di Giulio Bresin
Nel maggio scorso, si è tenuta a Pordenone l’ottantasettesima adunata nazionale degli alpini. Per tre mezze giornate, Giulio Bresin, che abita in città, poco fuori dal centro, ha gironzolato tra casa sua e il centro, ai margini della manifestazione, annotando cose viste e sentite: chioschi, camion con damigiane e sound system; colonne sonore; le aspettative dell’amministrazione locale e di chi spera di fare affari; polemiche; modi di far festa; rapporti umani. L’evento “eccezionale” permette anche di riflettere sulla vita quotidiana in città.
Mi capita regolarmente di recarmi in quello che viene comunemente definito “il centro” di Pordenone, due strade che si intersecano e poco più. Una volta, fino a circa quindici anni fa, in centro succedevano delle cose. La gente arrivava dalla periferia, si incontrava, c’era vita e c’era movimento. C’era addirittura della musica e si stava fuori sino a tardi. Ultimamente l’unico accadimento è che le attività commerciali del “centro” chiudono e non riaprono.
Quando circa un anno fa si è incominciato a parlare del fatto che l’adunata degli alpini del 2014 si sarebbe tenuta a Pordenone, ho pensato anch’io che sarebbe stata una cosa positiva per la città, per l’economia, per il commercio. Qualche mese fa qualcuno ha iniziato anche a parlare dell’altro lato della medaglia: una città sotto assedio per tre giorni, orde di imbriagoni che lordano il suolo pubblico, gravi disagi per i residenti che si sarebbero dovuti anche accollare parte degli oneri di questa manifestazione. Per esempio, quante tonnellate di immondizia producono 400.000 persone? Chi le smaltisce e chi ne paga i costi? Uomini che, per ragioni anagrafiche, non avevano potuto evitare la naja si dichiaravano apertamente contrari a questo tipo di manifestazione, portando motivazioni legate al pacifismo e al decoro cittadino. Gente che ha un’idea piuttosto personale di legalità, e in particolare di rispetto delle norme del codice della strada, che all’improvviso si scopre paladina della sacra inviolabilità delle piste ciclabili. Ma anche uomini che, per ragioni di natura anagrafica, hanno potuto e voluto evitare un anno di naja si sono scoperti intimamente alpini e hanno abbracciato anima e corpo la causa delle penne nere, senza se e senza ma: siamo tutti alpini!
Quanto al sottoscritto, non mi aspettavo molto di buono. A metà aprile ho passato un paio di giorni a Milano per la fiera del mobile. Trecentomila presenze da tutto il mondo attese nell’arco di una settimana. Un casino pazzesco dappertutto, metro in tilt, signore in piumino estivo (l’outfit ideale per gustare un gelato caldo) che sgomitavano ai danni di colf sudamericane, nient’affatto disposte a ospitare estremità griffate monclair. Se questa è la situazione in una metropoli abituata a questo tipo di eventi, cosa succederà a Pordenone, capoluogo di provincia di 60.000 abitanti scarsi, che dovrà ospitare 400.000 persone. In più il “centro” (la cosiddetta “zona rossa”) sarebbe stato off-limits e le zone limitrofe pure, anche se con orari e modalità diverse. Una bella rottura, anche per andare al lavoro. C’è comunque da dire che abitiamo fuori dal centro, quindi al massimo avrei dovuto allungare un po’ la strada il venerdì per andare in ufficio.
Venerdì sera
Bon, torno a casa dal lavoro venerdì pomeriggio e l’uscita dell’autostrada è ancora aperta. Prendo la bici, faccio salire Gregorio sul seggiolino posteriore e andiamo in centro a vedere che succede. Nico e Melissa ci seguono rispettivamente a piedi e in passeggino. Percorsi pochi metri di pista ciclabile noto che i copricapi pennati fanno tendenza assoluta in termini di accessorio per uomo. Non è un’umanità diversa rispetto al solito, è semplicemente trasformata. Un tizio in canottiera con in testa il cappello di tendenza richiama il figlio indisciplinato, che pedala svogliatamente dietro al gruppo di testa, con un perentorio “Ragazzo! A rapporto!”, richiamo che però non pare sortire grandi effetti. L’aria è carica di tensione positiva, o forse sono gli scarichi puzzolenti dei motocarri customizzati con damigiane di vino sul tetto, mascotte non ufficiale della manifestazione. Alcuni, in movimento, sono carichi di persone, altri sono invece parcheggiati, permettendo a tutti, vicini e lontani, di godere dell’angelico suono di una sirena artigianale montata sul pianale per l’occasione. A ogni modo c’è aria di festa.
Noto che hanno riaperto il ponte di legno che attraversa il fiume Noncello, Gregorio non pare essere particolarmente soddisfatto dalle travi di tek chiaro che hanno sostituito quelle marce di legno scuro e me lo fa pesare non poco. Davanti al parco Galvani, un signore sui sessanta con pantaloni rossi, mocassini e camicia elegante attraversa confusamente la strada abbracciato a una signorina, di chiara origine africana, che sculetta a ritmo di Vasco come se stesse ballando samba al carnevale di Rio. Anche lei ha optato per un copricapo di tendenza, sdoganandolo come accessorio unisex e anche un po’ etno, se vogliamo.
Passiamo il parco Galvani lasciandoci alle spalle diversi gazebo e sound system, tutti accomunati dalla fragranza di costicine e dall’inconfondibile voce al marlborino rosso di Vasco. Davanti a casa di un amico, in viale della Libertà, le casse pompano sì Vasco ma anche Enola Gay, Lady Madonna dei Beatles e l’inno di tutti gli alpini sudisti: Sweet Home Alabama. Raccolta la famiglia al completo ci fermiamo con una coppia di amici all’altezza del Pn Bar in viale Cossetti, zona pedonale, a bere qualcosa. Sono circa le 19,30 e già c’è una buon livello di casino. Tipo l’Italia che vince la semifinale ai mondiali. Ordiniamo qualche birra, i bambini entrano nella galleria adiacente a correre e saltare, ed ecco l’inconfondibile rumore di un motocarro in arrivo contromano, in zona pedonale. È un motocarro abbastanza capiente, trasporta 8-9 persone, equamente distribuite su entrambi i lati del pianale, un’unica penna in condivisione. È un motocarro ambizioso, che aspira a un posto in prima fila nella volata finale dei motori più rumorosi e delle esalazioni più maleodoranti. È un motocarro che non dovrebbe trovarsi dove si trova, non dovrebbe trasportare una decina di persone e non dovrebbe accingersi a fare ciò che farà. Cerca infatti di parcheggiare sul marciapiede. Accelera a manetta, si inclina pericolosamente, con quattro persone che sporgono dal lato della strada. Tutto attorno, almeno trenta persone, tra cui bambini piccoli. Io e il mio amico, perfettamente nella traiettoria di una non tanto ipotetica caduta, assistiamo con le mani sui passeggini vuoti, i bambini giocano in galleria. A quel punto mi girano le balle. Non occorre una laurea in ingegneria per capire che se quel motocarro si rovescia di lato qualcuno si farà male. Inizio a dire ad alta voce “queste sono coglionate, qua c’è un sacco di gente e ci sono bambini piccoli”. I vecchiotti con copricapo di tendenza che mi circondano annuiscono in maniera poco convinta abbassando lo sguardo. Dai loro volti traspare un’espressione silenziosa che pare dire “cassi tui! no sta romper i cojoni”. Trovo però un insperato alleato in uno dei passeggeri del motocarro, capo scevro di tendenza ma occhi mascherati da un paio di lenti nere che neanche in fonderia. Il tipo alza la mano, come per addossarsi la responsabilità di un’entrata fallosa. “Scusa, scusa. Anch’io ho dei figli”. Entro anch’io in galleria e passo la mezz’ora successiva a giocare ad aeroplani con Greg e gli altri bambini. È divertente.
Torniamo a casa con il morale della truppa alle stelle. Guardandosi attorno, il bar dell’angolo non ha molto lavoro. Il fruttivendolo invece ha un bel movimento. Optiamo per kebab e tranci di pizza di Kerim, pizzaiolo per asporto albanese che nella zona gode di buona fama ormai da qualche anno. Purtroppo per lui, il ruffianissimo “Panino dell’amico Alpino” non riscuote il successo sperato. Le tavolate preparate fuori sono vuote. Lavora con le ordinazioni dei clienti abituali, forse qualcosa in più ma non il sold out previsto.
Una volta a casa vorrei mettere a letto i bimbi e uscire a vedere che succede con il calare delle tenebre, ma lascio perdere: sono troppo stanco. A letto: il meritato riposo dura fino alle 3 circa. A quell’ora parte il sound system di un accampamento abusivo impiantatosi esattamente di fronte a casa mia, l’unico spiazzo ospitale nell’arco di tre chilometri di strada. Alle volte ci vuole anche la fortuna. Bassi profondi introducono l’Adriano nazionale con una hit abbastanza recente Io non so parlar d’amore. Sono alpini romantici che schiacciano il tasto repeat e mandano l’Adrianone in loop quasi dieci volte. I bassi si fanno ancor più profondi e sincopati. Parte il giro inconfondibile di Blue Monday dei New Order. Più di tanto non mi arrabbio: a) perché sono tollerante in fatto di musica e di volumi; b) perché se vai in villeggiatura ad agosto a Bibione ti può capitare solo di peggio; c) perché 11 anni fa, all’alba di Ferragosto, ho svegliato decine di famiglie tedesche che, incolonnate, se la dormivano nei pressi di un casello autostradale poco prima di Venezia. Dopo i New Order anche gli alpini ne hanno le balle piene e vanno a dormire, o abbassano la musica, salvo dare un altro colpo di bassi verso le 6.
Sabato mattina
Facciamo un’altra passeggiata in centro, poco prima di pranzo. C’è molta gente in giro. Puzza di piscio ovunque. Il centro moribondo non ha retto all’emozione del pienone delle grandi occasioni. Davanti al Bar Centrale un quartetto sta destrutturando Con le mani di Zucchero. Ci sono anche molte bancarelle e chioschi. Non solo salsicce e costicine ma anche magliette, cappelli e merchandising pennuto di vario genere, più o meno ufficiale. Sono tutte uguali, hanno tutte le stesse magliette. Sono gestite da ragazzi con accenti lombardi, campani, calabresi. Ci sono anche molti ragazzi africani, senegalesi probabilmente, i cosiddetti vucumprà, termine che viene rispolverato per l’occasione dopo anni di oblio. Ci sono anche molti pakistani. Cercano di piazzare cianfrusaglie, occhiali, braccialetti, gadget fluo, giochetti per bambini, stampe pop di varia natura, paccottiglia invendibile. I paki sono generalmente tranquilli, remissivi, rassegnati. I senegalesi sono più attivi, fermano la gente, mettono una mano sul braccio dei passanti per attirare l’attenzione. Hai voglia a pagare il pizzo alla mala con braccialetti di filo a un euro. Il sole scalda oltremodo questa giornata afosa. Assisto a qualche episodio di intolleranza nei confronti degli ambulanti: “Va via, no sta romper i cojoni”, “mi hai rubato gli occhiali, adesso ti perquisisco e mi fai vedere cos’hai addosso”. Un ambulante italiano che somministra alimenti caccia via in malo modo un ambulante africano che somministra chincaglieria. Quest’ultimo va in uno dei tanti chioschi vuoti a chiedere una bibita a scrocco.
Un commentatore locale parla di “suk” e “di marciapiedi invasi da questa gente”. Parla anche di “puttane”, noto che lo ripete almeno quattro volte. (La questura parla di 100 prostitute arrivate appositamente da fuori. Possiamo quindi pensare che siano almeno 300.)
Solo in corso Vittorio Emanuele (700 metri di lunghezza?) ci sono più di 200 punti ristoro. Uno ogni 4 metri scarsi. Oltre alle attività commerciali già esistenti, ci sono circa 700 punti ristoro aggiuntivi. Fatta eccezione per il centro, dove è radunata la stragrande maggioranza della gente, lavora bene chi già lavorava prima. Attività organizzate che godono di una clientela abituale e che, una volta ampliatesi con spine e gazebi esterni, attirano anche i passanti forestieri. In via Rivierasca almeno un chiosco su tre è vuoto. Il sole scalda, ci fermiamo per un gelato e per una lettura del giornale. Guarda caso l’articolo del Gazzettino si conclude con la parola “polemiche”. È ancora presto per fare conti e stilare bilanci, ma esattamente a metà adunata, la sensazione è che questo sia un buon affare per molti ma non per tutti. Rientrando a casa, passo dal fruttivendolo. È contento, gli affari vanno bene, sta lavorando sodo e si gode il clima di festa. Mi conferma con una certa amarezza che molti faranno un buco nell’acqua. Il pensiero torna ai baracchini zeppi di panini in via di decomposizione sotto il sole. Colonie di batteri e salmonellosi a cielo aperto.
Domenica
Domenica facciamo un altro giro. C’è moltissima gente ovunque. Arriviamo all’altezza del parco Galvani. Una marea di persone ovunque. Chioschi, furgoni e camion adibiti alla somministrazione di bevande e alimenti. Probabilmente chi sa fare bene i conti ha optato per la sola giornata della parata. Greg vorrebbe fare un giro al parco ma gli spieghiamo che non si può perché ci sono le tende degli alpini. Si gode comunque l’atmosfera di festa, le Frecce tricolori gli spruzzano scie di carburante e coloranti sopra la testolina. Non si può andare da nessuna parte, non con due passeggini. Torniamo a casa. Anticipiamo la fine dell’adunata.
Col senno di poi non posso dire che il bilancio personale e della mia famiglia sia negativo. I conti li farò comunque quando riceverò il bollettino per pagare la tassa sulle immondizie. A ogni modo, abbiamo passato tre giorni rilassanti e la possibilità non irrilevante di aver avuto a nostra disposizione grandi aree urbane normalmente occupate da autoveicoli in movimento. Un’enorme, indistinta area pedonale ricolma di gente di tutti i tipi. Atmosfera di festa. Non ho idea di cosa sia successo durante le nottate dell’adunata. I social network sono zeppi di selfies scattati all’alba. Testimonianza che anche a Pordenone, per tre giorni, è stato possibile passare una nottata in giro, incontrare gente, bere, fare festa. È forse questo uno degli aspetti che più mi lascia l’amaro in bocca. Il fatto che per i restanti 362 giorni questa città offra poco, molto poco. Come altri hanno fatto giustamente notare, ci sono associazioni, privati, organizzazioni e forse un paio di locali che lavorano duramente nel corso di tutto l’anno per portare a Pordenone una proposta interessante e diversificata in termini di musica, teatro, cinema e letteratura. È un lavoro difficile e povero di soddisfazioni. Provate a suonare un cd all’aperto, sotto il portico di un bar del centro dopo le 23,00. Provate a organizzare un ritrovo di motorette d’epoca e toccate con mano la disponibilità e la gentilezza dei vigili urbani, su indicazione dell’amministrazione comunale. Quell’amministrazione che ha rilasciato a caro prezzo licenze commerciali in sovrannumero rispetto alle reali esigenze. Forse non sono adeguatamente informato al riguardo, ma vorrei sapere, eccezion fatta per la parata e per la sfilata dell’insegna di guerra, quali sono le attività culturali organizzate in questi giorni. 400.000 persone in città e il tutto si riduce a bere e a mangiare.
Sono stato a Udine all’adunata del ’96 (o del ’97). Ricordo ben poco, ma c’è una cosa che mi è rimasta impressa. Arrivati a Udine in stazione centrale verso l’una di notte mi trovai di fronte a un signore anziano. Vestito in maniera sobria ma elegante. In testa il cappello da alpino. Aria serena e dignitosa. Poteva essere mio nonno Giannetto, anche lui alpino. Sul bavero della giacca una spilla con la scritta “Alpini Sezione Sidney”. Ero maggiorenne o poco più ma già allora mi aveva colpito la particolare odissea di quello sconosciuto, Ulisse Friulano nella terra dei canguri, il senso di appartenenza e di attaccamento a un corpo di armata e a un territorio così lontani e diversi dalla terra dei canguri.
Sono figlio e nipote di alpini. Non che per questo io abbia particolari simpatie nei loro confronti o nei confronti dell’esercito in generale. Sarà per l’inaspettato regalo di ventiseiesimo compleanno, una bella busta contenente la cartolina di chiamata alla leva, sarà per la conseguente denuncia per renitenza alla leva – correva l’anno 2004 – e per gli undici mesi spesi a familiarizzare con tutte le soluzioni legali per venirne a capo. Sarà il fatto di aver perso l’allora posto di lavoro (perdita che in realtà si rivelò particolarmente vincente), sarà per tutti i viaggi in treno fatti al distretto militare di Padova, l’estrema gentilezza dell’impiegato che mi fece tornare il giorno successivo per portargli una fotocopia graffettata del documento che avevo con me, unitamente ai tanti piccoli analoghi gesti di simpatia ricevuti nel corso di quegli undici mesi. Ma questi sono problemi personali, lontani nel tempo e ormai risolti, che nulla hanno a che vedere con l’ottantasettesima adunata nazionale degli alpini.
Non sta a me discutere della vera natura di questo tipo di eventi, non ne ho le competenze né gli strumenti adeguati. Ho visto però in questi tre giorni situazioni diffuse di mancato rispetto della legalità. Situazioni contingenti, che poco hanno a che vedere con il corpo di armata degli alpini. Ma se la legge è uguale per tutti, non capisco perché durante i restanti 362 giorni dell’anno un chiosco che durante la stagione estiva ospita un concertino in centro, e che casualmente sfora di 5 minuti il coprifuoco stabilito alle 23,00, debba essere severamente punito con la chiusura temporanea dell’esercizio e con multe salate. L’impressione è che la legge sia uguale per tutti ma più uguale per chi genera profitto per le casse dell’amministrazione comunale.
La vorrei un’altra adunata degli alpini? Credo che risponderei con la fermezza e la cortesia che mi usa solitamente Gregorio quando cerco di infilargli la supposta. “No grazie”. Non a queste condizioni. Prendiamo la tolleranza, la disponibilità, l’atmosfera di festa, il permissivismo di questi tre giorni e spalmiamolo per i restanti 362 giorni, a ogni livello. Musicale, alcolico, folkloristico, culturale, umano. Anche per i vucumprà. Se tanto decantato e invocato “spirito di solidarietà” deve essere, spirito di solidarietà sia. Sempre.