di Davide Zotto
Il nostro amico Davide Zotto ci scrive pensando alle ultime discussioni sulle norme regionali che hanno proclamato “i veneti” “minoranza nazionale” e di conseguenza prevedono sviluppi relativi all’introduzione ufficiale di un bilinguismo, fatto di patentini e corsi di insegnamento a tutti i livelli. Con una proposta per il sito di storiAmestre: aprire una discussione come quella che fu fatta al momento dell’istituzione dell’assessorato regionale “all’Identità veneta” (oggi diventata una “competenza” dell’assessorato al territorio, cultura, sicurezza).
Il dialetto è stato il mio primo modo di esprimermi. In famiglia si è sempre parlato e si parla tuttora in dialetto. L’italiano l’ho appreso dopo. Però in italiano ho imparato a scrivere, mentre ogni volta che ho provato a scrivere in dialetto mi sono trovato in imbarazzo e pieno di dubbi sulla grafia. Come non riesco a leggere brani in dialetto, se non con grande difficoltà. In questi anni ho comprato dei dizionari di veneto e ho visto che i dubbi sulla grafia sono comuni, ognuno ha la sua versione: pure come si scrive la terza persona singolare dell’indicativo presente dell’ausiliare essere.
Ebbene pare che il consiglio regionale del Veneto non provi questo mio imbarazzo. Il dialetto veneto verrà insegnato nelle scuole.
È noto che il dialetto veneto varia di paese in paese; e ogni luogo ironizza sul dialetto del vicino definendolo sguaiato. Il problema, a quanto pare, verrà superato creando un esperanto veneto. Chissà cosa avrebbe detto a tal proposito il veneziano Pietro Bembo, uno dei primi a esprimersi sulla questione della lingua italiana. Non è noto, ma sappiamo cosa avrebbe detto Goffredo Parise.
“Amo il veneto come lingua parlata, cioè come pura forma e gioco verbale, la trovo invece ottusa e perfino stupida quando si pretende di scriverla. Diventa vernacolo. Il veneto non si scrive: anche nei casi migliori (Ambasciatori Veneti e Pigafetta) era scritto solo per essere detto. La sublime aristocrazia di questa lingua sta appunto qui: nella sua inutilità, nell’assenza di vanità, di retorica, di immortalità. In due parole nel suo apparire flatus vocis. È assai arduo esprimere in Veneto filosofia, ideologia, di Weltanschauung non se ne parla nemmeno”.
Allora perché non reintrodurre anche il More Veneto? Così potremo avere dei capodanni senza giasso e caigo (oppure senza giazz e senza caìvo?). Nel frattempo, ho visto su un sito del Consiglio regionale del Veneto che possiamo consolarci con un altro annuncio di primavera: il “popolo veneto” dovrebbe festeggiare il 25 marzo, “giorno della fondazione di Venezia”.
Il sito di storiAmestre potrebbe aprire una discussione come l’associazione aveva fatto ai tempi del convegno Identici a chi? Contro l’assessorato all’Identità veneta, visto le evoluzioni della politica regionale da allora, dalle spese per la “cultura veneta” alla dichiarazione del “popolo veneto” come “minoranza nazionale” dotata di una propria lingua, ai corsi obbligatori di “veneto” per le scuole. Sarebbe da vedere come sono organizzate le cose in Friuli o in Sardegna, ma in Veneto sembra che si faccia riferimento solo al modello dell’Alto Adige. Solo rimanendo all’interno delle faccende linguistiche il paragone non ha senso, dal momento che in Alto Adige esistono molti dialetti parlati ma a scuola a quanto ne so si insegna il tedesco standard e non una supposta lingua dialettale.
Per non parlare poi delle ricostruzioni storiche a corredo delle proposte di legge, da cui si può ricavare che i Veneti inteso come popolo almeno dal 1200 a.C. in poi hanno colonizzato vaste aree d’Europa spinti inizialmente dai “grandi sconvolgimenti climatici e devastanti terremoti nei secoli fra il XV e XII a.C., portando “con sé la loro civiltà, i propri costumi anche sacrali, la lingua e varie tecniche di allevamento e coltivazione come le tecnologie dei metalli e della ceramica”; un processo perfezionato nel XIX secolo – si direbbe – come attesta la presenza di un “ceppo linguistico veneto […] molto numeroso che si trova nel Rio Grande do Sul”: questo almeno è quanto si può leggere nella Proposta di legge di iniziativa dei Comuni di Resana, Grantorto, Santa Lucia di Piave e Segusino datata 29 gennaio 2016 e presentata il 4 febbraio 2016.
Ps La “lingua veneta” usata nel sito della Consiglio regionale del Veneto a ciò dedicato (http://www.linguaveneta.it/) non la parla nessuno, e sicuramente farà ridere sia a Padova che a Mestre: se è questa la lingua che bisogna insegnare nelle scuole, sarà il colpo di grazia alla varietà dei dialetti veneti e anche alla reciproca comprensione. Ditemi cosa riuscite a capire da una delle pubblicazioni presenti sul sito, il Manuàl Gramaticał e Xenerałe de ła Łéngua Vèneta e łe só varianti (quarta publicazsion, co zxónte nóve), datato “ 01 de Marzso del 2007 – More Vèneto 01/01/2007”, a parte che l’autore non ha ben presente che more o no more, il 1 marzo resta il 1 marzo e il 1 gennaio il 1 gennaio. Dài, per piassère!
Nota. Riprendo la citazione di Parise dalle note di Domenico Scarpa al racconto Gli americani a Vicenza, nella recente riedizione in Goffredo Parise, Gli americani a Vicenza e altri racconti 1952-1965, con una Nota introduttiva di Cesare Garboli, a cura di Domenico Scarpa, Adelphi, Milano 2016, p. 208. La prima edizione di Gli americani a Vicenza risale al 1987 (Mondadori, Milano), con la stessa nota introduttiva di Garboli. Il brano di Parise che qui riprendo citato da Scarpa faceva parte di una nota d’autore preparata per l’Antologia del Campiello millenovecentosettanta, Scuola grafica del Centro arti e mestieri della Fondazione Giorgio Cini, Venezia 1970, che conteneva proprio il racconto Gli americani a Vicenza.
Gheno dice
Sinceramente dopo il 1° convegno internazionale sulla lingua veneta, in cui hanno partecipato i migliori linguisti europei, tra cui Moseley, autore UNESCO dell’atlante mondiale delle lingue, queste chiacchere valgono zero.
Hanno smentito praticamente tutto ciò che è stato detto in questa pagina web.
Compresi i riferimenti sui modelli di grafia e grammatica che si dovrebbero seguire.
https://goo.gl/t6mJW1
È ora di aggiornarsi, perché gli studi proseguono, voi no.
gigi corazzol dice
e l'amico abdul, primarolo? a casa parla una lingua che a scuola non gli insegnano. come ci regoliamo? settantaduenne, dialettofono, quando possibile, sbaglio a credere che alle elementari un pidgin alla buena de dios sia tutto sommato il male minore, meglio comunque del veneto in tazza? grato per l'attenzione. shalom.
Michele Brunelli dice
AMO IL VENETO SCRITTO E PARLATO
[non tutti hanno genitori venetofoni]
In una recente lettera a Storiamestre (https://storiamestre.it/2017/02/amo-il-veneto-come-lingua-parlata/) il sig. Davide Zotto propone una discussione sulla grafia veneta. Invero fa un gran calderone in cui getta alla rinfusa storia, grafia/lingua, datazione (more veneto). Cerco di rispondere per ordine, limitandomi all’argomento grafia, del quale mi occupo da ormai 20 anni.
Premetto che il sig. Zotto fa riferimento a una versione vecchia del mio Manual datato 01·01·2007 more veneto. In merito alla datazione il sig. Zotto fa un’affermazione ovvia «Marzo è marzo e gennaio è gennaio». La dicitura 01/01/2007 è dovuta al fatto che, com’ è noto, marzo è il primo mese dell’anno secondo il calendario more veneto: marzo resta marzo, gennaio resta gennaio, ma marzo è il mese n°1. Con l’occasione informo che la versione aggiornata del mio libro è scaricabile a soli 10€ da http://www.leolibri.it. In essa trovate una raccolta di dati di diverse varianti venete riassunti in tabelle con frasi di esempio e affiancati da note bibliografiche che rimandano a pubblicazioni universitarie di vari ricercatori e professori. Scusandomi per la divagazione cui sono stato costretto, vado al dunque.
Primo, Zotto sostiene che parla “dialetto” ma ha imparato a scrivere in italiano. Con questa ben nota ovvietà, egli conferma così che a scuola gli hanno insegnato a scrivere in una lingua diversa da quella materna. Diversa per morfologia e sintassi: ad esempio, il veneto ha i clitici “el va, i va” mentre l’italiano ha desinenze “va, vanno”. Ebbene, anziché insegnargli a scrivere la lingua che già parlava, gliene hanno insegnata una diversa. Anziché insegnare a rappresentare i suoni del veneto, la scuola gli ha insegnato a trascrivere i suoni di un’altra lingua (l’italiano).
Secondo, Zotto afferma che dopo avere letto diversi dizionari ha trovato che i dubbi sulla grafia sono comuni. Questa è una prova del fatto che in mancanza di un insegnamento scolastico, la gente deve scrivere in veneto arrangiandosi fra i mille dubbi lasciati irrisolti dalle istituzioni.
Terzo, per Zotto è noto che il dialetto varia da luogo a luogo e «ognuno ha la sua versione: pure come si scrive la terza persona singolare dell’indicativo presente dell’ausiliare essere». Zotto però non vuole (o non sa?) dirci che anche altre lingue presentano forme alternative per una medesima parola. Lo spagnolo, ad esempio, ha forme doppie per tutte le persone del congiuntivo imperfetto di tutti i verbi di tutte le coniugazioni: si pudiera/pudiese (se podese), si pudieran/pudiesen (se i podese), si pudiéramos/pudiésemos (se podésimo) e così via per tutti i verbi. Eppure nessuno contesta l’insegnamento scolastico dello spagnolo. Ora, dato che le forme alternative non sono un problema per lo spagnolo, esse non possono essere un problema nemmeno per l’insegnamento del veneto.
Quarto, come estremo tentativo di sostenere la propria posizione, Zotto scomoda perfino Parise (dopo aver invano interrogato il defunto Bembo): «amo il veneto come lingua parlata, cioè come pura forma e gioco verbale…». Con questa citazione, Zotto sostiene la teoria del due-pesi-due-misure: non contesta l’insegnamento scritto dell’italiano, ma vorrebbe che il veneto rimanesse solo parlato. In pratica dovremmo avere un pianta che annaffiamo, concimiamo e a cui diamo sostegni per reggersi (l’italiano che ha tv, libri, giornali e scuole) e una pianta a cui invece diciamo di crescere da sola, come va va (il veneto basta parlarlo). Non è difficile capire il risultato di questo atteggiamento: la pianta senza cure fatica a tenere il passo. Non stupisce dunque che la conoscenza del veneto presso i giovani sia in forte declino come indicato dai risultati di una ricerca che Emil Andreose ha fatto su un campione di studenti veneti basandosi sui test di bilinguismo studiati per il Canada (E. Andreose, “Mi son bilingue”). Io pur rispettando le opinioni di Parise, amo il veneto come sostanza – non solo forma – e lo rispetto come mezzo di comunicazione – oltre che gioco verbale – per cui ritengo che la scuola debba sostenere il veneto così come già fatto per l’italiano. Al giorno d’oggi, inoltre, abbiamo diversi immigrati e anche vari veneti che non hanno genitori venetoparlanti: dire che il veneto basta parlarlo o impararlo a casa significa escluderli.
Adottando una grafia a pronuncia flessibile – sull’esempio di quanto avviene in spagnolo e portoghese – è possibile conciliare in una sola forma scritta alcune varianti venete a prima vista inconciliabili. Noi ci dibattiamo invano nell’idea di una-lettera-un-suono. Altri popoli invece usano con successo delle lettere che lasciano libertà di lettura. Gli Spagnoli per esempio scrivono estación e leggono in due modi (estasión/estathión). Analogamente possiamo scrivere staçion e lasciare libertà di lettura (stasion/stathion/statsion) secondo la variante locale. Possiamo scrivere zo e lasciare libertà di lettura (zo/dzo/dho/do). Mentre xe, caxe, caxa ecc… non variano. In portoghese le vocali finali possono essere mute: i Portoghesi scrivono bato e leggono in due modi (batu/bat). È analogo ai nostri gat(o), mont(e). Altre forme invece potranno alternarsi come ad esempio parlemo/parlon. Questi utili confronti fra veneto e altre lingue potrebbero essere agevolmente fatti durante l’insegnamento scolastico, se ci fosse. Sono soluzioni grafiche già adottate da altri popoli per le loro lingue. La differenza è che loro hanno la volontà di farlo.
Cordiali saluti,
dott. Michele Brunelli
(Phd in Scienze del Linguaggio a Ca’ Foscari e Geesteswetenschappen all’Universiteit van Amsterdam)