di Piero Brunello
Su consiglio del nostro socio e amico Giacomo Bonan, Piero Brunello ha letto un libro-intervista di Luciano Gallino. Prosegue così la discussione sui temi del libro di Marco D’Eramo, Dominio, aperta da Sannicolò e ripresa da Mario Tonello e Maria Turchetto.
1. La letterina con cui Sannicolò ci ha presentato il libro di Marco D’Eramo ha avuto l’effetto di far discutere tra noi soci e amici. Quando ne ho parlato con lui, Giacomo Bonan mi ha subito consigliato di dare un occhio a La lotta di classe dopo la lotta di classe (intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari 2013, prima ed. 2012), perché Luciano Gallino, intervistato da Paola Borgna, si occupa degli stessi temi del libro consigliato da Sannicolò.
In effetti ecco come Gallino enuncia il tema: “la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente” (p. 12). Risultato? Chi ha vinto la lotta di classe ha imposto l’accettazione unanime di “idee ricevute”, come quelle che Flaubert collezionava come emblema della stupidità del suo tempo, e che sentiamo ripetere di continuo, quali per esempio quelle con cui inizia il libro: “Caso la lettrice o il lettore non lo sapessero, il maggior problema dell’Unione europea è il debito pubblico. Abbiamo vissuto troppo a lungo al di sopra dei nostri mezzi. Sono le pensioni a scavare voragini nel bilancio dello Stato. Agevolare i licenziamenti crea occupazione. La funzione dei sindacati si è esaurita: sono residui ottocenteschi. I mercati provvedono a far affluire capitale e lavoro dove è massima la loro utilità collettiva. Il privato è più efficiente del pubblico in ogni settore: acqua, trasporti, scuola, previdenza, sanità. È la globalizzazione che impone la moderazione salariale. Infine le classi sociali non esistono più” (p. V).
Si tratta di una “controffensiva” iniziata dagli “economisti neoliberali” (quelli che D’Eramo preferisce chiamare “neoliberisti” o “neolib”, spiegandone il perché), in primo luogo dai Chicago Boys; elaborata “dai think tanks internazionali del neoliberalismo”; diffusa da quotidiani, tv, pubblicazioni, convegni, “quasi tutti i politici, quale che sia il partito di riferimento; un buon numero di sindacalisti; migliaia di docenti universitari nei loro corsi; nonché innumerevoli persone comuni” (pp. V-VI). Il succo di questa ideologia – che Gallino a volte chiama “mitologia” – è che il calcolo economico deve essere applicato a ogni ambito dell’esistenza umana. Alla fine “il funzionamento dell’economia contemporanea, con le sue massicce componenti finanziarie” è accettato come “il migliore dei mondi possibili, ossia l’economia più efficiente che si possa immaginare”, “nonostante le clamorose smentite cui la realtà l’ha esposta in tempi recenti” (p. 18).
Lo ha ben spiegato anche l’intervento di Maria Turchetto ispirato dalla stessa letterina di Sannicolò.
2. Nella sua lettura di Dominio, Mario Tonello mette in luce che uno dei pregi del libro di Marco D’Eramo è aver realizzato un censimento minuzioso delle agenzie che diffondono l’ideologia neoliberista, e degli argomenti linguistici e retorici che utilizzano. Questa pista di ricerca è indicata da Gallino quando parla dei think tanks “che hanno tutti nome e indirizzo e lavorano alla luce del sole”, e delle istituzioni che “dispongono ciascuna di milioni di dollari l’anno per i loro studi, le conferenze e i convegni, le trasmissioni televisive, le pubblicazioni, i rapporti con i parlamenti e le organizzazioni internazionali” (p. 95).
Tra tutte le sfaccettature del tema, Gallino decide di rispondere a uno solo degli assiomi neoliberisti, quello che proclama la fine delle classi sociali. Buona parte del libro riguarda pertanto la presenza delle classi oggi, che Gallino definisce, tra Marx e Weber, sulla base dell’appartenenza a una “comunità di destino” da cui dipendono le possibilità “di fruire di una quantità di risorse, di beni materiali e immateriali, sufficienti a rendere la vita più gradevole e magari più lunga” (p. 4).
Mario Tonello ha anche notato l’esiguità delle citazioni di autori/autrici in italiano nel libro di D’Eramo, suggerendo implicitamente la scarsa presenza del pensiero critico in Italia, dove la sinistra politica non esiste, le Università hanno adottato la visione manageriale del mondo, e dove mancano centri di elaborazione intellettuale che sappiano contrapporre una visione, basata su solidi argomenti, alternativa alle mitologie del Mercato. Luciano Gallino sarebbe d’accordo, e tra i vari esempi indica il fatto che la cultura umanistica in Italia è considerata una perdita di tempo, oppure «un mezzo per creare valore attraverso la promozione del turismo, la moltiplicazione di “eventi” culturali o sedicenti tali e, perché no, la vendita di gadget e la ristorazione rapida introdotte in tutti i musei» (p. 57). Un altro esempio della povertà del pensiero critico? Il fatto – osserva Gallino – che non solo in Italia ma in generale in Europa sono venute meno le ricerche empiriche sul potere che si costituisce nelle interrelazioni tra economia, politica, media, università e apparato militare, sulla scia dei fondamentali studi di Wright Mills sulle élite del potere negli Stati Uniti (p. 100).
3. Quando Gallino dice di voler dare a questa sua idea di “un’azione progressista ed emancipatrice un nome volutamente antico”, cioè “socialdemocratica”, è autoironico. Ma non c’è nessuna ironia nelle sue parole quando subito dopo invita ad “alzare la voce in base a principi forti di rivendicazione, a istanze morali, a principi di ritrovata democrazia ed emancipazione” (p. 197). È un compito urgente – ammonisce – se non si vuole che “le tensioni sociali, i risentimenti, la frustrazione” (p. 131) abbiano, come altre volte nel passato, uno sbocco politico autoritario di destra.
4. Chi ha imparato ad amare la storia per lo scrupolo filologico e non per le capacità di affabulazione di quello che viene chiamato storytelling, ha tutto da imparare dai libri di Luciano Gallino (1927-2015).
Nel primo capitolo del Manuale di sociologia da lui diretto consigliava di «rifiutarsi di scrivere una sola riga, senza prima “andare a vedere”» (Luciano Gallino, La sociologia come conoscenza, in Paola Borgna et al., Manuale di sociologia, diretto da Luciano Gallino, nuova ed. a cura di Paola Borgna, Utet università, Torino 2008, pp. 16-17; prima ed. 1994). Gallino proseguiva ricordando che l’etica professionale si basa su quella che chiamava la “cultura del dato”, che “si nutre in primo luogo d’una continua riflessione critica sulle statistiche nazionali e internazionali” (ivi, pp. 17-18). Alla sua morte, persone che l’hanno conosciuto bene ricordano che Gallino insisteva sul fatto di non prendere mai posizione prima di “andare a vedere” e “toccare con mano”. È un atteggiamento che non nasce dall’assuefazione a ciò che viene presentato e accettato come ovvio e inevitabile; al contrario parte dall’idea che “tutto ciò che è può essere diversamente”, come Gallino scrive nell’ultimo libro che pubblicò (Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegati ai nostri nipoti, Einaudi, Torino 2015, p. 9), che porta in exergo una frase di Rosa Luxemburg: “Dire ciò che è, rimane l’atto più rivoluzionario”.
Quando ho dovuto introdurre nel 2018 il convegno Una volta il futuro era migliore? mi era stata di aiuto la lettura di un altro libro di Gallino, Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità (Laterza, Roma-Bari 2009, prima ed. 2007), soprattutto per le riflessioni sul mercato come divinità che presiede ai destini umani, sulla scorta degli studi di Karl Polanyi che del mercato aveva studiato la genealogia. E mi sarebbe stato altrettanto di aiuto, dato il titolo del convegno, anche il libro in cui Gallino spiega ai suoi nipoti come negli ultimi tempi il capitalismo abbia cominciato a trasformare il futuro in merce (Il denaro, il debito e la doppia crisi cit., pp. 35-43), che invece ho scoperto solo più di recente.