di Davide Zotto
I nostri amici Marco Toscano e Davide Zotto continuano a tenerci al corrente delle loro discussioni. Zotto ci segnala che ad assistere all’arrivo della notizia dello scoppio della guerra in un parco di Baden, il 1° agosto 1914, c’era anche Stefan Zweig, e aggiunge alcune considerazioni sull’effettiva reputazione di Francesco Ferdinando d’Austria presso i sudditi dell’impero asburgico.
Cari di storiAmestre,
torno ancora sulla scena della notizia dello scoppio della guerra che giunge in un parco di Baden, nell’estate del 1914: è diventata l’argomento principale degli scambi con Marco Toscano, e allargo la discussione anche a voi. Per cominciare, a Baden quel 1° agosto, quando l’orchestra comincia a suonare gli inni austriaco e tedesco, non c’era solo la famiglia Canetti, ma anche Stefan Zweig. Il suo racconto si trova nell’autobiografia che Zweig completò nel 1941 (fu pubblicata per la prima volta nel 1944, in tedesco, da un editore di Stoccolma).
Quel che colpisce, in questo ricordo, sono le considerazioni sull’immagine che i sudditi dell’impero avevano dell’erede al trono assassinato a Sarajevo. Francesco Ferdinando non era amato dal popolo ed era mal visto anche dalla famiglia imperiale per le sue nozze fuori dai canoni, al punto che non verrà seppellito nella cripta dei Cappuccini, ma ad Artstetten. Inizialmente si vociferò pure che l’attentato fosse stato ordito da membri della famiglia imperiale: era un’idea sostenuta in particolare dal corrispondente da Vienna (e poi direttore) del Times Henry Wickham Steed.
Ma come racconta Zweig, tutto cambiò nel breve arco di pochi giorni: ora tutti i giornali attestavano quanto fosse stato amato l’arciduca, e pertanto l’assassinio non poteva essere lasciato impunito.
Peraltro, anche Karl Kraus nel luglio 1914 pubblicò nella sua rivista Die Fackel un necrologio in cui si leggeva di Francesco Ferdinando: “Era la speranza di questo stato nell’opinione di tutti coloro che ancora credevano che si potesse opporre al grande caos un’ordinata vita civile”.
Cordiali saluti
Davide Zotto
Né sdegno né commozione, di Stefan Zweig
Quell’estate del 1914 sarebbe rimasta indimenticabile anche senza la tragica sorte che essa recò sulla terra europea. Di rado ne ho veduta una che fosse più rigogliosa, più smagliante, direi più estiva. Il cielo rimase serico e azzurro per giorni e giorni, morbida e non afosa l’aria, calde e profumate le praterie, i prati oscuri e densi di giovane vegetazione ancora oggi, quando pronuncio la parola estate, debbo involontariamente pensare a quelle radiose giornate di luglio che trascorsi nel ’14 a Baden presso Vienna. […]
Io sedevo fuor della folla nel parco, intento a leggere un libro – so ancor oggi che era un’opera di Meresckovski Tolstoj e Dostoievski – con grande interesse. Tuttavia anche il venticello tra le fronde, il cinguettio degli uccelli e la musica che mi giungeva dal parco entravano nella mia sensibilità. Distinguevo chiaramente le melodie senza esserne disturbato, giacché il nostro udito è tanto capace di adattamento che un rumore continuo, una strada fragorosa, un torrente impetuoso dopo pochi minuti si assimilano alla nostra percezione, ed è poi soltanto l’improvviso interrompersi di quel ritmo che ci fa tendere l’orecchio.
Infatti interruppi involontariamente la lettura quando la musica cessò improvvisamente a mezzo di una battuta. Non sapevo che pezzo suonasse l’orchestrina, ma sentii l’improvvisa interruzione. Alzai istintivamente gli occhi dal libro. Anche la folla, che passeggiava col fluire di una massa fra gli alberi, parve trasformarsi sostando d’un tratto nel suo andirivieni. Doveva esser successo qualche cosa. Mi alzai e vidi che i suonatori lasciavano il palco dell’orchestrina, cosa ben strana, poiché il concerto soleva durare un’ora e anche più. Ci doveva essere una ragione per quella brusca sosta: avvicinandomi osservai che la gente si pigiava in gruppi eccitati davanti al palco dell’orchestra per leggere una comunicazione evidentemente da poco affissa. Era il dispaccio. come appresi pochi minuti più tardi, comunicante che Sua Altezza reale il successore al trono Francesco Ferdinando e la sua consorte, recatisi in Bosnia per le manovre, erano rimaste vittime di un assassinio politico.
La folla attorno all’avviso si faceva sempre più fitta, uno trasmetteva all’altro l’inattesa notizia. Ma in omaggio alla verità debbo dire che non si leggeva sui volti particolare sdegno e commozione, perché l’erede al trono non era mai stato amato da popolo. Ho il ricordo dalla mia prima infanzia di quell’altra tragica giornata in cui avevano trovato morto a Meyerling Rodolfo, l’unico figlio dell’imperatore. Allora tutta la città era stata colta da un accesso d’intensa commozione ed enormi masse di popolo erano accorse a vedere la salma, manifestando intensamente la pietà per il sovrano e l’orrore di vedere sparire in piena virilità il suo unico erede, sul quale si fondavano le migliori speranze, perché uomo di idee moderne e di doti personali straordinariamente simpatiche. A Francesco Ferdinando mancava invece proprio quello che in Austria è essenziale per una vera popolarità: gentilezza personale, fascino umano e giovialità di modi. Lo avevo osservato a teatro. Se ne stava nel suo palco grande e grosso, collo sguardo gelido e fisso, senza rivolgere una sola occhiata cortese al pubblico, né incoraggiare gli artisti con la cordialità di un solo applauso. Non lo si vide mai sorridere, nessun ritratto lo mostrò in una posa non rigida. Non comprendeva la musica, non amava gli scherzi e sua moglie sembrava altrettanto impettita. La coppia era circondata da un’aria di gelo; si sapeva che il vecchio imperatore l’odiava di tutto cuore, perché non sapeva nascondere con sufficiente tatto la sua impazienza di giungere al potere. Il mio presagio quasi mistico, che da quell’uomo dalla testa di bulldog, dagli occhi duri e freddi, dovesse venire una sventura, non era personale, ma diffuso in tutto la nazione: per questo la notizia del suo assassinio non suscitò profonda commozione. Due ore più tardi non si scorgeva alcun indizio di vero lutto. La gente chiacchierava e rideva e a tarda sera in molti locali pubblici tornò a suonare la musica. Vi furono molti quel giorno in Austria che in segreto trassero un sospiro di sollievo, sapendo tolto di mezzo l’erede del vecchio sovrano, anche perché era molto amato il giovane successore, l’arciduca Carlo.
L’indomani naturalmente i giornali pubblicarono diffusi necrologi, esprimendo il dovuto sdegno per l’attentato; nulla però indicava che si volesse sfruttare l’evento per un’azione politica contro la Serbia. Per la famiglia imperiale quella morte creò in primo luogo una preoccupazione del tutto diversa, quella del cerimoniale per la sepoltura. Data la sua qualità di erede al trono e la circostanza che era morto nell’esercizio delle sue funzioni al servigio della monarchia, il suo posto sarebbe stato senz’altro nella chiesa dei Cappuccini, la storica tomba degli Absburgo. Ma Francesco Ferdinando aveva sposato, dopo lunghe lotte contro la famiglia imperiale, la contessa Chotek, dell’alta aristocrazia, ma, per la misteriosa plurisecolare legge asburgica, non pari a lui, tanto che le granduchesse nelle grandi cerimonie affermavano tenaci il loro diritto di precedenza nei confronti della moglie dell’erede al trono, i cui figli non erano ammessi alla successione. […] In poche settimane il nome e la figura di Francesco Ferdinando sarebbero sparite per sempre dalla storia.
Ma dopo una settimana circa affiorarono d’un tratto nei giornali accenni polemici il cui crescendo era troppo all’unisono per esser casuale. Si accusava il governo di complicità e si diceva che l’Austria non poteva lasciare impunito l’assassinio del suo – tanto amato! – successore al trono.
Nota. Tratto da Stefan Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, trad. di Lavinia Mazzucchetti, Mondadori, Milano 1994, pp. 173-176 (prima ed. 1946; nel 1945 era già uscita una traduzione italiana, di Giorgio Picconi, per l’editore De Carlo di Roma). Le notizie relative alle voci di un complotto viennese contro Francesco Ferdinando e al necrologio scritto da Karl Kraus le riprendo da un bel libro su cui forse mi capiterà di dirvi qualcosa di più: Gilberto Forti, A Sarajevo il 28 giugno, Adelphi, Milano 1984, pp. 222-223. (d.z.)