a cura di Filippo Benfante
Settant’anni fa, il 25 luglio 1943, poco prima delle 23 la radio annunciava le dimissioni di Mussolini e la nomina del generale Pietro Badoglio a capo del governo. In molte città ci furono esultanze immediate: scene di festa, statue e altri simboli del fascismo abbattuti, assembramenti davanti alle prigioni per chiedere la liberazione dei prigionieri politici. . Invece bastarono in certi casi poche ore, talvolta pochi giorni, per accorgersi che il peggio doveva ancora arrivare. Chi voleva la fine della guerra si scontrò subito con la fine del proclama: “la guerra continua”. Poi si ci accorse che la gestione dell’ordine pubblico di Badoglio non era così diversa da quella del regime; alla radio il generale aveva detto anche: “Chiunque turbi l’odine pubblico sarà inesorabilmente colpito”: monito forse rivolto anche agli ultimi fedeli di Mussolini, ma che prima di tutto valeva per gli antifascisti, per gli operai che scioperavano, per chi chiedeva la fine della guerra. E quarantacinque giorni dopo sarebbe arrivato l’8 settembre.
Una decina di anni fa, per documentare un capitolo della sua tesi di dottorato, Filippo Benfante aveva letto una serie di testimonianze (per la maggior parte edite) su quella notte del 1943, scritte da antifascisti che, per una ragione o per l’altra, si trovarono a passare o a vivere a Firenze e dintorni. Su nostra richiesta – e senza aggiornarsi sulla bibliografia degli ultimi dieci anni –, ha ripreso alcune delle schede che aveva fatto allora e ha confezionato, seguendo il caso dei ritrovamenti, una piccola antologia di testimonianze note e meno note, con una digressione sulle canzoni, anche per ricordare che il 25 luglio non arriva del tutto inaspettato.
1. Firenze, domenica 25 luglio 1943, sera: Franco Fortini va a trovare un amico che abita in una “casa modestissima di periferia”; è ammalato, “immobilizzato da una pericolosa malattia […] sotto un lenzuolo soltanto, perché fa molto caldo e le finestre sono spalancate”. La mamma e la sorella di Fortini sono andate al cinema; il padre è a casa, come al solito “resta sotto la lampada a guardare il giornale fino a che non è ora di innestare alla radio le spine di una sua cuffia e cercare sul vecchio apparecchio i colpi del segnale di Radio Londra”. È lui che telefona al figlio:
“È la notizia, l’incredibile. Le dimissioni di Mussolini. In quante case d’Italia sarà successo come in quella casa! Sembravamo ed eravamo tutti impazziti. Una gioia quasi paurosa.
Ci si abbraccia, si stappano bottiglie […]. Parole, risate, occhi lustri: la fine, la libertà, la pace! Poi tutti alla radio. «La guerra continua» naturalmente; ma sarà per prendere le opportune precauzioni contro i tedeschi. Il tono littorio delle ultime parole del proclama di Badoglio è deludente. Ma quando alle prime note della Marcia reale non seguono più, come sempre, quelle di «Giovinezza», scompaiono gli ultimi dubbi: è finita davvero” (Franco Fortini, Sere in Valdossola, Marsilio, Venezia 1985, pp. 24-27; prima ed. Mondadori, Milano 1963).
L’annuncio è arrivato troppo tardi – solo poco prima delle 23 – perché l’entusiasmo possa percorrere subito tutta la città. Ma c’è modo di far partire piccole manifestazioni, si vedono e si sentono assembramenti, grida di gioia, canti, abbracci senza più prudenza, anche tra persone che non si conoscono tra loro.
Il comunista Gianfranco Benvenuti arriva a Firenze col primo treno dal vicino borgo di Compiobbi; scende alla stazione di Campo di Marte: lo accoglie un quartiere deserto, ma appena si addentra nel rione di Santa Croce, tutto cambia all’improvviso “d’un colpo proprio”: “Nella Via dei Macci vi è gente, molte finestre sono spalancate, qua e là v’è luce; gente si muove e cammina in una sola direzione, da dove cioè provengono voci alte, come in coro. All’angolo con Via dell’Agnolo sono in strada centinaia di persone, le finestre sono aperte e illuminate, è una festa, sono grida, sono canti e sberci […] la festa è tutto un commento ad alta voce, urlato, imprecato. E quel coro pur nel frastuono, viene fuori, scandito, «Ba..do..glio. Ba..do..glio», disordinatamente, interpuntato da voci singole, urlanti, «Sudicio», «Pezzo di merda», dirette a lui, al duce, uomo tutto, uomo, ora, incredibilmente finito. E intanto c’è chi si chiama da distanza, chi parla da finestra a finestra, è una baraonda, ci stanno di tutti i tipi lì in mezzo, anche puttane, anche ubriachi”.
All’improvviso sono spariti i segni quotidiani del regime: le squadre notturne e le ronde militari; il circolo fascista del rione è l’unico edificio con le luci spente. “Risalgo verso i Viali, la festa resta alle spalle, il clima si quieta, giungo a casa, Via Ghibellina 24, la gente è rada, parla animosamente, ma non urla. Ho la testa frastornata. Oltre il portone, ritrovo il buio e il silenzio di sempre”.
Ancora rumori lontani, qualcuno continua a manifestare, i pochi organizzati stanno andando al carcere delle “Murate” a reclamare la liberazione dei detenuti politici (tutte le citazioni da Gianfranco Benvenuti, Ghibellina 24. Memorie per un contributo alla storia della Resistenza fiorentina, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, Città di Castello 1974, pp. 13-15).
2. Per le persone comuni, per i detenuti, per i soldati nelle caserme “il 25 luglio” significa anche 26, e per qualcuno 27 o persino 30. Sin dal mattino del 26 ci si raduna nelle piazze per le manifestazioni, alcune spontanee, altre organizzate dai partiti antifascisti che nel corso degli ultimi mesi si erano riorganizzati e ormai svolgevano un’intensa attività politica. A Firenze si notano i tricolori alle finestre sin dalle prime luci. Si comincia a lavorare di scalpello, per abbattere busti, stemmi, effigi. Dalle varie parti della città, isolati o a gruppi uomini e donne, molti giovani, confluiscono nell’allora piazza Vittorio Emanuele, l’attuale piazza della Repubblica, per formare un unico grande corteo.
Un altro comunista, Gino Tagliaferri, riesce a rientrare a Firenze solo la mattina del 26, e sa dove andare: in piazza Vittorio incontra i compagni e i leader del partito rimasti in città. Si decide di ripartire nuovo verso il carcere per reclamare quanto la sera prima non era stato ottenuto: le scarcerazioni dei detenuti, sia i politici che i comuni.
“Ci mettemmo in testa al corteo molto numeroso e rumoroso, ma quando arrivammo alle Murate trovammo schierato attraverso via Ghibellina un folto cordone di militari col fucile bilanciato verso i dimostranti. Gli ufficiali ci gridarono: «Indietro, indietro! Abbiamo ordine di far fuoco».
Fui tra quelli che si avvicinarono e tentai di spiegare agli ufficiali, fra le urla e le minacce, che loro dovere era di stare con il popolo e di permettere la liberazione delle vittime del fascismo. Alla fine ritenemmo opportuno non insistere, perché ci rendemmo conto che facevano sul serio e noi non volevamo aver vittime” (Gino Tagliaferri, Comunista non professionale. Lotta clandestina a Firenze, La Pietra, Milano 1977, p. 100. Sulle manifestazioni, i tricolori, le effigi scalpellate, il ritrovo in piazza Vittorio, si possono vedere, tra gli altri, anche Carlo Francovich, Resistenza a Firenze, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 16, e Benvenuti, Ghibellina 24 cit., p. 17).
3. Il nuovo governo non esita a usare l’esercito per mantenere l’ordine pubblico. Italo Calvino, studente universitario chiamato alle armi come allievo ufficiale, in quei giorni scrive dal campo di Mercatale di Vernio ai genitori, che si trovano a Sanremo. La sua compagnia attende ordini.
“A quanto ci fanno capire noi saremmo adibiti al mantenimento dell’ordine pubblico. Secondo le solite voci che circolano rimarremmo qui ancora cinque o sei giorni; se entro questo tempo ci saranno ancora disordini a Firenze o in altre città dei dintorni – ci sono scioperi a Prato – ci manderebbero là; se no ci manderebbero a casa” (Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, Mondadori, Milano 2000, pp. 139-141, lettera del 29 luglio 1943).
Anche tra quei soldati, la notte del 25 luglio è stata entusiasmante: “La notizia del ritorno di Badoglio – allora si seppe solo quello – giunse al campo mentre dormivamo e tutti uscimmo dalle tende a cantare Fratelli d’Italia. Nelle altre giornate c’è stato più nervosismo e ansiosità che entusiasmo: una parte degli allievi cui l’educazione fascista ha tolto ogni aspirazione alla libertà, si trova triste e smarrita, impreparata com’è agli avvenimenti. Ci sono invece, esultanti, alcuni studenti dell’università di Pisa, appartenenti a partiti liberal-socialisti e comunisti. Ciononostante gli incidenti e i litigi sono irrilevanti, temperati come sono dalla divisa. Per ora non abbiamo che una aspirazione: tornare a casa” (ibidem, p. 140).
4. La musica e le canzoni segnano quelle giornate. I canti e gli inni patriottici prendono un significato diverso oppure, per qualcuno, riprendono il valore che avevano prima di essere integrati nell’immaginario fascista. Soprattutto, si riprendono a cantare le canzoni di lotta e di opposizione al regime, prima fra tutte Bandiera rossa. La polizia, indifferente o poco reattiva ai cambi di regime e di clima politico, registra come al solito questi episodi. Sembra che ci sia una preoccupazione in particolare: anche i soldati cantano senza ritegno Bandiera rossa.
La prefettura di Firenze riferiva che episodi simili avevano cominciato a verificarsi sin dal 20 luglio: “in frazione S. Miniatello nel Comune di Montelupo Fiorentino, si è sparsa la voce che alcuni militari transitanti da colà verso mezzogiorno su cinque autocarri targati R. E., avevano cantato l’inno comunista «Bandiera rossa». (Archivio Centrale dello Stato [d’ora in poi ACS], Ministero dell’Interno, Pubblica Sicurezza [d’ora in poi PS] 1943, b. 50, fasc. “Firenze”, nota firmata dal prefetto, Firenze, 3 agosto 1943.)
Lo stesso accade il 27 luglio tra Savona e Genova: “mentre una colonna di cinque autocarri carichi di alpini, transitava da Albissola diretta verso Genova, da militari montati sul terzo autocarro veniva cantata «Bandiera rossa». Non si è potuto accertare ilo reparto cui appartenevano detti militari. L’Autorità Militare è stata informata. (Ivi, fasc. “Savona”, nota firmata dal prefetto, Savona, 3 agosto 1943.)
Il primo agosto, a Torino, finisce in rissa l’alterco tra due caporali del I Reggimento Genio, di stanza in città, Felice Dezzato e Giovanni Ardizzone che cantavano Bandiera rossa, e i “civili che avevano loro imposto d’interrompere il canto”. I due soldati erano stati riconosciuti ubriachi, come regolarmente accadeva per aggiustare questi casi, e quindi ricondotti al loro reparto. (Ivi, fasc. “Torino”, sottofasc. “Dezzato Felice fu Carlo e Ardizzone Giovanni”, nota firmata dal prefetto, Torino 9 agosto 1943.)
I casi si moltiplicano, in ogni parte d’Italia: i soldati cantano Bandiera rossa per strada, a piedi, in bicicletta, nelle marce, nelle osterie, nelle caserme, nei treni tradotta. A Genova, addirittura in maggio era scoppiato un battibecco tra alcuni soldati che nella notte avevano attaccato il canto Bandiera Rossa e alcuni “civili” che affacciati alle finestre, dopo essere stati svegliati dai rumori, avevano intimato – o forse consigliato –: “Tacete ragazzi; svegliate la gente!”. (Ivi, fasc. “Genova”, sottofasc. “Soldati del III Reggimento Artiglieria Alpina – canto Bandiera rossa”, nota datata 12 giugno 1943.) Segnalazioni in maggio anche dal bresciano: due militari che rientrano a piedi a Ospitaletto, si fermano a parlare due altri due “individui, montati su un’unica bicicletta, i quali cantavano ad alta voce «bandiera rossa trionferà»”. (Ivi, fasc.”Brescia”, sottofasc. “Zogno Giulio ed altro”, nota firmata dal prefetto, Brescia, 10 giugno 1943.)
Dunque, stando alle segnalazioni della polizia, i segni della crisi del regime e dell’esasperazione per la guerra si potevano ascoltare almeno dal maggio 1943. Il 29, a Malo (Vicenza), Pietro Fin “d’anni 20 ivi residente soldato furente esonero quale minatore, dopo aver accompagnato con la propria fisarmonica l’inno «Vincere» cantato da alcuni militari in licenza reduci dal fronte russo e riuniti predetto esercizio, pronunciava seguente frase: Ed ora cantiamo «perdere» […]”. (Ivi, fasc. “Vicenza”, sottofasc. “Fin Pietro di Giacomo”, nota firmata dal prefetto, Vicenza, 4 giugno 1943.) Negli stessi giorni, a Trento, sei ragazzi della classe 1925 che avevano appena fatto la visita di leva rientravano cantando per la strada. Un ufficiale dei bersaglieri al comando di un reparto che andava per la stessa strada riconosce i versi «trecento lire si pigliavano, avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa trionferà» e poi «Giovinezza, adesso che si canta Giovinezza, abbiamo debolezza». Altri cinque iscritti alla leva del 1925 furono sorpresi a cantare “avvinazzati”: «Mussolini ha perso l’intelletto perché chiama alle armi la classe 1925 che piscia ancora a letto». (Ivi, fasc. “Trento”, sottofasc. “Gruppo iscritti leva classe 1925 – canto inni sovversivi”, nota firmata dal prefetto, Trento, s d.; l’episodio avvenne il 20 maggio 1943.)
5. Stando alle testimonianze, in molte città italiane ci sono manifestazioni simili a quelle fiorentine. In alcuni casi, la confusione di quelle ore favorisce delle evasioni di massa. Tra le più importanti c’è quella dal carcere di Regina Coeli, a Roma, dove i detenuti comuni e politici si uniscono ai tumulti in corso nelle vie circostanti, danneggiano 139 celle e, aiutati anche dalla folla, riescono a fuggire in 1349: poco meno della metà dei reclusi. Anche il detenuto politico Lucio Lombardo Radice ricorda di aver avuto l’occasione di scappare: celle aperte, si affaccia verso l'esterno – se non proprio esce dal cancello, la descrizione della scena non è chiara –; tra la folla riconosce anche sua madre e sua sorella; improvvisa un discorso per spiegare la situazione, dice che i detenuti (politici) hanno organizzato un comitato di “autodisciplina”: “il che fu poi un errore in un certo senso, forse bisognava dire alla gente: sfondate, fateci uscire. Però ero un ragazzo di ventisette anni, non ero esperto in queste cose! Sono ritornato volontariamente dentro, dove abbiamo cominciato a gestire questo carcere” (la testimonianza è pubblicata in Mario Alicata, Lettere e taccuini di Regina Coeli, prefazione di Giorgio Amendola, introduzione di Albertina Vittoria, Einaudi, Torino 1977, p. 182, nota 4, intervista del 31 maggio 1976). Tra i compagni di Lombardo Radice nel comitato, c’erano anche Ernesto Rossi e Mario Alicata. Il fatto è che attendevano una liberazione “legale”, ossia che le autorità emanassero un provvedimento di scarcerazione per i “politici”.
Rossi uscì solo il 30 luglio (altri aspettarono ancora più a lungo). Lo viene a prendere il compagno Eugenio Colorni che la notte del 25 aveva improvvisato un comizio in piazza Venezia e – ricorda Rossi – aveva cercato di spingere la folla a “impossessarsi del palazzo del capo del governo, per impedire che venissero trafugati i documenti che in esso certamente si conservavano. Non vi riuscì perché venne a mancare la luce”.
“Quando, cinque giorni dopo, mi venne a prendere alla uscita del carcere di Regina Coeli, mi mostrò ridendo il distintivo fascista che aveva portato all’occhiello per tutti i mesi che aveva circolato illegalmente per Roma. «Sono ormai anch’io – mi disse – un fascista onorario»” (Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, «L’Avvenire dei lavoratori», quindicinale socialista di Zurigo, 15 luglio 1944, ora in Id., Un democratico ribelle. Cospirazione antifascista, carcere, confino, scritti e testimonianze a cura di Giuseppe Armani, Guanda, Parma 1975, pp. 187-192, le cit. a pp. 190-191).
Intanto, la moglie di Rossi, Ada Rossi, si trovava in viaggio: il 22 luglio aveva lasciato temporaneamente il confino (era sottoposta a questa misura dalla fine del 1942), perché per una formalità burocratica doveva presentarsi a Bergamo. Era partita in treno, scortata da due carabinieri, ma quando raggiungono Bologna la mattina del 24 luglio, tutto è bloccato, a causa di un bombardamento alleato in corso (tremendo: fece almeno 160 morti – si trovano cifre diverse a seconda delle fonti; ovviamente anche in questo caso siamo in giorni anniversario). “Dovemmo allora scendere per prendere una linea secondaria, e io pensai di fermarmi a Reggio da mia mamma: uno dei miei accompagnatori mi avrebbe accompagnato, mentre l’altro volle andare a Ferrara a trovare la fidanzata per poi raggiungerci, ma ho saputo poi che era morto sotto le bombe. Anche alla stazione di Bologna c’erano scoppi terribili, perché un treno di munizioni stava saltando. Arrivata finalmente a Reggio poco prima del coprifuoco, andai a casa della mamma, in via Toschi 9, e non trovai nessuno: i miei erano sfollati a Montericco. Per fortuna mi conosceva una vicina, che aveva le chiavi, e me le diede (ero stata a Reggio l’anno prima per essere operata di appendicite). A Reggio arrivai la sera del 24 luglio, e dovevo partire nel pomeriggio del giorno successivo. Il 25 pomeriggio andai alla stazione, ma non incontrai il mio questurino, e così pensai di tornare a casa ad aspettarlo. Ero stanchissima, e andai a letto chiudendomi le orecchie con la bambagia per dormire meglio senza essere disturbata dagli allarmi. Fu così che non seppi niente della caduta del fascismo, annunciata alla radio alle undici di sera. La mattina dopo, arrivato nel frattempo il questurino che avevo fatto dormire in un albergo vicino, ci demmo appuntamento nel piazzale della stazione. Prima di uscire, avevo aperto la radio e avevo sentito l’annuncio: finalmente il fascismo era finito. Il questurino mi venne incontro con il distintivo fascista all’occhiello, io lo spaventai, gli dissi di buttarlo subito via: «Non sa che è caduto Mussolini, che non c’è più?», e lui, perplesso: «Signò, non facciamo scherzi», ma poi si è guardato attorno, ha preso il «brigidino» e l’ha buttato per terra, l’ha pestato, poi l’ha ripreso e se lo è messo in tasca. Davanti alla stazione di Reggio c’era tanta gente che gridava, tutti avevano il garofano rosso, c’erano bandiere, bandiere rosse e anche tricolori. Tutti erano felici, felici, e non si pensava al comunicato «la guerra continua». Anche a Milano, appena arrivata, ricordo di aver visto su un vagone la scritta «oggi rigaglie» e sotto: «del duce». La locomotiva del treno sul quale montai, che veniva da Bologna, aveva due bandiere, da una parte e dall’altra di un cartello che diceva «viva la libertà»” (Ada Rossi, Vita con Ernesto, intervista di Giuseppe Armani registrata l’8 e il 9 marzo 1974, in Rossi, Un democratico ribelle cit., pp. 365-398, la cit. pp. 387-388).
Ada ripartì dunque per Bergamo mentre Ernesto riuscì a lasciare Roma, dopo aver rischiato di trovarsi bloccato di nuovo (era stato arrestato poche ore dopo la sua liberazione, in una retata contro un giornale clandestino, ma riuscì a convincere la polizia che c’era stato un equivoco). Così nel ricordo di Ada Rossi: “[Ernesto] Partì subito per Firenze, e intanto io era a Bergamo in ansia, perché ero ancora bloccata dalla questura e non potevo muovermi. Mandai un mio allievo a Milano, a casa Bauer, e seppi che Parri e altri erano partiti per Roma per ottenere la liberazione dei politici. Infine, fui chiamata al telefono da Ernesto che era già a Milano. A Firenze, a casa della mamma, aveva bevuto una famosa bottiglia che la mamma aveva tenuto in serbo dal ‘24-25 per il giorno della fine del fascismo. La bevvero ed era una bottiglia ormai d’acqua, anche se si trattava di Chianti” (Ada Rossi, Vita con Ernesto cit. pp. 389-390). Più che acqua, sarà stato aceto…
6. Torniamo a Roma, Regina Coeli. Alicata lasciò il carcere il 6 agosto, dopo un supplemento d’attesa che l’aveva snervato: “Non capisco proprio questo ritardo nelle nostre pratiche di scarcerazione, e soprattutto non capisco questo dire e non dire, questo fare e non fare da parte dell’autorità”, scrisse in una lettera di qualche giorno prima. E proseguiva: “L’impazienza aumenta perché ci si sente abbandonati dall’opinione pubblica: perché i giornali non denunciano il fatto che alle promesse ripetute ufficialmente già una settimana fa, niente di concreto è seguito? È giorni e giorni che da Regina Coeli escono truffatori, ladri, ecc. e non esce nessun politico”. Questa, concluse, è “una offesa per tutto il popolo italiano” (Alicata, Lettere e taccuini di Regina Coeli cit., pp. 180-182).
A Milano, Pietro Ingrao fu tra gli oratori di un comizio improvvisato a Porta Venezia, il pomeriggio del 26 luglio. Poche ore prima, si era ritrovato insieme ad altre migliaia di persone davanti al carcere di San Vittore; poi tutti, in corteo, si erano mossi verso il centro, raccogliendo altri manifestanti sul percorso: a Porta Venezia “eravamo già un mare”. “Non ricordo se il comizio era già finito quando spuntarono i carri armati. Da principio la folla non capì. Si levarono applausi, grida: pace, pace, abbasso il fascismo! Dietro la lunga colonna dei carri armati era la truppa, che veniva a disperdere la manifestazione”.
Dopo uno stallo durato un tempo indefinito, la soluzione venne da una donna, Anna Gentili Cazzuoli: “Si staccò dalla massa, corse verso un carro armato che era fermo nel centro della strada, con un atto deciso, diretto, si arrampicò su di esso. Fu il segnale”. A quel punto la folla si rovesciò sui carri armati, li circondò, fece uscire i soldati e si confuse con loro. La truppa abbandonò la piazza. Nella notte intervennero i carabinieri, a casa di Elio Vittorini: portarono via il padrone di casa e altri due compagni, “individuati come coloro che avevano affittato l’auto e i microfoni per il comizio di Porta Venezia” (Pietro Ingrao, Parlai dal tetto dell’auto, «Vie Nuove», 28 febbraio 1963, parzialmente ripubblicato in E. Vittorini, I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, a cura di Carlo Minoia, Einaudi, Torino 1985, pp. 249-250).
Insomma, il 26 luglio 1943 non tutti furono scarcerati, e gli arresti continuarono, sia per reati comuni che per reati politici. Dopo la liberazione, il giornale anarchico “Umanità nova”, che aveva ripreso le pubblicazioni a Firenze su iniziativa del tipografo Lato Latini, denunciò spesso quando accaduto nell’estate del 1943: “Badoglio non liberò gli anarchici, bensì li mandò al campo di concentramento”. Molti erano stati internati nel campo di Ranicci d’Anghiari (Arezzo) (Un episodio al tempo di Badoglio, “Umanità nova”, a. IV, n. 345, 24 settembre 1944; si veda anche il volume La Resistenza sconosciuta. Gli anarchici e la lotta contro il fascismo. I giornali anarchici clandestini 1943-1945, Edizioni Zero in Condotta, Milano 1995, che contiene anche una ristampa anastatica dell’edizione fiorentina di “Umanità nova”).
7. Scalpiccio, battimani, voci che diventano canto: la sera del 25 luglio Carlo Levi è svegliato “nel primo sonno (in carcere ci si deve addormentare presto)”. Da alcune settimane si trovava infatti detenuto nel carcere delle Murate, a Firenze.
“Tutti i rumori, anche i più comuni e insignificanti, sembrano importantissimi in prigione, in quello strano mondo dove il prigioniero isolato è costretto al silenzio e quasi a dimenticarsi del suono della voce; e per il quale perciò ogni suono, ogni voce, anche la più lontana e confusa, evoca una immagine, e acquista il rilievo dell’attenzione, dell’attesa, della immaginazione”.
La sorpresa è tale da non rendersi conto che si tratta di una folla che si avvicina al carcere; pensa che i rumori vengano da dentro, che ci sia una rivolta dei prigionieri, magari quei “trecento antifascisti sloveni, gente semplice, fiera e coraggiosa, che, ogni sera, la suono della campanella del silenzio, intonavano da tutte le loro celle una canzone antifascista e continuavano a cantare, malgrado le urla dei guardiani, mentre da tutte le altre celle, da tutta la prigione, li accompagnavano, in coro sempre più numeroso, tutti i prigionieri” (Carlo Levi, 25 luglio in prigione, “La Stampa”, 25 luglio 1959, ora ripubblicato col titolo 25 luglio in Id., Le tracce della memoria, a cura di Maria Pagliara, prefazione di Marziano Guglielminetti, Donzelli, Roma 2002, pp. 97-100, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono).
A poco a poco, Levi capisce cosa sta succedendo, comincia a distinguere le parole della folla, e le canzoni che canta: l’Inno del Piave e Fratelli d’Italia. “Il rumore di una folla che grida e cammina e canta allegra canzoni proibite era una possibilità dimenticata dopo tanti anni, una specie di incredibile miracolo, e il cuore batteva di incredula felicità. Battevano i prigionieri rinchiusi alle porte di tutte le celle, chi coi pugni, chi coi piedi, chi con le brocche o coi buglioli. Tutti scuotevano le porte ferrate, tutti gridavano: aprite, aprite. Ciascuno ignorando gli altri, nel buio più completo, si agitava, nel breve spazio della cella, e immaginava lotte e rivolte e violenta conquista della libertà; e i guardiani non rispondevano, e le porte erano troppo robuste per essere scardinate”.
Le sentinelle si erano asserragliate dentro il carcere, mentre la folla si era dispersa. Gli assembramenti riprendevano la mattina dopo, per organizzare nuove manifestazioni nel corso di tutta la giornata del 26. Anche in carcere le novità non possono essere contenute dalla solita routine. Il risveglio è febbrile: “le guardie, che portavano l’acqua o che facevano la prima ispezione mattutina, vennero assalite di domande”. I visi preoccupati, i modi imbarazzati, e insolitamente gentili, svelavano l’importanza di quanto era accaduto: “presto la notizia dei fatti avvenuti corse dappertutto, sotterranea, nella prigione. Mussolini era caduto, il fascismo, che da anni agonizzava, come un ingombro vergognoso, era finito”.
I detenuti vengono portati all’aria, come al solito, per mezz’ora. “E da un corridoio all’altro del cortile, dove i prigionieri camminavano avanti e indietro, come animali rinchiusi, salivano voci, domande, predizioni, evviva, canzoni”. Tutti attendono il ritorno della folla, si preparano a evadere. Levi raccoglie in cortile una spranga di ferro e una pietra, le nasconde sotto la giacca e le porta in cella. Ma “le ore passavano, il pomeriggio avanzava e, nella impazienza di minuto in minuto crescente, la prigione pareva essere stata dimenticata in mezzo a un mondo addormentato”.
Verso sera, il raccolto del pomeriggio diventa inutile: è una guardia che apre la porta della cella e annuncia la scarcerazione. È tardi, sta per scattare il coprifuoco. Levi può scegliere tra recuperare la sua roba al deposito e quindi dormire un’altra notte in carcere, oppure uscire subito e correre a casa. Se ne va lasciando orologio, cravatta, cintura, lacci delle scarpe.
“Nessuno mi aspettava all’uscita, le strade erano quasi deserte, gli ultimi passanti correvano allo scoccare dell’ora del coprifuoco. Anch’io corsi a chiudermi, solo, nella mia casa, pieno di curiosità insoddisfatta e di represso entusiasmo. Ci aspettava un futuro misterioso di guerra, di morte, di virtù popolare e partigiana, di vera amicizia, e di duramente conquistata libertà”.
Retorica da anniversario fine anni Cinquanta? Può essere. Ma è quanto sarebbe toccato vivere a molti in Italia, tra l’estate del 1943 e la primavera del 1945.