a cura di Maria Giovanna Lazzarin
Sabato 24 ottobre 2009, nell’ambito del progetto «Acque alte a Mestre e dintorni», è stata fatta una visita al Laboratorio Mestre Novecento, presso il Centro culturale Candiani di Mestre. Giorgio Sarto, curatore scientifico di Mestre Novecento, ha presentato, materiali storici ed elaborazioni cartografiche su allagamenti, regimazione dei corsi d’acqua e bonifiche, scolmatore, acquedotto, fognature. Ecco un resoconto di quel pomeriggio. Le foto sono del Consorzio di Bonifica Dese Sile -Mestre Novecento.
Ci troviamo in uno spazio allestito con tavoli e computer, perché l’archivio urbano lì raccolto è stato quasi tutto riversato su supporto digitale. Le pareti sono ricoperte da grandi carte del territorio che ricostruiscono le trasformazioni che si sono prodotte in terraferma dalla fine dell’Ottocento a oggi. Su un tavolo è stesa la carta con una parte del piano di disinquinamento delle acque reflue elaborato dalla Regione in forza della legge speciale n. 171 del 1973, in particolare afferente al territorio di Mestre e Marghera (1983). Questa sistemazione incuriosisce. Le persone presenti, con l’aiuto di Giorgio Sarto e di Claudio Zanlorenzi, provano a leggere, in una quindicina di carte formato A3 composte come in un mosaico e in sequenza temporale su una delle pareti, le vicende relative alle acque potabili e alle fognature della terraferma veneziana.
Poi Giorgio Sarto comincia a presentare il laboratorio Mestre Novecento, che ha messo insieme un patrimonio di documenti recuperati da molti archivi diversi, non solo amministrativi ma anche tecnici. Quella tecnica è una questione centrale per la trasformazione di un territorio: la popolazione spesso si sente dire che un problema non si può risolvere per una ragione tecnica, poi se si va a fondo degli stessi documenti tecnici, si vede che le soluzioni ci potevano o ci potrebbero essere.
L’ultimo lavoro svolto dal laboratorio Mestre Novecento è stato abbinare vari documenti a ciascuna delle trasformazioni avvenute sul territorio. Ecco il sogno-obiettivo di Sarto per un futuro museo della città metropolitana: un’installazione di mappe e documenti, per cui si potrà toccare un punto delle mappe che ricostruiscono le trasformazioni e visionare i materiali e le immagini che documentano quelle trasformazioni.
Questo pomeriggio ne abbiamo un saggio ancora un po’ rudimentale, sotto forma di semplice proiezione di documenti.
1. Allagamenti
All’inizio scorrono immagini in bianco e nero del fotografo Tranquillo Tagliapietra che mostrano la piazza Ferretto allagata nel 1905 e una campagna piena di fossi, e pure di stagni, che nei decenni a noi più vicini saranno tombati.
Si vedono anche due immagini dell’allagamento alla Gazzera del 1928. La conformazione e la quota di questo territorio lo hanno sempre esposto al rischio idraulico, tanto che i più antichi insediamenti e anche alcuni tracciati stradali sono sorti sui dossi, a loro volta formati da remote divagazioni fluviali. Anche all’inizio del XX secolo, dunque, le aree urbane e rurali venivano frequentemente allagate, ma allora i suoli non erano impermeabilizzati dall’urbanizzazione, c’era un diffuso reticolo di fossi, i fiumi erano affiancati da prati stabili che ricevevano la tracimazione dell’acqua.
Poi progressivamente tutto cambia: vediamo scorrere le fotografie dell’allagamento del 1974 a Ca’ Emiliani. Sono foto di privati, di famiglie, recuperate qualche anno fa da Stefano Ghesini e Giorgio Bombieri, nell’ambito di un progetto del servizio ETAM (assessorato delle Politiche sociali del Comune di Venezia), curato da Piero Brunello, Fabio Brusò e Claudio Zanlorenzi (Mestre Novecento ha raccolto e salvato in DVD tutto il patrimonio video prodotto dall’ETAM in questi anni). In alcune foto sembra ripristinata la palude che era presso i Bottenighi, tanto l’acqua ha invaso tutto.
Sarto proietta la recente mappa elaborata dalla Provincia sul pericolo idraulico (un lavoro analogo era stato fatto per il Preliminare di piano provinciale del 1995, che indicava però anche gli ambiti ove non era proprio il caso di edificare). Vi sono tratteggiate le amplissime zone sottoquota a scolo meccanico ed è segnata l’impressionante estensione delle zone di terraferma allagate negli ultimi anni e perciò candidate di nuovo al danno se non si realizzano le necessarie contromisure.
2. Bonifiche e regimazione dei corsi d’acqua
Sarto mostra una rielaborazione della carta IGM del 1887, in cui si vede ancora la vasta zona umida verso la foce del Dese con paludi e risaie, l’estensione dei prati stabili e la fascia dei boschi. Tra questa e la carta della Provincia ci sono più di cento anni di distanza, e un lavoro progressivo di bonifica a opera dei grandi proprietari e del Consorzio poi denominato Dese-Sile (la parte di territorio corrispondente a Marghera ha invece il consorzio Medio Brenta), di cui il laboratorio ha selezionato molta documentazione.
Scorrono le immagini delle opere degli anni Venti e Trenta di regimazione dei fiumi – scavo degli alvei, innalzamento degli argini, ecc. – e della grande bonifica a nord-est del nostro territorio (incentivata dalle leggi e finanziamenti del regime fascista). Tra le altre, le foto relative ai bacini e agli impianti idrovori del Cattal e Zuccarello.
Lavori di bonifica, anni Trenta
Lavori di rettifica sul Dese, anni Trenta
Per realizzare queste opere, ma anche altri lavori idraulici come i sistemi fognari – ci spiega Sarto – è fondamentale rilevare l’andamento altimetrico del terreno e queste “livellazioni” venivano fatte selezionando punti di riferimento riconoscibili (es. il monumento di Zelarino, ponti, edifici…) e segnalandoli con dei capisaldi in bronzo, perché potessero durare nel tempo. Vengono proiettati esempi di livellazione con le relative “monografie” che descrivono con disegni e/o foto i luoghi ove sono inserite le placche dei capisaldi.
Nel 1960 viene inaugurato l’aeroporto e vediamo le immagini della grande colmata per predisporre le piste che cancella le barene, mentre il tratto terminale dell’Osellino viene eliminato e la foce arretrata verso ovest.
Si torna poi agli anni Settanta e successivi, con un territorio pesantemente urbanizzato e compromesso nella struttura e nel paesaggio. Quando dopo aver rialzato argini, rettificato e cementificato fiumi e corsi d’acqua, tutto questo non basta più, si fa un profondo canale di circonvallazione – lo scolmatore – che in caso di piena raccoglie acque del bacino Marzenego – dal rio Cimetto al Roviego e successive immissioni fino a Tessera. Ecco due immagini relative ai lavori di costruzione.
Per lungo tratto, lo scolmatore affianca la tangenziale passandovi anche sotto, poi dopo il Terraglio e verso Favaro prosegue nel canale Bazzera e conclude il suo lungo tracciato ad arco all’idrovora di Tessera.
Quando costruiscono lo scolmatore, l’unico scopo è condurre via l’acqua il più presto possibile, perché – ci dice Sarto – l’idea per esempio di bacini di espansione o progetti integrati avevano poca cittadinanza nella rozza visione culturale e nel repertorio tecnico di quel periodo. Inoltre, lo scolmatore è pensato senza gli esseri umani: se cadi lì, non puoi risalire da solo le ripide sponde cementificate e anneghi. Adesso, in un quadro ove gli stessi consorzi di bonifica adottano criteri di progettazione e di intervento più sostenibili, si prospetta di “rinaturalizzare” questa micidiale fossa, per esempio allargando e riconformando le sponde, dopo però che la gente ci è morta.
Mentre scorrono le impressionanti immagini della costruzione dello scolmatore, con camion-betoniera che transitano sol fondo del canale di cemento, Sarto accenna di nuovo ad alcune questioni che – assieme alle ormai croniche difficoltà operative su scala nazionale delle autorità e piani di bacino dei grandi fiumi e dei piani delle acque – sono alla base degli allagamenti:
a) la drastica diminuzione del coefficiente udometrico (cioè la quantità e velocità di deflusso delle acque da un certo territorio), della permeabilità dei suoli e della loro capacità di trattenere le acque, in seguito all’urbanizzazione selvaggia e dilagante, alla crisi della struttura della campagna e della sua capacità d’invaso, a infrastrutture invasive e realizzate come ostacolo al deflusso e che hanno distrutto parti importanti del reticolo idraulico;
b) la sottovalutazione dei grandi effetti, negativi o positivi, che hanno semplici e singole azioni moltiplicate migliaia di volte. Alcune azioni sarebbero controllabili a livello di regole generali e locali; ad esempio la regione, ma anche qualsiasi comune, poteva e può obbligare a parcheggi permeabili e alberati nei centri commerciali o altrove, o ad alberature lungo le strade e ai confini dei lotti e delle zone industriali, come del resto in Trentino si fa da qualche decennio. Alcuni indirizzi ribaditi dal Commissario nominato in seguito all’emergenza degli allagamenti ai comuni e agli altri soggetti – quelli che dovrebbero attuarli – hanno la possibilità di produrre effetti rilevanti, per il sommarsi di interventi diffusi e realizzabili anche a livello del singolo lotto ed edificio o del singolo raggruppamento insediativo.
Più complicato, ma necessario e possibile, è salvare e incentivare i sistemi di fossi e siepi, e nel nostro territorio perseguire davvero, in primis a opera dei vari soggetti istituzionali ma poi con la collaborazione dei privati, la realizzazione di una grande cintura verde metropolitana e l’estensione del bosco di Mestre e di prati, anche con marcata funzione di difesa idraulica. Questa è realizzabile con semplici sistemi collegati di avvallamenti e bacini. L’organizzazione progressiva di una cintura verde dovrebbe mettere in relazione le recenti e nuove aree boscate e a prato, nuove zone umide permanenti e transitorie, aree agricole periurbane, le fasce fluviali e degli altri corsi d’acqua, la rete e i corridoi ecologici, il sistema dei forti del campo trincerato, il sistema capillare del verde pubblico.
Tornando ai corsi d’acqua, tra gli anni Sessanta e Ottanta, tutto è stato rettificato e cementificato, come se si trattasse di fare strade e autostrade d’acqua per arrivare velocemente a una laguna che invece non poteva recepirne né l’inquinamento, né talvolta – come nel 1966 – la portata.
3. Il valore dei corsi d’acqua
Come esempio di una specie di cultura del disprezzo del valore dei corsi d’acqua e del paesaggio, degli spazi collettivi e delle regole, nonché dell’ignoranza storica e idrogeologica, Sarto ci mostra attraverso cartografie e ortofoto (cioè foto aeree rielaborate in modo tale da poter essere usate come mappe) il caso dell’area a est di forte Tron, dove i corsi del Brentella-Lusore e del Cime-Menegon-Tron confluiscono. Il raccordo tra la strada statale Romea e l’autostrada, costruito alla fine degli anni Sessanta, ha tagliato i due corsi d’acqua. La loro zona di confluenza, con il suo prato triangolare compreso tra gli argini rialzati, avrebbe dovuto essere conservata come verde pubblico, nel rispetto degli standard urbanistici fissati per legge (una legislazione avviata nel 1968 e ribadita nelle leggi urbanistiche regionali), all’interno dell’espansione della grande zona di attività commerciali e produttive di Ca’ Emiliani, a sud del centro commerciale Panorama. Ancora fino agli anni Novanta questa tutela era ribadita nel Piano di Area della Laguna e dell’Area Veneziana (PALAV) e nel Preliminare di Piano provinciale del 1995. Se si va a vedere oggi, in quella preziosa e antica confluenza c’è solo cemento e asfalto con un cinema multisala e un grande emporio della catena Leroy-Merlin (sul valore di questa area, che tra l’altro ricalca gli antichi corsi fluviali del Muson e del Lusor, Sarto rinvia a quanto ha pubblicato di recente in Dall’antico bosco Brombeo al nuovo bosco di Marghera di cui è anche il curatore).
Sarto precisa anche che ormai è diventa prassi l’aggiramento degli standard di urbanizzazione, che, in relazione al numero di abitanti nell’area interessata, fissano quantità minime di verde, parcheggi, spazi di interesse comune, ecc. Garantire la quantità e la qualità di queste dotazioni urbane collettive non è facile e dopo il grande impegno dei comuni per i “piani dei servizi” al fine di riqualificare le città, vi sono stati molti passi indietro, con l’introduzione di procedure che permettono di “monetizzare” anche standard essenziali o di acquisirne solo una parte dai privati, in cambio di nuove edificazioni sulla stessa area prima totalmente destinata a dotazioni comuni.
4. Acque potabili e acque reflue
Le ultime due sezioni della proiezione riguardano l’acquedotto e le fognature.
Nel tardo Ottocento la terraferma è il luogo del rifornimento e dell’attraversamento dell’acquedotto per Venezia – progettato con splendidi disegni dalla Compagnie générale des eaux – per cui l’acqua potabile viene prelevata non più dalla Seriola ma dai pozzi di Scorzè, passa in condotta interrata per la Castellana e per la stazione di pompaggio della Gazzera e da lì per la strada della Giustizia, Fusina e la condotta sublagunare viene distribuita a Venezia dalla centrale di S. Andrea. Nel 1912 Mestre inaugura il suo acquedotto, prelevando l’acqua dai pozzi di Zero Branco e arrivando con la condotta che percorre anche il Terraglio all’officina con le macchine di pompaggio costruita nel centro, vicino al torrione ottagonale in via di S. Maria dei Battuti. Quando viene costruita Marghera, il suo acquedotto viene derivato negli anni Venti da quello di Venezia, dalla condotta che proviene dalla Gazzera e arriva potenziata al nuovo impianto del quartiere giardino con la vasca interrata e la bella torre piezometrica. Una condotta sul ponte automobilistico sostituirà poi quella sublagunare per Venezia-S. Andrea. Le acque potabili di Mestre, Marghera e Venezia sono ora, dopo che si è aggiunto il prelievo dal Sile con il relativo impianto di depurazione di Ca’ Solaro, mescolate in un vasto sistema interconnesso di dimensione metropolitana.
Mentre scorrono le carte di vari periodi con i rilievi e progetti dei pozzi, Sarto ci informa che mentre nell’Ottocento e all’inizio del Novecento i pozzi avevano una profondità di 30-40 metri, oggi invece si deve scendere a 300 metri.
Per quel che riguarda lo sfruttamento delle falde a Porto Marghera, anche dopo la grande acqua alta a Venezia e le concomitanti alluvioni dell’entroterra del 1966, bisogna arrivare alla soglia degli anni Settanta, quando viene completato il nuovo acquedotto industriale, perché venga messo il blocco all’emungimento dai pozzi, che ha contribuito tra l’altro allo sprofondamento di Venezia di una decina di centimetri nel giro di cinquant’anni, quanto un secolo di subsidenza naturale.
Infine la vicenda delle fognature, che hanno la loro parte negli allagamenti e nei loro effetti dannosi: dal progetto non realizzato del cosiddetto piano Rosso per la cui accurata livellazione viene incaricato addirittura l’Istituto geografico militare che la consegna nel 1941; alla grande espansione urbana senza vero sistema fognario e con al massimo fosse settiche e inquinanti scarichi nella rete idrografica; al primo sistema di acque reflue a bacini separati, ognuno che recapita al suo depuratore; alla situazione odierna in cui ci sono due grandi recapiti, Campalto e Fusina e si sta prospettando, purtroppo per ora solo per le parti nuove, di sostituire la fognatura di tipo misto con il sistema a reti separate (acque nere e acque bianche), perché, quando piove tanto, l’impianto fognario che raccoglie anche l’acqua dalle strade scarica in depuratori che non tengono più e devono versare tutto in laguna.
Sarto accenna a questo punto alla legge speciale per Venezia, la 171 del 1973. È stata una legge di effettiva salvaguardia di Venezia e dell’ecosistema lagunare, che ha precorso i tempi e che imposta soluzioni anche a livello di complessiva pianificazione comprensoriale. Ha avuto una grande importanza pure rispetto al disinquinamento, esteso ai comuni dell’intero bacino scolante in laguna e al relativo Piano direttore della Regione, purtroppo incoerente lì ove adotta la costruzione di sistemi fognari misti.
L’incontro si conclude con un raro filmato dell’allagamento del 1974 a Ca’ Emiliani; ci sorprende l’atteggiamento della popolazione, delle ragazze e dei ragazzi in particolare, che – quasi in atteggiamento di sfida – prendono come un gioco le strade ridotte a un fiume.
La copertina del libro curato da Giorgio Sarto