di Colin Ward
In vista della giornata di studi organizzata da storiAmestre e Laboratorio Libertario (con la collaborazione della Società Italiana di Storia del Lavoro), che avrà luogo il 2 giugno, pubblichiamo un testo che lo studioso britannico Colin Ward (1924-2010) pubblicò alla fine degli anni Ottanta, sotto il titolo A Few Italian Lessons, a nostra conoscenza inedito in Italia. Ward riflette sulla crescita della disoccupazione provocata dalla crisi dell’industria britannica, e sulle possibili prospettive, in un contesto in cui “l’occupazione di massa cede il passo al lavoro autonomo”. Trova quindi un modello da discutere nell’Italia “delle piccole aziende” sbocciata in quegli anni. Ne viene fuori l’immagine ottimista di una cultura del lavoro autonomo, che, nel mondo della produzione, si traduce in capacità imprenditoriali e di adattamento che non hanno corrispettivi nella cultura del movimento operaio britannico. Ward peraltro era interessato anche alle forme della città che scaturiscono da una certa organizzazione sociale e del lavoro.
Riletto oggi, questo testo suscita alcuni interrogativi: in che modo l’autonomia delle piccole imprese si misura con la dipendenza dal credito e dai committenti notata dallo stesso Colin Ward? quali piccole aziende hanno retto al tempo e quali no, e a quali condizioni? Infine, in che modo la rivendicazione dell’autonomia, così importante per Colin Ward, può aiutarci a osservare e discutere le ulteriori trasformazioni delle forme di lavoro avvenute negli ultimi trent’anni?
“Kropotkin ha evidenziato che è compito dell’istruzione tecnica fare in modo che i lavoratori nelle industrie amministrate centralmente sentano di essere in grado di dirigere.”
(Paul Goodman)
Ho conosciuto un simpatico giovane che si era inventato un lavoro: consegnare biglietti di auguri. Il suo amico e datore di lavoro aveva avuto un’idea brillante: piuttosto del bacio per telegramma (giovani donne squattrinate, disperatamente in cerca di lavoro, venivano ingaggiate per dare un bacio a uno sconosciuto il giorno del suo compleanno), sarebbe stato meglio un piccolo messaggio, arrotolato per bene e inserito dentro un uovo vuoto, di modo che per leggerlo bisognasse rompere il guscio. Le uova stesse potevano essere decorate con pennarelli, secondo le variopinte tradizioni pasquali.
Questo giovanotto era insomma un eroe dei nostri tempi. Si era sottratto alla cultura della dipendenza, non aveva più bisogno di contare sugli aiuti sociali, ed era entrato nelle fila della Cultura Imprenditoriale. Pertanto, coloro che pagano le tasse venivano sollevati dall’onere di mantenerlo. I moralizzatori considereranno il suo caso come l’ennesimo esempio della nostra irrazionale preferenza per l’agiatezza privata rispetto alle ristrettezze pubbliche, dal momento che, se lui avesse fatto domanda di lavoro all’amministrazione locale per un posto nella nettezza urbana o nell’assistenza ad anziani o disabili, sicuramente gli avrebbero risposto che il governo centrale aveva obbligato l’amministrazione locale a ridurre, e non ad aumentare, il numero dei dipendenti.
L’ironia delle tendenze attuali dell’occupazione nel settore pubblico è stata ben descritta da Peter Hall. Se c’è la necessità di ridurre i costi, dice,
l’inevitabile risultato è il declino di determinati servizi, che fanno parte delle più vecchie e fondamentali funzioni delle amministrazioni locali, come per esempio la manutenzione delle strade; di qui buche e cedimenti stradali. Ne deriva il paradosso che attualmente questi servizi sono in realtà peggiori di quanto lo fossero quando eravamo molto più poveri e il governo locale era meno sviluppato. E succede che questi servizi siano proprio quelli da cui dipende la qualità della nostra vita quotidiana.1
Per ironia della sorte, proprio quando i più umili impieghi utili all’ambiente potevano aiutare le persone cacciate dal lavoro in seguito al collasso dell’occupazione tradizionale negli anni Settanta e Ottanta, questi impieghi hanno cessato di esistere. Ecco perché è utile segnalare che l’esperienza della disoccupazione nelle città britanniche è stata opposta a quella italiana. Le medesime tendenze mondiali hanno colpito entrambe, ma i risultati sono stati molto diversi. Secondo Ivan Turok,
tra il 1960 e il 1981 le più grandi conurbazioni hanno perso 1,7 milioni dei 2,1 milioni di lavori manifatturieri persi in totale in Gran Bretagna… Le politiche governative, insieme alle crescenti condizioni esterne della concorrenza, hanno portato alla chiusura di capacità produttive e a diffusi esuberi di manodopera. Su un piano più generale, le politiche macroeconomiche restrittive hanno contribuito in modo sostanziale al collasso della produzione nell’economia nei primi anni Ottanta e all’improvviso aumento della disoccupazione: solo tra il 1980 e il 1982,1,2 milioni di posti di lavoro sono stati persi nel settore manifatturiero.2.
Nel 1985, secondo David Nicholson-Lord, Londra stessa “poteva rivendicare il dubbio vanto di avere la più grande concentrazione di disoccupati nel mondo industriale avanzato. In termini relativi, comunque, le grandi città del Nord come Manchester, Liverpool e Newcastle stavano molto peggio”3
La piccola impresa fu ignorata per decenni dai politici e dagli economisti: eppure un significativo rapporto del governo di molti anni fa vedeva nel settore delle piccole imprese “il tradizionale terreno favorevole per nuove industrie – cioè per una forte innovazione”, e sottolineava come il cambiamento tecnico potesse rendere altamente competitiva l’attività su piccola scala, ma allo stesso tempo segnalava che “nella manifattura la percentuale di piccole imprese era scesa di molto e quasi continuamente, in termini sia di occupazione che di produzione, sin dalla metà degli anni Venti”4.
La drammatica perdita di occupazione nell’industria negli anni Settanta e Ottanta ha portato a un’improvvisa crescita d’interesse e attenzione verso la piccola impresa. Riguardo alle reali prospettive delle piccole aziende, le autorità osservavano il processo con un certo divertimento sardonico, come raccontano David Watkins, John Stanworth e Ava Westrip:
Entrambi i maggiori partiti politici hanno condiviso negli anni Sessanta e Settanta una visione dell’industria per cui, grossomodo, il più grande doveva essere il migliore. Si ricercavano economie di scala in economia, finanza e mercati, nella convinzione che solo attraverso la creazione di organizzazioni tanto grandi da essere competitive a livello internazionale l’industria britannica avrebbe continuato a prosperare sui mercati mondiali. Le questioni politiche chiave riguardavano più la proprietà e il controllo dei vertici di comando dell’industria britannica, che avrebbero portato crescita continua e prosperità, piuttosto che alla loro creazione e sviluppo… Ma è diventato chiaro che i vertici di comando sembrano meno formidabili e meno attraenti di un tempo. Molti vertici sono stati scalati da stranieri; alcune vette famose sono state spazzate via da terremoti… Nessuna meraviglia che così tanti interessi acquisiti scorgessero nuove sfide dal basso.5
Questi autori della Manchester Business School peraltro ammonivano che ci sbaglieremmo a pensare che più di una piccola percentuale degli oltre tre milioni di disoccupati poteva “essere reimpiegata in compiti diversi a breve termine, persino con un esteso processo di riqualificazione. Da piccole aziende si può al massimo sperare in piccoli miracoli”6.
Ciò nonostante una serie di misure del governo centrale e locale cercò di dare nuovo impulso alla piccola impresa. La più interessante di queste misure viene da una delle più umili: l’Enterprise Allowance [Assegno di Iniziativa] è stata istituita per evitare l’assurdità che un disoccupato venga processato per frode quando cerca di mettersi in proprio mentre percepisce il sussidio di disoccupazione. Abbastanza spesso, a un costo minimo per l’erario, questo ha funzionato. La differenza tra il sussidio pubblico e l’Enterprise Allowance di un anno è così piccola che anche l’insuccesso costa poco, per quanto scoraggiante sia per un individuo. Molte persone tra quelle che hanno fallito, così come quelle che hanno avuto successo, mi hanno parlato del grande valore di insegnamento di vita che ha il lavoro in proprio, con i suoi rischi e le sue potenzialità.
Un’altra esperienza interessante e suggestiva è il Community Workshop [Officina comunitaria]. Non rientra nelle politiche di incremento dell’occupazione, ma è un’iniziativa locale promossa in molte città da persone che hanno avvertito che una delle deprivazioni provate dai poveri è la mancanza di spazio e di accesso agli strumenti di lavoro. Dal momento che ogni città ha edifici vuoti, si è cercato un luogo con disponibilità di luce e energia dove poter installare tavoli da lavoro e macchinari e attrarre competenze per consentire alle persone di svolgere riparazioni dei propri motori, costruire mobili, fare giocattoli e così via. Sono stati raccolti fondi presso le autorità locali e le associazioni assistenziali, e recuperati stanziamenti governativi del Community Programme. Queste iniziative sono state spesso un grande aiuto per i disoccupati, consentendo loro di apprendere nuove competenze. La norma preclude di solito l’uso di questi spazi per attività a scopo di lucro, ma fortunatamente è spesso ignorata. Chiunque prenda parte a queste iniziative conosce il loro valore e il loro potenziale. Ma all’improvviso il governo ha annunciato che con l’introduzione dell’Employment Training Scheme, gli stanziamenti del Community Programme sarebbero stati eliminati. Tutti i progetti del Community Programme, compresi alcuni Community Workshop, hanno avuto l’opportunità di convertirsi all’Employment Training Scheme, ma circa il 45 per cento di essi non hanno avuto la possibilità o non lo hanno voluto fare, oppure non hanno trovato il modo di adattarsi alle regole dell’Employment Training.
In Gran Bretagna abbiamo registrato un singolare insuccesso nel sostituire i posti di lavoro persi nelle città industriali. Si dice vagamente, proprio come è avvenuto nella “rivitalizzazione” delle città americane, che i nuovi sviluppi commerciali, finanziari e turistici andranno diffondendo un’occupazione nei servizi. In effetti è così, ma a salari troppo bassi per sostenere gli attuali affitti urbani. Il segretario del Department of Housing and Urban Development degli Stati Uniti ha rivelato una singolare mancanza di familiarità con il settore della ristorazione affermando che molti dei grandi chef hanno cominciato come lavapiatti – lo ha riferito Howard Ehrlich in una trasmissione radiofonica.7 Nelle città industriali in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si possono vedere grandi rovine di fabbriche abbandonate e varie specie delle nostre attuali disperate alternative all’industria: festival di giardinaggio, centri conferenze, centri commerciali, parchi tematici e acquari o musei industriali – qualsiasi cosa insomma, compresi i baci per telegramma, tranne l’opportunità di essere coinvolti in un lavoro socialmente utile o produttivo.
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L’Italia invece è diversa, e una visita nel 1988 mi ha indotto a ripensare all’elogio che Lewis Mumford (nel suo La città nella storia) fa del libro di Kropotkin, Campi, fabbriche e officine. Mumford osserva:
Kropotkin previde insomma ciò che molte grandi società avrebbero scoperto soltanto durante la seconda guerra mondiale, e cioè che anche quando il complesso degli impianti era grande, il dare in appalto certe operazioni a piccole aziende staccate rendeva di fatto discutibili le ragioni economiche che avevano portato a creare le enormi organizzazioni concentrate, cioè a quella tendenza dell’industria che giustificava le altre forme di elefantiasi metropolitana. Quanto più la tecnologia si raffinava, tanto maggiormente si sentiva il bisogno dell’iniziativa e dell’abilità umana che ancora sopravvivevano nelle piccole officine. Un’efficiente rete di trasporti e una buona organizzazione erano spesso preferibili al puro ammassamento fisico di uno stabilimento in un’unica sede.8.
Metto in risalto questa considerazione, che Mumford ricavò nel 1961 da un libro pubblicato per la prima volta nel 1899, semplicemente perché ho esaminato invano la letteratura sulla tecnologia industriale o sul management in Gran Bretagna per trovare una simile analisi. Ciò è stata probabilmente una sorpresa anche in Italia, come hanno spiegato Michael J. Piore e Charles F. Sable in uno studio americano sull’industria italiana e sul suo significato per il resto del mondo:
Ciò che successe dopo, anche se era stato prefigurato a Prato e altrove, colse di sorpresa manager, sindacalisti, operai e funzionari del governo […]. I piccoli laminatoi di Brescia, per esempio, si muovevano almeno alla stessa velocità delle loro controparti americane nella colata continua; le aziende produttrici di attrezzature agricole ed edili dell’Emilia Romagna entrarono nella produzione di sofisticati dispositivi dal controllo idraulico […].
I livelli salariali in zone quali l’Emilia Romagna (dove non c’era nessuna grande azienda ma una proliferazione di piccole fabbriche) raggiunsero quelli del Piemonte, la regione italiana più industrializzata. Nello stesso tempo, diminuirono i tassi di disoccupazione […]. Un segno molto evidente della prosperità del nuovo settore delle piccole aziende era l’ascesa di Modena, la capitale dell’economia decentrata, nella graduatoria della ricchezza provinciale […].9
Cito questi dati autorevoli perché mi ero quasi rassegnato al modo di vedere inglese, condiviso sia da destra che da sinistra, che c’è qualcosa di inevitabile nella morte dell’industria britannica, e perché persino per me la rivoluzione di scala prefigurata da Kropotkin sarebbe arrivata solo in un qualche momento nel futuro. Certamente la più grande industria abbandonata che io abbia mai visto è stata a Torino, e l’unica piccola parte occupata di essa era diventata un centro conferenze! Ma lì finisce la somiglianza con il cimitero industriale britannico. Il tassista (ex dipendente Fiat, inutile dirlo), che mi ha fatto fare un giro attorno alla vecchia fabbrica del Lingotto lunga chilometri, mi ha portato anche in un luogo occupato da centinaia di minuscoli laboratori, dove ex dipendenti lavorano in subappalto per conto proprio non solo per la nuova industria Fiat, dove si dice che le automobili sono fatte “a mano dai robot”, ma per parecchi altri produttori, o semplicemente realizzano prodotti propri per i quali hanno trovato un mercato. Perfino nel centro di Torino ti imbatti in decine di piccoli laboratori in tutti i settori metallurgici.
Ci sono diversi modi di interpretare la trasformazione dell’industria italiana. Alcuni osservatori vedono il processo di dispersione come l’ultimo trionfo del capitale finanziario internazionale nel conflitto per spezzare il proletariato industriale organizzato, come ha sostenuto Fergus Murray: “Alla fine degli anni Sessanta la militanza nel lavoro in molte industrie italiane raggiunse livelli che minacciavano direttamente il profitto d’industria, e il management intraprese una serie di strategie volte in primo luogo a ridurre la forza dirompente dei militanti operai”10. Questo in parte è certamente vero. Dopo lo sciopero del 1980, 60 mila operai hanno lasciato la Fiat. Il segretario generale della CGIL, Pietro Marcenaro, mi ha detto che “all’epoca nessuno sapeva chi avesse vinto, ma noi adesso sappiamo che ha vinto la Fiat”.
Altri vedono i cambiamenti come inevitabili e desiderabili. Richard Hatch del Center for Reindustrialisation Studies del New Jersey, vede il processo esattamente negli stessi termini con cui Mumford presenta la visione di Kropotkin. Così spiega:
Il processo si basa su un grande numero di imprese molto piccole e flessibili che dipendono da lavoratori abbastanza qualificati e da un’industria automatizzata con varie funzioni. Produttori essenzialmente intermediari si uniscono insieme in varie combinazioni e modelli per portare a termine complessi obiettivi manifatturieri per mercati in espansione. Queste ditte mettono assieme un’innovazione rapida con un alto livello di democrazia nel luogo di lavoro.11
Hatch sottolinea inoltre l’importanza sociale di questo sviluppo:
[I lavoratori] tendono a concentrarsi in quartieri con funzioni miste, dove lavoro e abitazione sono integrati. La loro crescita è stato l’obiettivo di politiche di programmazione, interventi architettonici e investimenti comunali, con buoni ritorni di crescita economica sostenuta e centri urbani vivaci.
Allo stesso modo George Benello trovò nella “rinascita industriale” del Nord-Est e del Centro Italia
un modello che ha funzionato, che ha creato in meno di tre decenni, non centinaia ma letteralmente centinaia di migliaia di imprese su piccola scala, mettendo ai margini industrie condotte in modo convenzionale e offrendo lavoro che richiedeva abilità lavorative, responsabilità e senso artistico alla sua forza lavoro organizzata democraticamente.
Benello fu
colpito dalla combinazione di design sofisticato e tecnologia produttiva con una vita lavorativa a misura d’uomo, e dall’estensione e dalla diversità di attività collaborativa all’interno di questa rete. Piccole città come Modena avevano creato “villaggi artigiani” – quartieri operai dove luoghi di produzione e zone abitative erano raggiungibili a piedi o in bicicletta, dove scuole tecniche per disoccupati sostenevano i settori appena creati, e dove piccole imprese che usavano tecniche computerizzate si mettevano insieme per realizzare prodotti complessi.12
Si tratta di affermazioni esagerate, ma io stesso ho visto molti esempi in Italia che le confermano. La prima cosa che mi ha sorpreso del laboratorio di Ennio Mazzanti a Bologna è stata che la sua strumentazione valeva centinaia di migliaia di sterline. Egli mi ha detto di aver lavorato al banco per dieci anni in un’industria motociclistica, e quindi di aver comprato un tornio e una fresa verticale per mettersi in proprio. Questi oggetti stanno ancora oggi in un angolo dell’officina, utili per lavori saltuari. Ora con macchine lunghe e orizzontali per la smerigliatura (svizzere, tedesche e britanniche), lui e suo figlio e tre dipendenti in subappalto fanno fori di precisione (“con finitura a specchio”, mi ha spiegato). Le parti vengono consegnate e raccolte dai produttori committenti. “Ma ammettiamo che essi vadano da un altro specialista, meno caro”, ho chiesto. “Questo non mi dà fastidio”, ha risposto, “io lavoro per cinque differenti aziende, e posso sempre trovare più di un lavoro”. Se il flusso delle ordinazioni a lungo termine si fermasse, ci sarebbero sempre abbastanza piccoli lavori per pagare i mutui (contava di pagare ciascuna macchina in dieci anni), e le spese generali sono basse. Mazzanti lavora dieci ore al giorno, e i suoi dipendenti decidono il proprio orario. Paga lo stesso salario di qualsiasi altra azienda meccanica in Emilia Romagna e non si preoccupa del lavoro di amministrazione, che è tenuta al computer da una cooperativa di cui è socio.
Ci sono ragioni, naturalmente, dietro lo stupefacente fiorire dell’economia della piccola impresa. Qualsiasi cosa accadesse al governo centrale a Roma, c’è sempre stato un accordo tra i governi regionali e municipali del Nord Italia, e tra tutti i partiti politici dal PCI alla DC, per sostenere la piccola impresa. Negli anni Cinquanta fu fondata la Cassa Artigiana per fornire crediti al di sotto dei normali tassi d’interesse (all’1,5-2 per cento). C’è stata una continuità in questo senso fin dagli anni Sessanta, con il risultato che la maggioranza degli operai sono ora impiegati in industrie con meno di cinquanta addetti, e c’è un crescente numero di industrie davvero piccole. Queste sono molto varie. Alcune sono attività artigianali tradizionali che hanno semplicemente by-passato la rivoluzione industriale e i cui prodotti sono richiesti ovunque. Altre seguono il ben noto modo vessatorio in cui un imprenditore distribuisce lavoro a operai a domicilio. Questi possono essere intrappolati nel sistema, o possono essi stessi meccanizzare il processo lavorativo e guadagnare bene, aiutati dalla disponibilità di credito.
La proprietaria di Essezeta, una piccola azienda che produce raffinati lavori di cucito per le industrie di maglieria, dice: “Ho cominciato dal niente. Lavoravo in una grande azienda. Poi gli affari andarono male e l’industria chiuse. Dovevo pensare a me stessa”. Questa donna, che va verso i cinquant’anni, spiega: “Ho cominciato con una macchina per cucire semplice, tipo quelle che si vedono nelle case. Poi, passo dopo passo, ho preso vere macchine per cucire e ora ne possiedo solo di elettroniche. Ti devo dire che queste macchine elettroniche mi danno molta soddisfazione”. Adesso è in subappalto e, con tutta la tecnologia necessaria, come Ennio Mazzanti, capace di portare a termine un’operazione specifica per una varietà di assemblatori e produttori.
Infine, ve ne sono alcuni con un reale grado di autonomia, che trovano mercati e producono essi stessi prodotti finiti, come quelli nell’industria tessile intorno a Carpi o nei laboratori calzaturieri di Rimini.
Migliaia di questi “laboratori artigiani” – che secondo la legislazione italiana sono officine con meno di 25 addetti e nelle quali i proprietari stessi lavorano a tempo pieno – sono organizzati assieme in associazioni gestite in modo cooperativo come la Confederazione Nazionale dell’Artigianato (CNA), che nella sola regione Emilia-Romagna, oltre a occuparsi dell’aggiornamento e della gestione manageriale, tiene l’amministrazione di 60.000 aziende e tratta 120.000 buste paga. L’associazione si occupa inoltre del mercato per l’esportazione e garantisce il credito ai soci, operando come un consorzio per la garanzia dei mutui.
La vita economica dell’Emilia Romagna, dove più di un terzo della forza lavoro è autonoma e dove i redditi pro capite sono i più alti d’Italia, comporta un insieme di presupposti nei rapporti tra capitale e lavoro, e nella capacità e autonomia del singolo lavoratore che sono poco compresi dall’atteggiamento sufficiente dei britannici nei riguardi dei bisogni delle piccole imprese. Il nostro interesse per l’economia italiana tende a mettere a fuoco, come in Gran Bretagna, le gigantesche multinazionali con capitale che prontamente si sposta tra i paesi e anche verso i nuovi continenti sedi di nuove manifatture. Vediamo l’Italia come il vasto impero della Fiat e della famiglia Agnelli, oppure di aziende come la Benetton. Invece gli economisti, discutendo il fatto che l’economia italiana ha superato la bufera degli anni Settanta, attribuiscono questo risultato alla forza dell’intricata rete di piccole aziende; per usare le parole di Robert E. Friedman: “nel 1981 l’inizio della recessione ha potuto verificare se il sistema che si era comportato così bene in tempi di crescita generale, sarebbe sopravvissuto in tempi difficili. Non solo la rete è sopravvissuta, ma ha prosperato”.13 In Gran Bretagna siamo arrivati al punto di dare per scontato che comuni beni di consumo come lavatrici o frigoriferi, o perfino motociclette (ce ne sono almeno sei modelli in Italia) possano esser prodotti solo all’estero.
Ho cercato spiegazioni per queste differenze. Uno storico britannico, comparando l’esperienza dei lavoratori del settore automobilistico di Coventry e di Birmingham con quelli di Torino, mi ha detto che nelle industrie inglesi la terza generazione di lavoratori industriali specializzati è stata “plasmata dalla resistenza operaia al capitalismo industriale”, del tutto all’oscuro dei modi di lavorare se non alle dipendenze di grandi capitalisti; invece a Torino, con il suo alto turnover generazionale di nuovi lavoratori industriali dal Sud, gli artigiani e i contadini che emigrarono al Nord non erano “schiacciati dal capitalismo di fabbrica”, e di conseguenza hanno trovato più semplice diventare lavoratori autonomi o dipendenti su piccola scala, imprenditori in settori ad alta tecnologia, o uscire quasi completamente dal lavoro industriale e trovare da vivere con un po’ di orticoltura. Fa davvero impressione vedere quanta gente in Italia vive in un mondo che è precisamente quello di una società pre-industriale e che sembra contemporaneamente essere il modello di un lavoro post-industriale – una combinazione rassicurante di diverse fonti di impiego, costruita attorno all’ingegnosità e alla capacità di adattamento secondo le necessità del momento. Quando sono andato nel laboratorio di Ennio Mazzanti a Trebbo di Reno, due dei suoi dipendenti si erano presi del tempo libero per fare il raccolto del mais (l’ideale di Kropotkin della combinazione di lavoro agricolo e industriale!), mentre negli edifici attorno a noi c’erano piccole ditte coinvolte nella fabbrica di tubi di acciaio, termoplastiche, mobilia, aerodinamica, pelle, smalti, fabbriche di bottiglie, aria compressa, abbigliamento, fucine e fonderie, strumenti di precisione, elettronica e ceramica.
Parecchie delle osservazioni che ho sentito per spiegare le differenze tra Gran Bretagna e Italia contraddicono quello che ci hanno insegnato. Una riguardava l’alto grado di autonomia dei governi regionali e comunali. Un’altra era il fatto che i membri di questa comunità di piccole imprese e di iniziativa individuale erano per lo più elettori di sinistra, fortemente coinvolti nell’attività municipale. Un’altra differenza ancora riguardava la diffusione di conoscenza imprenditoriale. Ho chiesto l’opinione di due eminenti economisti. Uno era il professor Sebastiano Brusco di Modena che ha sottolineato questo: “Ciascuno in Emilia ha una diretta esperienza di che cosa significhi metter su una ditta, rivolgersi a un commercialista, far fronte alle difficoltà di mercato, trattare con banche e con istituti di credito e, soprattutto, associarsi con un amico per cominciare una nuova attività”.
L’altro era il professor Vittorio Rieser, che rifletteva su ciò che nella vita lavorativa educa alla ingegnosità e all’adattamento. Mi ha parlato dello spreco di creatività nella produzione a catena, sia a Torino, che a Detroit, Coventry o Birmingham, creatività che in realtà trova uno sbocco quando la gente lavora per se stessa, nell’equivalente post-industriale di un tessuto urbano denso e complesso.
L’esperienza delle città italiane è stata documentata a fondo da Sebastiano Brusco.14 Che rapporti ci sono con gli sforzi britannici di incoraggiare le piccole imprese? Il fattore principale è quello dell’accesso al credito. È difficile pensare a un qualsiasi istituto di credito che si decida a finanziare macchinari molto avanzati e costosi a operai che non hanno mai pensato di operare economicamente su larga scala. Un altro aspetto riguarda l’assenza di quelle reti di comunicazione informale così evidenti in Italia. Un altro ancora è la mancanza di fiducia osservabile su due livelli: uno, in alto, dove dopo anni di inutili sussidi alla grande industria, si pensa che non si possano più produrre merci, ma solo servizi; l’altro, in basso, è la convinzione che “quelli come noi” non potrebbero mai condurre un’azienda produttiva. L’importanza di esperienze come il Community Workshop è che esse possono, localmente e tra amici, fare il salto dalla produzione domestica alla produzione per il mercato. Iniziative di questo tipo possono aiutare a creare un collegamento tra l’economia domestica pre-industriale e l’economia locale post-industriale. Raymond Pahl, guardando alla storia del lavoro, nell’introduzione al già citato On Work, osserva:
L’emergere di una polarità tra occupazione e disoccupazione è in forte contrasto con il continuo mescolarsi di diverse forme di lavoro tipico dei tempi andati. Può essere che negli ultimi anni del XX secolo siamo testimoni del ritorno a un mondo dove il continuum è più appropriato del concetto polare e dualistico. Tuttavia, coloro che possono farcela senza credito, offrendo beni e servizi, sono una minoranza molto piccola, poiché i mezzi di sussistenza alternativi delle persone comuni sono stati gradualmente erosi nel corso degli ultimi duecento anni.
Nella dolorosa transizione verso la futura economia urbana, dove l’occupazione di massa cede il passo al lavoro autonomo, è utile considerare la conclusione di George Benello secondo cui “l’Italia ha insegnato al mondo forse più di ogni altra nazione a proposito di vita e forme urbane. Ancora una volta essa è all’avanguardia, creando un nuovo ordine economico, basato sui bisogni della città e a misura d’uomo”.
Devo aggiungere una parola su C. George Benello (1926-1987). Era un anarchico italo-americano il cui grande interesse era la liberazione del lavoro. Fondò una società controllata dagli operai, Arrow Design Engineering, a Amherst, in Massachusetts, che voleva produrre a basso costo mezzi di trasporto locale a grande risparmio energetico. Negli anni Sessanta con una barca a vela entrò nella zona del test nucleare nel Sud Pacifico, nell’ambito di una protesta generale di cui raramente si è parlato, e negli anni Ottanta costruì un catamarano, gestito da una cooperativa, battezzato Amici di Durruti. Alla ricerca di esempi positivi concreti, colse al volo le lezioni che si potevano apprendere dalle industrie cooperative di Mondragon nei Paesi Baschi, e il suo più grande interesse dei suoi ultimi anni fu cogliere gli sviluppi dei piccoli paesi artigiani gestiti da operai del Nord Italia.15.
Educato come sono stato a una tradizione un po’ diversa di propaganda anarchica, le lezioni che ho ricevuto sono un po’ differenti. Ho imparato per esempio che i piccoli imprenditori del Piemonte o dell’Emilia Romagna erano molto lontani dagli stereotipi del Thatcherismo. Per cominciare, nelle elezioni regionali e comunali essi tendevano a votare per il Partito comunista. Non si considerano capitani d’industria. Il secondo punto riguarda la cooperazione. È noto che se in Gran Bretagna due persone si uniscono per produrre cavalli a dondolo per una scuola d’infanzia di buon livello, essi sono chiamati una cooperativa di lavoratori, ma se lo fanno separatamente sono un noioso esempio di cultura imprenditoriale. Quando ho sollevato la questione della cooperazione con Sebastiano Brusco, egli mi ha risposto: “Se posso dirlo senza offendere, voi inglesi di sinistra avete la fissazione dell’impresa cooperativa, che non è mai stato questo gran successo, senza capire che ci sono settori dove ciò è importante e settori dove non lo è”. Ha continuato spiegandomi che, dove era importante, enti come il CNA si erano occupati di acquisti all’ingrosso, di amministrazione per grandi numeri, di garanzie per crediti su larga scala e di vasti mercati. “La gente coopera dove è utile, ma segue la sua strada dove la cooperazione è più una noia burocratica che un aiuto”.
Mortificato, ho pensato che abbiamo molto da imparare.
Nota. Testo originale: Colin Ward, A Few Italian Lessons, “The Raven”, 7 (1989), pp. 197-206 (con qualche variante in Id., Welcome, Thinner City. Urban Survival in the 1990s, Bedford Square, London 1989, pp. 86-95). Traduzione di Giulia Brunello.
- Peter Hall, London 2001, Unwin Hyman, London 1989. [↩]
- Ivan Turok, Continuity, Change and Contradiction in Urban Policy, in Regenerating the Inner City: Glasgow’s experience, ed. by David Donnison, Alan Middleton, Routledge, Milton 1987. [↩]
- David Nicholson-Lord, The Greening of the Cities, Routledge & Kegan Paul, London 1987. [↩]
- Great Britain. Committee of Inquiry on Small Firms, Small firms: report of the Committee of Enquiry on Small Firms, chairman J.E. Bolton, HMSO, London 1971 [↩]
- Stimulating Small Firms, ed. by David Watkins, John Stanworth, Ava Westrip, Gower, Aldershot 1982. [↩]
- Ibidem. [↩]
- Urban Removal, Great Atlantic Radio Conspiracy, Baltimore 1978. [↩]
- Lewis Mumford, La città nella storia [1961], Bompiani, Milano 1997, III, p. 637. [↩]
- Michael J. Piore, Charles F. Sabel, The Second Industrial Divide. Possibilities for prosperity, Basic Books, New York 1984; trad. it. Le due vie dello sviluppo industriale: produzione di massa e produzione flessibile, presentazione di Massimo Merlino e Luca Strambio de Castilla, prefazione di Arnaldo Bagnasco, ISEDI, Torino 1987, pp. 332-333. [↩]
- Fergus Murray, The Decentralisation of Production: The Decline of the Mass-Collective Worker, in On Work: Historical, Comparative and Theoretical Approaches, ed. by Raymond E. Pahl, Blackwell, Oxford 1988. [↩]
- Richard Hatch, Italy’s Industrial Renaissance: Are American Cities Ready to Learn?, “Urban Land”, gennaio 1985. [↩]
- Len Krimerman, C. George Benello: Architect of Liberating Work, “Changing Work”, inverno 1988. [↩]
- Robert E. Friedman, Flexible Manufacturing Networks, “Entrepreneurial Economy”, luglio-agosto 1987. [↩]
- Sebastiano Brusco, The Emilian Model: Productive Decentralisation and Social Integration, “Cambridge Journal of Economics”, giugno 1982; Id., Small Firms and Industrial Districts: the Experience of Italy, in New Firms and Regional Development in Europe, ed. by David Keeble, Egbert Wever, Routledge, London 1988. [↩]
- Il numero dell’inverno 1988 della rivista “Changing Work” è dedicato ad articoli di o su George Benello […] [↩]