di Francesco Vallerani, a cura di Maria Giovanna Lazzarin e Filippo Benfante
Francesco Vallerani ha tenuto due interventi nel corso dell’edizione 2009-2010 del Laboratorio “Acque alte a Mestre e dintorni”: il primo, dal titolo “I fiumi della gronda lagunare tra minacce e opportunità”, nel corso del seminario “Fiumi, acque e allagamenti” che si è tenuto il 3 novembre 2009; il secondo, dal titolo “Il controllo delle acque venete: idea di natura e retorica idraulica”, nel corso del convegno conclusivo, il 20 febbraio 2010. Qui di seguito presentiamo un montaggio di alcuni passaggi delle due relazioni. La trascrizione è a cura di Maria Giovanna Lazzarin, la selezione, il montaggio e la bibliografia finale a cura di Filippo Benfante. Francesco Vallerani ci ha autorizzato a pubblicare questo testo senza averlo rivisto.
Conoscere per sopravvivere
Il seminario che abbiamo organizzato è un tentativo di essere consapevoli di cosa succede ai nostri luoghi: ci arroghiamo il diritto di essere abitanti consapevoli e informati sulla questione nata da questi allagamenti. La conoscenza è un po’ una strategia di sopravvivenza. Aldino Bondesan, che mi ha preceduto raccontando la formazione geomorfologica della nostra pianura, ha concluso il suo intervento presentando una situazione drammatica, spiegando che per affrontare il problema degli allagamenti dovremo ancora intervenire artificialmente. Ormai abbiamo un territorio artificiale e il tema “acque alte” ha un valore paradigmatico: è un modello interpretativo di come la città diffusa, l’iperubanizzazione siano fallite. Noi lo diciamo adesso, siamo tra i pochi che si ostinano a dirlo, quando Lewis Mumford lo diceva negli anni Quaranta del secolo scorso. Ma era chiaro ancora prima, quando le città paleotecniche del mondo industriale hanno evidenziato tutte le problematiche legate a un eccesso di urbanizzazione.
Rendere dicibile il male, e indignarsi…
Lo studioso ha l’obbligo morale di occuparsi di questi tumultuosi effetti dell’urbanizzazione. “Mestre e dintorni” è un modello di ciò che è rinvenibile in tutto l’occidente, dove non c’è più nessuna regola. Ma sono cose già riscontrate anche nel regime sovietico. Pensate alla grande calamità della derivazione dell’Amu Darya e del Syr Darya, immissari del lago d’Aral, che sono stati portati nel Kazakistan per irrigare il cotone. Ormai il lago d’Aral è un lago in via di estinzione.
Il modello interpretativo da cui vorrei partire è molto semplice: rendere dicibile il male, raccontabile il disagio e il non funzionamento di un territorio è già un buon risultato. L’altro risultato è dar corso all’indignazione: indigniamoci ogni tanto.
…ma senza retorica
C’è un rischio in tutto ciò, ed è la retorica del collasso ambientale. Jared Diamond ha parlato ampiamente del collasso ambientale in un libro tradotto da Einaudi. Ma bisogna stare attenti a non cadere nell’estetica dell’apocalisse, nella spettacolarizzazione del male ambientale che è molto pericolosa, per cui Messina crollata diventa attraente. Anche perché si ripete: c’è una rassicurante ricorrenza della catastrofe, che non aiuta a soffermarsi sulla realtà, nel nostro caso fatta di intensi deflussi in aree fortemente urbanizzate, e cioè sull’endemica pericolosità del cosiddetto difetto idrogeologico.
Piano con i tecnici
Noi dovremmo dar voce alla polifonia urbana, cioè a racconti polifonici. La città non è mai un pensiero unico, un discorso unico, anche se ce lo vogliono far credere con i tecnici. A me spaventano i tecnici, portatori di sapere “rigoroso” – che solo perché l’ha detto il tecnico, allora il sindaco di Battaglia Terme è tranquillo e lascia fare al genio civile delle cose invereconde sul canale di Battaglia. Se avete tempo fate un’escursione al canale di Battaglia a vedere cosa non è successo. Questo canale antico che hanno scavato con le benne, hanno cementificato e poi è crollato.
Chissà perché? Una spalla è crollata perché non han capito che ci son delle forze: un muro tiene su la strada da una parte, ma dall’altra era tenuto su dal canale con i suoi sedimenti. Sono cose elementari tant’è che c’è da chiedersi: cos’ha studiato quell’ingegnere? Che curriculum, che esami ha fatto, che voti ha preso? Perché bisogna capirle queste cose. Questo è un po’ il tema dell’indignazione.
ITALIAE NOVISSIMA. Carta in bianco e nero realizzata da Giacomo Gastaldi e pubblicata nel Theatrum Orbis Terrarum di Ortelio edito ad Aversa nel 1570. (Fonte: http://mbmaps.net/it/index.php)
L’arte della cartografia
Ovviamente, ci sono dei dati oggettivi. L’intervento di Bondesan ha chiarito che l’area in cui viviamo è una delle più complesse dal punto di vista della certezza idraulica. Abbiamo una vastissima letteratura su questo, basti nominare (1679-1747), (1705-1789), l’abate Gennari (1721-1800), e poi le generazioni degli ingegneri austroungarici e italiani. Però tutto questo lavoro è più legato all’interpretazione di documenti e di fonti cartografiche che a un sistematico rilievo di tracce fluviali, come ora fa la scuola di Aldino Bondesan. All’epoca mancavano i carotaggi. Temanza ha fatto grandi studi negli archivi, ha ripescato vecchie relazioni di periti: Giacomo Gastaldi (ca. 1500-1566), (ca. 1510-ca. 1595) grandi periti che andavano in giro e poi producevano mappe che sono abbastanza simili ai disegni fatti adesso dai geologi.
Cristoforo Sorte, nel suo trattatello Osservazioni nella pittura del 1530, codifica i colori: il rosso per il mattone a evocare il simbolo del centro abitato, il verde per la palude, il verde sfumato col giallo per la barena e il canneto, il blu intenso sono per i fiumi che hanno una profondità maggiori rispetto alla laguna. Sorte era amico di Paolo Veronese, un pittore che è cartografo, una cartografia che diventa sorella minore della pittura.
Le carte antiche ci mostrano che il problema delle esondazioni causate da fiumi di risorgiva, è di lungo periodo. Quando studiavamo geomorfologia ci insegnavano: fiume di risorgiva, fiume di portata costante, senza arginature di rilievo, non produce esondazioni. Quindi qualcosa è cambiato con l’intervento umano: l’eccesso di presenza antropica può portare problemi di vario tipo.
Tuttavia quelle stesse carte ci mostrano che i nostri fiumi, a Maerne, Chirignago, Zelarino, avevano uno spazio di libertà di esondazione prima della irreggimentazione, prima che venissero tolti gli spazi di vita ai corsi d’acqua.
Fino a una certa epoca, non si costruiva mai a ridosso del fiume, mulino a parte, lasciando al corso d’acqua la possibilità di divagare: intorno c’erano anche fasce tampone, c’erano boschi, c’erano golene, c’erano stagni. Questi accorgimenti, la ricreazione di questi spazi: sono ancora interventi possibili, verso cui indirizzarsi, più utili che ricalibrare i corsi d’acqua, perché quando ricalibriamo, rettifichiamo, aumentiamo la velocità dell’acqua, togliamo l’acqua dal posto dove interveniamo, ma creiamo problemi a valle.
Ecco l’ottica dell’unità di bacino, l’ottica che animava gli ingegneri dell’Ottocento. Questa è l’epoca di Marc’Antonio Sanfermo, un ingegnere che ha lavorato prima con Venezia, poi con i francesi, poi con gli austriaci, poi di nuovo con i francesi e gli austriaci, ed era uno dei grandi padri dell’idraulica della pianura il quale amava camminare e soprattutto amava consultare gli abitanti, un po’ come facevano i periti della repubblica veneta.
Camminare, andare a vedere, infangarsi, ascoltare
Gli archivi veneti sono stracolmi di mappe, relazioni che raccontano un capillare, pulviscolare controllo idraulico di tutto il territorio. Sarebbe interessante studiare queste storie idrauliche, la dicono lunga anche sulla frattura che c’è stata con la settorializzazione dell’ingegneria, quando non si ha più una visione olistica, ma ipertecnica.
Proti come Gastaldi o Sorte andavano a sentire le opinioni degli esperti del luogo, quindi negli archivi troviamo testimonianze della grande dignità che viene data all’esperto del luogo: modestissimo, perché poteva essere un pescatore, un barcaro, eppure carico di sapienza locale, di diuturno controllo delle dinamiche dell’acqua. Bisogna camminare, sporcarsi, infangarsi.
Cristoforo Sorte, Disegno del Polesine con parti confinanti, disegno, sec. XVI. Rovigo, Accademia dei Concordi (Fonte: http://www.parchideltapo.it/taglio.del.po/)
In un’ottica post-moderna siamo molto affascinati da questo arcaismo, in quanto è a basso impatto, rispettoso della natura, soprattutto meno costoso e quindi a basso impatto affaristico. Tant’è che stupì quando qualche anno fa il politecnico di Torino propose un esame non obbligatorio per gli ingegneri di letteratura italiana. Buon segno umanizzare anche la competenza tecnica. I fondi archivistici dall’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento testimoniano una diffusa strategia della cura da parte degli ingegneri.
La svolta novecentesca
Il punto di svolta è il secondo dopoguerra: totale abbandono dei vincoli normativi, assenza di pianificazione, anzi nel 1957 viene emanata la famosa legge sulle aree depresse, per cui l’80% dei comuni veneti è classificato “depresso”. Vuol dire distribuzione di incentivi, proliferazione di edilizia senza bisogno di piano regolatore o concessione edilizia. Chi costruiva, costruiva. Andate a vedere in un qualunque comune le buste d’archivio dal 1957 al 1962. Io ho studiato l’archivio storico di Cittadella: ho trovato lamentele del prete, del genio civile, dei consorzi di bonifica contro i frontisti che si arrogano il diritto di interrare fossi, di costruirsi qualunque cosa grazie alla legge del 1957. Abbiamo un conflitto legislativo irrisolvibile. Il parroco di Cittadella, in una predica di Pasqua del 1962, invita i parrocchiani ad attenersi a delle norme di buon senso evocando i nostri vecchi: “ma ierei stupidi i nostri veci che i tegneva verti i fossi?”. Questa predica è poi andata al comune, perché il parroco ha fatto la richiesta al sindaco di governare la deregulation della legge sulle aree depresse.
Allora si perde la convivenza ragionevole con la rete idrografica, e nasce il disastro. A livello nazionale abbiamo gli scritti di Antonio Cederna, il Polesine nel 1951, il Vajont nel 1963, una pietra miliare per capire la difficoltà di far valere l’ascolto degli abitanti contro l’iperpotere del tecnico. Tina Merlin viene denunciata per “procurato allarme”, per aver messo in dubbio le competenze degli ingegneri che hanno realizzato l’opera del Vajont. Sul piano urbanistico la pressione culturale si scuote perché nel 1957 nasce Italia Nostra, dal 1955 al 1958 viene pubblicato Il viaggio in Italia di Piovene, in cui si dicono tante cose sul problema endemico del dissesto del suolo italiano. Ma Leonardo Borgese è l’unico che si scandalizza quando dal 1958 al 1962 stanno interrando i navigli interni di Padova medioevale e quella è stata una perdita enorme della qualità urbana motivata col discorso delle alluvioni, quando avevano lo scaricatore fatto negli anni Trenta che funzionava benissimo.
Cristoforo Sorte, Carta delle acque di Padova (Biblioteca Civica di Padova)
Nel 1966 ci sono le famose alluvioni e l’anno dopo viene istituita la cosiddetta commissione De Marchi, nome ufficiale “Commissione interministeriale per lo studio della sistemazione idraulica e della difesa del suolo”, che pubblica la sua relazione nel 1970. Nel 1973 la Tecneco pubblica la Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese. Due anni prima il CNR aveva fatto il Libro bianco sulla natura in Italia. Tutte commissioni governative, tutte ricerche pubblicate che sono rimaste nel classico cassetto, non hanno dato luogo a nessuna applicazione concreta di tutela ambientale. C’è stato , un grande geografo che ha fatto dei lavori collettivi, è stato anche consulente del governo, ha pubblicato La società sradicata nel 1976. Cose dette, ma non hanno avuto alcun esito.
Cose che si dicono da tempo ma che restano nei cassetti
Il primo dicembre 1989 si tenne una giornata di studio su “Trasformazione del territorio e rete idrica nel Veneto”. Quando ho ripreso in mano gli atti, mi son detto: “non è possibile!”. Luigi D’Alpaos, Antonio Rusconi, tantissimi studiosi hanno partecipato a quella giornata di studio, è stata fatta la pubblicazione, poi le cose sono rimaste là. E D’Alpaos diceva, nel 1989: l’entroterra di Mestre, se continuiamo così, è a rischio endemico e perenne di alluvioni. Andiamo a vedere com’erano l’edificato e l’edificabilità a Mestre quando lui l’ha detto: adesso è aumentata di un terzo, ma era già a rischio nel 1989. Quindi è necessaria una rilettura dei saperi che sono stati prodotti – perché sono stati prodotti – ma senza essere utilizzati da chi ha in mano la decisione politica. Questo è il problema. Bisogna rompere l’incomunicabilità tra i saperi, le conoscenze, e i decisori politici.
I fiumi della gronda scorrono su settori sempre più impermeabilizzati; è stata ridotta la complessità sistemica, geomorfologica, idraulica, naturalistica; i piccoli fiumi sono stati ridotti a canali: non sono più fiumi. L’indice di corrivazione – cioè lo scorrere dell’acqua dai vari punti del bacino verso le reti di raccolta, da un bacino A posto a monte a un collettore B posto a valle – è stato abbreviato. Ma così abbiamo ridotto la capacità di ritenzione e di assorbimento dei corsi d’acqua. Studiando la rettificazione abruzzese, l’irreggimentazione dei bacini dal Sangro, il Trigno, il Pescara, si vede che hanno fatto grandi lavori di idraulica montana, ma Pescara va sott’acqua, non c’è più la fitodepurazione. E adesso stanno rimeandrizzando: prima hanno rettificato e adesso rimeandrizzano. Devono buttar via le massicciate di cemento, con problemi seri perché intanto hanno consentito l’urbanizzazione, ma sono arrivati gli ingegneri, che hanno messo in sicurezza. La “sicurezza”. È un mito prometeico, modernista. E la gronda veneziana ha già perso questo e infatti Bondesan ha detto che toccherà fare delle casse di laminazione. Ma dove le fai, che terreni prendi?
Per una terapia fluviale e urbanistica
Tutti i fiumi della nostra zona sono dei potenziali corridoi fluviali, elementi di terapia urbanistica, che possono essere visti come spazio lungo i corsi d’acqua, all’interno del quale deve essere rigenerata, restaurata, mantenuta e consolidata una rete ecologica. Il corridoio fluviale dovrebbe tendere a ripristinare lo spazio naturale del fiume. Esso deve inoltre ricostituire una buona connessione con la rete idrologica secondaria, in modo da ridare funzionalità all’intero sistema idrologico.
L’Italia, dal 12 gennaio 2006, è in infrazione per non essersi adeguata alla direttiva quadro comunitaria sulle acque (legge 60 del 2000 della Comunità europea), che punta al risanamento, alla protezione e al ripristino degli ambienti acquatici. I fiumi devono avere un buono stato ecologico, anche dove sono stati rettificati, perché anche l’idrografia artificiale rientra nella direttiva acque (in questo caso si parla di “buona potenzialità ecologica”). Invece in Italia con la legge delega 308 del 2004 è stata vanificata la legge 183 del 1989 (la cosiddetta legge Galli) sull’uso pubblico dell’acqua, che era finalizzata a una buona qualità delle acque e a dare una libertà di esondazione adeguata alle acque superficiali.
Elogio del paesaggio
Non si tratta solo di controllare i deflussi, ma c’è un più ampio disegno che è la cura del paesaggio. A questo scopo, dovremmo inserire i processi decisionali su dei parametri innovativi, paradigmi che sono quelli della biodiversità, della qualità estetica, dell’uso sostenibile del tempo libero.
Elogio del fosso
Anche in un canale artificiale c’è biodiversità. Mi è piaciuta la proposta fatta oggi di adottare un fosso. È un’iniziativa che si fa da un pezzo: seguendo mia figlia piccola nelle scuole elementari, abbiamo adottato un fosso. Ha funzionato, sono tornati i tritoni. Solo che dieci anni dopo il fosso è stato interrato. Anche gli alberi piantati dal comune – manifestazione di sensibilizzazione –, poi devono essere curati, e non sempre succede.
Ma adottiamo un fosso: un fosso è un patrimonio di biodiversità se solo sapessimo risanarlo. Basta poco, la natura restituisce molto del poco che diamo.
Elogio del microintervento
L’apologia del fosso dovrebbe portarci a un’altra apologia: l’infinita varietà dei microinterventi idraulici. Nel dipartimento di storia di Venezia stiamo facendo una rassegna di vecchi film d’acqua; quello che colpisce ad esempio in Riso amaro, al di là di Silvana Mangano, è la grande pulviscolare serie di interventi: le minichiaviche di mezzo metro di legno per annacquare le risaie, gli arginelli per definirle, le palificate o le passerelle di legno che si trovavano numerosissime anche in gran parte dei paesaggi veneti.
“Dispotismo idraulico” e grandi opere: roba pericolosa
Il problema è la complessità enorme della rete idrografica: nell’area che stiamo osservando abbiamo una straordinaria diffusione di centri abitati, di case sparse, di borgate, di porti, di attracchi. Quando noi cerchiamo di spiegare la città diffusa di adesso che tanto ci angoscia, le origini son queste: la grande abitabilità del territorio organizzata dalla centuriazione romana in poi. Più aumenta il carico antropico, maggiore è la competenza idraulica necessaria.
Nel XX secolo si è assistito a interventi sempre più mastodontici e centralizzati. Potremmo definirli esempi di “dispotismo idraulico”. Il capolavoro del dispotismo idraulico modernista fu realizzato nel 1933 con la Tennessee Valley Authority, il gigantesco sistema di gestione delle acque del bacino del Tennessee, soprattutto a fini di produzione idroelettrica, istituito durante il New Deal per risollevare una delle plaghe degli Stati Uniti più colpite dalla crisi del 1929 e divenuto uno dei massimi esempi mondiali di intervento pubblico nell’economia in funzione anticiclica. La grande crisi, le grandi opere, il meccanismo statale per governare il problema. Il potere modernista sull’acqua genera grandi progetti faraonici. C’è un fascino del gigantismo che è drammatico. Così durante nell’URSS degli anni Cinquanta-Sessanta il lago d’Aral diventa un lago morto, da cui è stato tolto il deflusso di due grandi fiumi: per irrigare l’Uzbekistan e coltivare il cotone hanno ucciso il lago d’Aral.
Attenzione al dispotismo idraulico modernista! Le grandi opere sono molto pericolose.
Alcuni riferimenti bibliografici
Nei brani tratti dalle relazione di Francesco Vallerani, si incontrano molti libri. Qui di seguito, diamo notizia bibliografica di alcuni di essi, nell’ordine in vengono citati.
Di Lewis Mumford, si vedano: La cultura delle città, ed. or. 1938, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1954 (poi varie riedizioni, sempre sulla base della traduzione di Enrica e Mario Labò, l’ultima a cura di Michela Rosso e Paolo Scrivano, Edizioni di Comunità, Torino 1999 e poi Einaudi, Torino 2007); e La città nella storia, ed. or. 1961, trad. it. Edizioni di Comunità, Milano 1963 (poi varie riedizioni, sempre sulla base della traduzione di Ettore Capriolo, l’ultima Bompiani, Milano 2002 in tre volumi tascabili).
Viene quindi citato il volume di Jared Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, ed. or. 2005, trad. it. Einaudi, Torino 2005.
Gli atti della giornata di studio sul tema “Trasformazione dell’uso del suolo e conseguenze sulla rete idrica del Veneto” (Venezia, primo dicembre 1989, convegno in onore di Augusto Ghetti) sono usciti sotto il titolo Trasformazioni del territorio e rete idrica del Veneto, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1991.
Di Antonio Cederna si possono ricordare almeno: I vandali in casa, Laterza, Bari 1956 (nella famosa collana “Libri del tempo”; poi ripreso nel 2006: I vandali in casa: cinquant’anni dopo, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Roma-Bari 2006); Mirabilia urbis: cronache romane, 1957-1965, Einaudi, Torino 1965; Mussolini urbanista: lo sventramento di Roma negli anni del consenso, Laterza, Roma-Bari 1979 (ora Corte del Fontego, Venezia 2006).
Tina Merlin riuscì a pubblicare il suo libro sul Vajont solo nel 1983: Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe: il caso del Vajont, La Pietra, Milano 1983. Dal 1993 è stato riedito più volte, in genere a ridosso degli anniversari. Nel 2003 è stata ristampata la quarta edizione, presso Cierre, Sommacampagna (Verona).
Il Viaggio in Italia di Guido Piovene uscì per la prima volta nel 1957 (Mondadori, Milano); ha avuto varie ristampe e riedizioni; dal 1993 è pubblicato dal marchio Baldini & Castoldi, ora Baldini Castoldi Dalai, ultima ristampa nel 2007.
Gli articoli di Borgese su Padova si leggono ora in Leonardo Borgese, L’Italia rovinata dagli italiani, a cura di Vittorio Emiliani, Rizzoli, Milano 2005.
Oltre alla Relazione conclusiva (Roma 1970), la “Commissione interministeriale per lo studio della situazione idraulica e della difesa del suolo” ha pubblicato tre volumi di atti nel 1974.
La Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese è stata pubblicata a cura di Tecneco, Roma 1973.
Il Libro bianco sulla natura in Italia è stato pubblicato dalla Commissione di Studio per la Conservazione della Natura e delle sue Risorse, a cura di L. Contoli e S. Palladino, CNR, Roma 1971.
Di Calogero Muscarà, è citato il volume La società sradicata. Saggi sulla geografia dell’Italia attuale, Franco Angeli, Milano 1976.
L’espressione “dispotismo idraulico” prende le mosse, tra l’altro, da un saggio di Karl A. Wittfogel, Il dispotismo orientale, ed. or. 1957, trad. di Renato Pavetto, Vallecchi, Firenze 1968, 2 voll. (seconda ed. in un solo volume: SugarCo, Milano, 1980), che si è occupato del dispotismo orientale, facendo la storia di tutte le civiltà idrauliche, dagli assiri agli indiani ai cinesi.