porta a negare il rapporto padre-madre, uomo-donna, impedisce di vedere quanto siano significative e utili le diversità e quanto le donne hanno da insegnare e hanno insegnato agli uomini. La logica del dominio resta intatta fintanto che si decostruisce il maschile e il femminile senza tener conto delle relazioni dinamiche fra maschile e femminile. La crisi della politica è tutta in questa impasse. La mancanza di laicità non permette di uscire dalla logica del dominio e la logica del dominio può estendersi anche alle donne (almeno a una parte di esse), ma il problema della distruttività resta, anzi si aggrava.
Questo fantasma dominatore asessuato né uomo, né donna è un prodotto accademico in gran parte ignoto agli uomini e alle donne della strada, circolante solo fra addetti e addette ai lavori o poco più. Tuttavia le università giocano un ruolo fondamentale in quella costruzione dell’ovvio di cui parlavamo inizialmente; l’autorità che viene loro attribuita, a torto o a ragione, fa sì che i temi e i problemi che si dibattono, attraverso l’insegnamento e i media, arrivino dall’alto, in forma di prodotti confezionati e slogan, anche al grande pubblico, sia pure in tempi relativamente lunghi. Inoltre la globalizzazione ha fatto sì che le Facoltà umanistiche si avvicinassero ai metodi di ricerca e di divulgazione delle Facoltà scientifiche, le bibliografie si sono sempre più uniformate e la rilevanza della cultura anglosassone già piuttosto significativa, è diventata egemonia culturale piena. I temi, i problemi e i risultati provenienti dagli Stati Uniti sono passaggi obbligati per le Università europee e i ricercatori si adeguano, molto più di 20 anni fa. Quello che le scienze sociali dovrebbero fare è definire che cosa significa “uomo” e “donna” in un contesto e che cosa significano in un altro. Le scoperte della fisica sono uguali in tutto il mondo e ha senso uniformare i temi e le bibliografie, le relazioni sociali sono diverse in tutto il mondo e non ha senso uniformare i temi e le bibliografie. Al contrario il compito delle scienze sociali è mettere in rilievo al massimo le diversità per poter consentire lo sviluppo delle democrazie secondo specifiche esigenze. La globalizzazione comporta, al momento, un impoverimento del discorso critico e della discussione nelle Università e nelle scuole, in forza di una omogeneità imposta dalla cultura anglosassone. Il discorso critico (e probabilmente la cultura in generale) si sta ricostruendo spostato sul web, dove le diversità possono emergere, tuttavia non si deve sottovalutare quanto accade nelle Università, la loro capacità di creare stereotipi normativi è ancora grandissima.
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Il 9 gennaio 2012 il papa Benedetto XVI ha ricevuto in Vaticano gli ambasciatori di tutto il mondo. Si è presentato con una tonaca bianca, una lunga sottana fino ai piedi, chiusa da una interminabile fila di piccoli bottoni bianchi, scarpe rosse, mantellina rossa bordata di pelliccia, zuccotto sul capo. Nella sua qualità di Padre per antonomasia, sebbene abbia fatto voto di non diventarlo mai e sia celibe, davanti a un consesso di uomini, tutti rigorosamente in pantaloni e giacca scuri, si è messo a parlare di aborto, e questo in difesa della “famiglia” che lui non ha, poiché ritiene che non avere moglie e non avere figli sia una condizione moralmente superiore alla condizione di uomo sposato e padre naturale. Come immaginare una scena più bizzarra (queer)? Federico Fellini nei suoi film ha saputo cogliere questi aspetti, in particolare nella sfilata di moda ecclesiastica del film Roma. Questa scena, se non la si riscatta con l’ironia come fa Fellini, è una violenta e ingiuriosa ostentazione di potere nei confronti delle donne, in cui il sesso del papa è certamente performativo, niente corrisponde alla realtà fisica, tuttavia per nulla neutro o liberato, è una messa in scena della fusione figlio-madre. In sostanza il carattere fortemente legato alla vita coniugale e all’obbligo del matrimonio che dalla Riforma in poi per 400 anni ha dominato nella cultura anglosassone, mette l’accento sulla relazione uomo-donna adulti e sposati, mentre nei paesi di cultura cattolica dalla Controriforma in avanti per 400 anni si è accentuato il contrario, il valore del celibato maschile, pertanto l’asse del conflitto uomo-donna non sta nella relazione coniugale fra adulti, ma nella relazione filiale madre-figlio, il conflitto uomo-donna è ben diverso e l’organizzazione dell’autorità e del potere è ben diversa.
Dal punto di vista delle scienze sociali i temi salienti sembrano in sostanza tre. In primo luogo la storia delle donne e degli uomini nell’area cattolica, in preminenza l’Europa mediterranea, non è la stessa delle donne e degli uomini della cultura protestante nord europea. Considerare universale la situazione anglosassone non permette di capire a fondo i problemi, perché solo la comparazione mette in luce le specificità e rende dinamici e operativi i risultati. In secondo luogo la cultura anglosassone, abolendo il celibato ecclesiastico, in effetti impone il matrimonio eterosessuale a tutti e tutte, il che non può non produrre omofobia, tanto più che il simbolico resta unicamente maschile (Dio Padre e Cristo senza figura materna) e continua a incoraggiare la superiorità morale del rapporto fra uomini. Se si facesse un confronto fra le diverse dinamiche quelle simboliche e quelle reali, quelle del Sud e quelle del Nord dell’Europa, potrebbe apparire come il problema sia il dominio, cioè il rapporto fra soggetto e oggetto e non la scelta dell’oggetto. Il protestantesimo reagisce al dominio matricentrico della Chiesa cattolica, ma non supera la logica del dominio. Sostituisce la falsa madre dell’immaginario cattolico, con un altrettanto falso padre, un personaggio che crede alla divinità del Figlio e alla possibilità che il divino s’incarni nell’uomo. Il falso padre dell’immaginario religioso protestante diventa tanto possessivo e tanto soffocante quanto la falsa madre dei cattolici perché contiene intatto il dominio. Anche in questo caso il solo modo che ha il figlio per crescere è capovolgere i ruoli fra dominatore e dominato. Eterofobia misogina e omofobia sono due facce della stessa medaglia, la logica del dominio non lascia alternative. Per smontarla bisogna rifarsi al modello originale. Il fondamento di tutte le sessuofobie è da ricercare nella volontà di controllare la fertilità e la distribuzione della ricchezza che a essa si accompagna sia rifiutando le donne come contaminanti (cattolici eterofobi), sia imponendole come moralizzanti (protestanti omofobi).
La cultura cattolica rimane legata a un immaginario celibatario prevalentemente eterofobico. Nel cattolico Impero asburgico fino all’800 i sudditi per sposarsi dovevano avere il consenso del sovrano e del vescovo che lo negavano a chi, a loro parere, non avesse i mezzi economici e la moralità necessarie a costruire una famiglia. Il che produceva un alto numero di bambini illegittimi abbandonati, di ragazze-madri e di infanticidi. Il matrimonio era di fatto spesso scoraggiato. Non v’è dubbio che, almeno inizialmente, il proposito dei riformatori protestanti di estendere a tutti il matrimonio contenesse una volontà di riconoscere a tutti il diritto ad avere marito o moglie e figli, se questo diritto si è trasformato in persecuzione dei non sposati è dovuto alle contraddizioni fra simbolico e reale, alla mancanza di laicità. Un simbolico unicamente maschile che divinizza il maschile sia come idealizzazione del Padre, sia come idealizzazione del Figlio.
In terzo luogo non c’è nessun bisogno di cancellare la soggettività sessuata del padre e della madre per poter diventare quello che si vuole, omosessuali o eterosessuali o transgender e chiedere quei diritti civili che si ritengono opportuni. Un/a omosessuale non smette di essere una persona che può realizzare la paternità (o la maternità) e non smette di essere stato generato per metà da un uomo e per metà da una donna e pertanto di disporre di una eredità maschile e femminile con cui misurarsi. Avere chiare tutte le componenti della propria identità non può che giovare alla scelta libera dell’oggetto del proprio erotismo e del proprio affetto. Invece è necessario mettersi, di nuovo, a negare la relazione eterosessuale fra padre e madre come causa di sé nel caso si voglia mantenere una forma di potere onnipotente e dominatore e, anziché decostruire il potere come dominio che imprigiona donne e uomini in una relazione fusionale, si cerca soltanto di estendere la facoltà di dominare anche alle donne. Illuminante rimane, da questo punto di vista, l’analisi proposta, ormai parecchi anni fa, da Luisa Muraro. Dalla sua esperienza di donna cattolica, divideva le donne in due categorie: quelle che hanno bisogno di affidarsi e quelle che non hanno bisogno di affidarsi, anzi sono capaci di assumere l’affidamento delle più deboli. La sostanza è: le figlie falliche possono, come i figli fallici, dare un senso alla madre. Le implicazioni di potere sono chiare: si sancisce la dipendenza, la debolezza (“l’inferiorità”) di alcune donne che restano “femminili” e che hanno bisogno di un sostituto del padre o del marito come nell’Antico Regime. Del resto nelle università italiane è fiorita una corrente di studi sulle monache in cui, grosso modo, la tesi è che la monacazione ha consentito alle donne di sviluppare una soggettività autonoma che non era possibile conservare nelle relazioni con il marito e con i figli. Difficile non pensare a un effetto ambientale di eterofobia nella interpretazione di questa corrente di studi. Infatti il convento non era meno controllato da uomini di quanto fosse una famiglia, come hanno ben mostrato gli studi di Sara Cabibbo e di Francesca Medioli, ogni parola e ogni condotta era minuziosamente sotto l’occhio vigile di confessori e autorità ecclesiastiche maschili che indirizzavano comportamenti, scritti e parole delle monache. Del resto il fatto che esistano a tutt’oggi monache che hanno liberamente scelto la monacazione non toglie che i conventi rispondano all’autorità ecclesiastica maschile e che le monache non abbiano accesso non dico al papato, ma nemmeno al sacerdozio. Mentre la situazioni delle donne sposate o comunque senza voti di castità è cambiata sensibilmente rispetto all’Antico Regime in termini di diritti, possibilità di lavoro, di vita affettiva e sessuale.
Educazione alla sottomissione, educazione all’eterofobia, educazione al dominio dei figli e all’affermazione attraverso di loro o attraverso la loro rappresentazione metaforica e simbolica cioè la Chiesa, sono tre aspetti dello stesso problema, vanno di pari passo, è inevitabile che si risenta di tutto ciò anche nel femminismo e che l’impulso a usare forme arcaiche di potere accompagni lo sforzo di uscirne. Uno dei problemi è proprio dividere le istanze innovative dalle derive dell’educazione religiosa all’interno dello stesso femminismo. È inevitabile che tanta eterofobia misogina abbia fatto dei guasti con cui si devono fare i conti. L’invidia per gli uomini non l’ha inventata Freud, si è limitato a trovarla nella mente delle pazienti, l’immaginario della religione cattolica offre un ampio quadro di come è stata costruita e di come faccia parte dei meccanismi del dominio.
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Nota. Pagine tratte da Luisa Accati, Apologia del padre. Per una riabilitazione del personaggio reale, Meltemi, Milano 2017, pp. 112-121, con minime modifiche tipografiche e l’omissione delle note a piè di pagina. Segnaliamo che una versione francese è uscita nel 2016: Apologie du père. Pour une réhabilitation du personnage réel (Mimesis, Milan).
Nel suo libro, Luisa Accati analizza il paradigma del dominio prendendo in esame l’immaginario religioso cristiano che di solito non è sottoposto ad analisi perché viene dato per ovvio. A partire dalla Controriforma, nel cattolicesimo la coppia dei genitori (Gioacchino e Anna, Maria e Giuseppe) scompare dall’immaginario e viene sostituita dalla figura della Vergine-Madre: da questo cambiamento, che indebolisce la figura paterna e dichiara la superiorità morale del celibato, deriva un modo specifico nel cattolicesimo, rispetto ai contesti culturali protestanti, di concepire non solo i rapporti famigliari ma anche quelli sociali. Preti e vescovi sono ritenuti moralmente superiori agli uomini sposati (quest’ultimi sono uomini deboli che non hanno la forza di evitare le donne), ed è il clero a formulare le norme relative al matrimonio e alla sessualità sia maschile sia femminile.
A partire dalla Riforma e dalla Controriforma, in Europa si delineano quindi due contesti culturali differenti: nel cattolicesimo l’identità maschile è filiale, mentre nel protestantesimo è paterna-maritale. Entrambi i contesti sono accomunati da “una compulsione al dominio” (p. 19), ma nel primo caso il controllo sulle donne passa attraverso il vincolo con il figlio a scapito della rilevanza del padre, nel secondo invece passa attraverso il legame con il marito.
Il libro si sofferma particolarmente sulla specificità del contesto culturale cattolico, mostrando come la simbologia religiosa s’insinui inavvertita nella vita privata e nelle relazioni sociali, a cominciare dalla sottomissione della politica e delle autorità civili alla religione e alle autorità ecclesiastiche. Le conseguenze sono di lungo periodo e sopravvivono ai moderni processi di secolarizzazione, sotto una patina di laicità non seguita con coerenza; da questo punto di vista, una delle tesi dell’A. potrebbe essere riassunta nella formula “laicizzazione mancata”.
I condizionamenti profondi riguardano anche il modo di concepire il lavoro e il denaro, laddove l’A. individua due circuiti distinti: “il circuito caritatevole del denaro nobile e pulito che fa capo alle madri di famiglia e agli ecclesiastici e il circuito del denaro sporco che fa capo agli uomini sposati e alle prostitute” (su questo si vedano le pp. 86-93). Identificandosi con la Madonna e con le madri, la Chiesa utilizza i soldi per fare la carità e donare. Come può il denaro sporco ripulirsi? Passando dal circuito sporco a quello nobile, cioè elargendo doni e beneficenza alle istituzioni caritative ecclesiastiche.
Il fatto di ignorare la differenza tra le due tradizioni religiose comporta fraintendimenti che impediscono di analizzare la specificità dei contesti che danno significato ai simboli culturali. Per esempio – ed è questo il tema che abbiamo privilegiato nella nostra scelta di alcune pagine dal libro – da tempo gli ambienti accademici italiani hanno adottato dalle università americane i gender studies, compresa “la storia di genere”, senza rendersi conto che diventare uomini e donne in una cultura protestante è diverso dal diventarlo in un contesto culturale cattolico: nel primo caso infatti (dove la coppia eterosessuale centrale è marito-moglie) il padre-patriarca chiamato in causa è sposato, mentre nel secondo (dove la coppia eterosessuale centrale è madre-figlio) il padre-patriarca è celibe.
Nel femminismo esistono com’è noto due distinte tradizioni di pensiero. La prima, sorta in Gran Bretagna e negli Stati Uniti con La soggezione delle donne di John Stuart Mill (1869), parla di diritti dell’individuo, minimizzando i ruoli di ciascun sesso inclusa la procreazione; la seconda tradizione, sorta in Francia con la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges (1791), vede nella coppia maschio-femmina, non gerarchica ma paritaria, la base della società. Inserendosi nella seconda tradizione di pensiero, Luisa Accati invita le scienze sociali a prendere sul serio le scoperte delle scienze biologiche sulla sessualità degli esseri viventi (vegetali e animali), e riafferma l'utilità di una Storia delle donne. È uno dei tanti argomenti su cui il libro invita ad aprire una discussione (ampia e pubblica).
ANDREA STROCCHI dice
Laicamente piacevolmente sopreso.