a cura di redazione sito sAm
La nostra amica Lia Botter ci ha segnalato un articolo sul sito del Corriere Veneto, a proposito di una proposta di legge dello Stato approvata trasversalmente dal Consiglio regionale del Veneto: si chiederà al Parlamento di Roma di riconoscere il veneto come lingua minoritaria, al pari dell’albanese, del sardo, del franco-provenzale e del friulano. Lia Botter ha accompagnato l’invio con un semplice commento a proposito dell’illustrazione inserita nel sito, che mostra una pagina di un dizionario veneto non precisato, con primo piano sul lemma lusèrtola. “A casa mia – ci scrive – non si dice lusèrtola, ma borétola! Ci sarà anche questa voce nel prossimo dizionario veneto? Chi e su che basi selezionerà? Partendo da quali raccolte?”. Il tono di Lia è quello di un invito a discutere. La redazione raccoglie, sperando che giungano altri commenti.
1. Nel sito del Corriere Veneto, Diego Bottacin spiega il suo consenso alla legge basandosi sul fatto, dato per ovvio e accettato, che i veneti sono una minoranza. Minoranza? Etnica? Linguistica? In ogni modo sarà solo e proprio questa legge, se verrà attuata, a fondare e legittimare l’esistenza di una minoranza etnico-linguistica veneta.
2. In un federalismo su base regionale, come quello che ormai si sta attuando, i veneti, cioè i cittadini residenti nel Veneto, nella propria regione sono una maggioranza. E allora che bisogno c’è di rivendicare lo status di minoranza? In che ambito dovrebbe esserlo? Non sarà questo un procedimento per non riconoscere le minoranze, linguistiche e religiose, che vivono nel Veneto?
3. Questa ambigua prospettiva – maggioranza o minoranza cambiano a seconda dell’ambito – ha già dato forma alle politiche culturali della Regione Veneto, e a molti studi di storia, almeno dalla fine degli anni Novanta. Si tratta dell’idea dell’esistenza di una minoranza etnico-culturale “paleoveneta”, che da un paio di millenni resiste alla “romanizzazione” e le cui virtù si sono trasmesse sino ai “Veneti di oggi”, col risultato di etnicizzare la società e di avvilire la storia locale. (Si veda nel resoconto della seduta del consiglio regionale indicato sopra, il discorso “in cimbro” del consigliere capogruppo dell’UDC, Stefano Valdegamberi).
4. Che cosa comporterebbe l’applicazione della legge, se approvata dal Parlamento di Roma? Ulteriore cartellonistica stradale a coprire il territorio? Bilinguismo negli uffici e negli atti ufficiali? Insegnamento obbligatorio nelle scuole? Traduttori simultanei e traduttori ufficiali nelle sedi istituzionali?
5. La tutela di una lingua significa normalizzarne grafia, lessico, grammatica eccetera: sennò che cosa insegni? Nel nome della salvaguardia della lingua di un popolo, s’impedisce al popolo di parlarla come crede. La scrittura vuole la rivincita sull’oralità. Nel nome dell’autonomia si costruisce uno Stato in piccolo. Il dialetto, che oggi ancora sopravvive o convive con le politiche e la scuola dello Stato italiano e con la tv, rischia di sparire grazie alle politiche che lo vogliono salvaguardare. Il dialetto non ha bisogno dell’Accademia della Crusca: si difende molto meglio da solo. La tutela delle minoranze sembra avere nostalgia dello Stato assoluto e della Lingua Ufficiale.
6. La buona lingua scritta vive nel rapporto stretto con la lingua parlata. Lo sanno bene i grandi autori che hanno scritto in dialetto e sul dialetto, e che non hanno mai sentito il bisogno di codificare maggioranze o minoranze: nel Veneto, Meneghello e Zanzotto, per fare i primi nomi. Ma pensiamo anche a Luciano Cecchinel, Biagio Marin o Romano Pascutto, e ancora a Gioacchino Belli e a Carlo Porta: per loro fortuna non dovevano rendere conto di come scrivevano agli insegnanti di dialetto pagati dalla Regione.
alessandro voltolina dice
No ve smaravegiè negun de vu, se a’ sentirì favellare d’una lengua, che no sea fiorentinesca;
perché a’ no he vogiù muar la mia laquella con neguna altra, ché a’ stemo così ben poerve
agorare sanitè, e dinari, e zuogia e legrezza con la mia lengua pavana grossa, con’ farà un altro
con una lengua moschetta sottile.
A’ favello an con la mia per no strafare la snaturalitè, ché ‘l no gh’è cosa, che piasa pi a detrique
sesso con’ fa el naturale, e, con’ l’è fuora del purpio, el no dà piasere; e mi, che a’ son vegnù per
darve piasere, se a’ no fosse vegnù col me indretto, a’ no ve ‘l porà dare. Donca conzève ben
tutti da stare artinti, finché a’ ve fago argomento: no miga de quigi che se fa a gi amalè, ché a’
no sfiorentinezo, a’ pavanezo, mi; e in lo me lenguazo «far argomento» ven a dire tanto, con’ serà «dar anemo, e impoare»; e adesso a’ ve ‘l farè.
Piovana, prologo.
un abbraccio a tutti, alessandro, “sletran”
Antonio Grinton dice
Devo dire che io sono sempre stato favorevole al riconoscimento della lingua veneta, e quindi tutto sommato trovo che questa legge sia giusta, ed anzi sia in ritardo su un dibattito che si è protratto, a mio modo di vedere, sin troppo a lungo.
Confesso però che questo intervento di Lia mi ha messo la pulce all’orecchio. In effetti non è irrilevante definire i criteri con cui verrà ufficializzata la lingua veneta. Personalmente, mi sorgono immediatamente una serie di perplessità: non vorrei che in questa operazione finisse per esserci lo zampino di qualche rovigotto, visto che si sa, quelli sono un po’ i terroni del veneto, sono mezzi ferraresi, e poi diciamocelo: Rovigo col resto del Veneto non ha mica tanto da spartire. Preoccupazione vana, direte voi, tanto è noto che comunque i rovigotti non contano niente. Ma chi è che conta più di tutti? I veneziani, ovviamente, con il loro ego spropositato, che anche se la Serenissima è finita da centinaia di anni, credono ancora di essere il faro della civiltà. Certo è che quando avrò un figlio, non vorrò che impari il dialetto dei veneziani. Non sanno neanche pronunciare la “r”, per carità. E poi si correrebbe il rischio di avere un dizionario pieno di sarde e moeche ma senza nemmeno una sopressa.
Ecco forse, una volta varata questa legge, andrebbero riconosciute anche le minoranze in seno alla regione Veneto. Io ci tengo alla mia specificità vicentina, e non voglio essere confuso coi trevigiani, che sono mezzi friulani, né tantomeno coi veronesi che sono tutti fascisti.
Forse sarebbe meglio allora che ogni provincia avesse la sua lingua veneta ufficiale. Un insegnamento di lingua vicentina sarebbe ottimo, così potremmo fare in modo che nelle prossime generazioni vengano inculcati saldamente i valori della nostra tradizione.
Basta, ovviamente, che non ci siano bassanesi nella commissione che ufficializzerà la grammatica del vicentino. E’ chiaro. I bassanesi, tronfi e benestanti come sono, non parlano dialetto, perché credono che sia una roba da contatini e da poareti. Cosa ne sanno loro di lingua veneta. Ed a pensarci bene, meglio anche tenere fuori gli asiaghesi: avete presente che inflessione hanno gli asiaghesi? E’ una roba da vergognarsi eh. Poi quelli sono convinti di essere cimbri, e vorrebbero passare sotto la provincia di Trento, quindi non sono dei veri vicentini.
Ecco, la lingua vicentina dovrebbe essere standardizzata da una commissione di maladensi: anche Meneghello era di Malo, e non è certo un caso. Ovviamente sarà necessario stare attentissimi, perché anche se i comuni sono confinanti, quelli di Isola sono dei rimbecilliti, quindi è opportuno che non ficchino il naso in faccende importanti come questa…
giulio todescan dice
Il centro della questione credo sia proprio il tema della «minoranza». Che i veneti – o meglio, in primo luogo i politici veneti – continuino a ritenersi minoranza svantaggiata nello stato italiano è forse un unicum storico in Italia, un’espressione di questo atteggiamento a mio avviso vittimistico si è avuta con la recente alluvione. Allora il risentimento (contro Roma, contro i meridionali) fu uno dei sentimenti preponderanti fra la popolazione. A caldo ho cercato di raccontarlo in un articolo che linko qui di seguito: http://www.vicenzapiu.com/leggi/vicenzapiu-n-202-brontolio-polentone
Tommaso dice
Salve,
lavoro a stretto contatto con un padroncino a cui ogni tanto piace dare sfoggio della sua veneticità insegnando i rudimenti del veneto ai miei colleghi (una rumena, una sarda, un albanese, due palermitani) lasciandomi veramente sconcertato. Mi accorgo così che innanzitutto è una persona che parla un dialetto un po’ strano: parla in italiano sostituendo alle parole italiane delle parole “venete” (che però a Treviso o a Vicenza pronuncerebbero in altro modo) vantandosi della propria appartenenza. Forse il problema è proprio questo: nessuna appartenenza, nessun riconoscimento, ricerca disperata di un’identità (meglio se calata dall’alto) che sia consensuale e ottenibile con minimo sforzo intellettuale. Così persone come il mio padroncino saranno contente di poter imparare a parlare un dialetto che non hanno mai praticato veramente e che in verità non conoscono per poter dire ai propri figli che quella è la lingua che parlava il padre, il padre del padre, ecc. fino ad arrivare all’assurdo: una Regione che si fa stato, un dialetto che si fa lingua ed un patrimonio culturale che va in frantumi sotto il peso di nuovi e più forti centralismi.