di Piero Brunello
Pubblichiamo il testo dell’intervento che Piero Brunello ha tenuto due anni fa, il 18 marzo 2019, presentando il suo libro Colpi di scena (2018) all’Avamposto, in Erbaria a Rialto. Ci auguriamo che ricordare in questo modo il 18 marzo nel 2021 sia di buon auspicio per la ripresa delle attività in presenza di storiAmestre; infatti sotto il segno del Quarantotto si sono svolte le ultime che l’associazione ha potuto organizzare, nell’ottobre 2020: due passeggiate a Venezia, per i luoghi degli avvenimenti del marzo 1848.
Oggi 18 marzo 2019 dirò due parole sul 18 marzo 1848 a Venezia, cogliendo a pretesto il libro Colpi di scena che l’Avamposto mi ha gentilmente proposto di presentare qui a Rialto. Ringrazio innanzitutto Francesco Zane, che vive qui a due passi e ha avuto l’idea, e l’Avamposto che ha accolto la proposta. Ringrazio poi le persone amiche che sono presenti. Le ringrazio in modo particolarmente caloroso per essersi mosse di casa sfidando il vento freddo che si è alzato nel pomeriggio e ancora continua.
Tra le facce amiche, vedo davanti a me Benny Arbel, amico di una vita, e così vorrei dedicare questo mio discorso a Hermann Jellinek, suo antenato materno, giornalista, scrittore, rivoluzionario, ebreo. Studiò a Praga; cacciato dalle università di Lipsia e di Berlino per la sua attività politica, nel marzo 1848 si trova a Vienna; condannato a morte per impiccagione dopo la riconquista della capitale a opera delle truppe del generale Windischgraetz, che imputava alla stampa radicale la responsabilità della rivoluzione, fu fucilato il 23 novembre 1848. Aveva ventisei anni.
Il ricordo di Hermann Jellinek e della rivoluzione di Vienna fa pensare, qui a Venezia, a come naufragarono in poco tempo nel Quarantotto le speranze sulla fratellanza dei popoli, e a come alla fine conflitti europei trovarono soluzioni nazionali. Ma stasera il mio tema è un altro, e riguarda una giornata che nessuno ricorda.
Il 18 marzo è una data sconosciuta a Venezia: c’è una calle XXII marzo, e a Mestre c’è una piazza XXVII ottobre, tutte e due date quarantottesche, ma del 18 marzo non c’è traccia nella toponomastica e nemmeno nei riti cittadini. Se c’è un giorno adatto per portare una corona con una cerimonia ufficiale alla tomba di Manin (all’esterno della basilica di San Marco, in piazzetta dei Leoni), ebbene quel giorno è il 22 marzo; se c’è da promuovere una manifestazione per chiedere l’indipendenza del Veneto, anche in questo caso una buona data è il 22 marzo, o in posa per i fotografi davanti alla statua di Tommaseo in Campo San Stefano o assistendo a una messa nella basilica di San Marco. Qualunque sia la posta in gioco, in città c’è un accordo unanime sul fatto che la data in cui riconoscersi o su cui accapigliarsi sia il 22 marzo.
Moneta d’argento di 5 lire della Repubblica Veneta, con la data “22 marzo 1848”
Al contrario il 18 marzo non è mai diventata una data simbolica. Non perché il 18 marzo 1848 non sia successo niente, ma perché fin da subito il ricordo di quella giornata venne cancellato e rimosso dalla memoria cittadina, per motivi che adesso dirò.
Che io sappia, il movimento operaio a Venezia non ha mai commemorato le giornate del marzo 1848, cioè la rivoluzione del Quarantotto e la Repubblica di Manin. Negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento le sezioni internazionaliste veneziane, rischiando il carcere, celebravano sì il 18 marzo, ma lo facevano in ricordo della Comune, come del resto fecero in quegli anni tutti i gruppi internazionalisti in Italia e in Europa. Nella notte tra il 17 e il 18 marzo si cercava di affiggere sui muri degli stampati in carattere color rosso con il bordo nero con la scritta a carattere stampatello “I MARTIRI IGNOTI DELLA COMUNE”, e il pomeriggio del 18 marzo le sparute sezioni internazionaliste invitavano uno studente a parlare.
Naturalmente molto dipende dalle tradizioni e dalle culture cittadine. A Milano, per esempio, dove non era possibile cancellare la memoria delle barricate, le commemorazioni del Quarantotto potevano essere contrapposte: da una parte la monarchia, per semplificare, e dall’altra la repubblica, il socialismo e l’anarchia. Non mi risulta che manifestazioni analoghe – in nome di un Quarantotto popolare contrapposto a uno borghese – siano avvenute a Venezia. Qui infatti la rivoluzione del Quarantotto non riuscì, nemmeno nella memoria, ad affrancarsi dal controllo che i notabili si assicurarono fin dall’inizio. Subito dopo la costituzione del governo provvisorio della Repubblica Veneta, il 22 marzo 1848, chi faceva parte del nuovo Governo o lo sosteneva si affrettò a dichiarare che quella veneziana non era una rivoluzione sociale, com’era avvenuta un mese prima a Parigi con la caduta di Luigi Filippo e la proclamazione della repubblica un mese prima, bensì una rivoluzione politica: quella francese, dicevano, era stata fatta dal popolo, mentre quella veneziana era opera di quella che chiamavano “classe intelligente” e che noi potremmo chiamare notabili (non solo borghesi, c’erano anche aristocratici).
Ma era proprio così? Per capire che cosa successe a Venezia il 18 marzo 1848, sarà necessario riepilogare sommariamente gli antefatti del giorno prima.
La mattina del 17 marzo un gruppo di amici di Manin e di Tommaseo si erano dati appuntamento sotto le finestre del carcere della Paglia, che dipendevano dal Tribunale. Erano tutti notabili e si conoscevano, spesso erano vicini di casa, abitavano nei quartieri centrali della città, e alcuni di loro avevano un palazzo in Canal Grande: erano soci dell’Ateneo Veneto, frequentavano il Gabinetto di lettura che si trovava in piazza San Marco sotto l’Ala napoleonica, si vedevano alla Fenice, al caffè Florian, alla libreria Santini, nello studio di Manin o negli uffici delle Assicurazioni Generali nelle Procuratie Vecchie.
Di qui nacquero quegli episodi che portarono all’abbattimento della cancellata (di legno) che chiudeva il portico delle carceri e alla liberazione dei due detenuti, e contro cui le guardie di polizia non intervennero.
Subito dopo, nel primo pomeriggio, ci fu un assembramento davanti alle carceri di San Severo, che non dipendevano dal Tribunale, ma dalla Polizia. Questo significa che a San Severo si finiva dentro per ubriachezza, questua, ozio, vagabondaggio, liti con le guardie, soprattutto se si era antipatici alla famiglia, al vicinato, al parroco, a un funzionario di polizia o al capocontrada (ce n’erano più d’uno per sestiere, anch’essi incaricati di mantenere l’ordine).
Quel pomeriggio del 17 marzo una folla assaltò dunque le carceri di San Severo e fece a pezzi e buttò in canale tutto quello che trovò nell’ufficio del piano terra; guardie intervennero con le armi, senza peraltro che ci fossero vittime. Alla fine furono liberati tre prigionieri, rinchiusi anch’essi per motivi politici (due padovani accusati di aver sostenuto la protesta studentesca, e un giovane veneziano finito dentro per scritti patriottici).
Vittore Gradenigo, vicedirettore di polizia, ha lasciato delle memorie di questi giorni. Ora, quando parla della manifestazione per ottenere la liberazione di Manin e di Tommaseo, Gradenigo parla di “popolo” e di “capipopolo” (riferendosi in particolare il notaio Giuriati); mentre quando parla della folla che diede l’assalto alle carceri di San Severo, parla di “plebe”, “ciurmaglia”, “gentaglia”, “plebaglia”, “mascalzoni”, “ribaldi”, “energumeni”. Sono questi ultimi i protagonisti della giornata del 18 marzo, di cui ora dirò.
Il 18 marzo un gruppo di popolani – giovani perlopiù – occuparono il centro di piazza San Marco, giusto davanti a una fila di soldati con fucili e baionetta disposta lungo le Procuratie nuove a difesa della sede del governo. Alle spalle dei soldati stavano i giovanotti che frequentavano abitualmente il caffe Florian e che avrebbero scritte le cronache della giornata: osservando la scena da sotto le Procuratie, commentavano quanto fosse imprudente stare nel mezzo della piazza sotto il tiro dei fucili e senza armi.
Sembrava una giornata di festa, perché dalla piazza si alzavano gli evviva alla Costituzione, finché le grida di evviva improvvisamente divennero “Abbasso il governo!”. Piccole zuffe con i soldati, sassate (con masegni disselciati e fatti a pezzi), e infine almeno due scariche di fucile. Alla seconda, la folla scappò. Sul selciato rimasero quattro morti e otto persone in fin di vita; altre otto rimasero ferite. Nei giorni seguenti cinque dei feriti morirono. Le vittime, tranne un negoziante, erano tutti popolani, perlopiù giovani e giovanissimi.
Coraggio dimostrato dai Veneziani pella libertà, e prime vittime del 18 Marzo 1848, Editore M. Fontana, in Raccolta Giordani-Soika, riprodotta in
Adolfo Bernardello, Piero Brunello, Paul Ginsborg, Venezia 1848-49. La rivoluzione e la difesa,
Comune di Venezia-Assessorato agli Affari Istituzionali, Venezia 1979, p. 18 (particolare)
La sera stessa del 18 marzo si sparse la voce che le vittime fossero soltanto un uomo e tre ragazzi: pochissime, si disse, visto che sul selciato furono contate trecento pallottole. Miracolo! Miracolo della Madonna! Mancavano pochi giorni alla festa dell’Annunciazione, detta anche della Madonna di Marzo.
La voce del miracolo, ricordando una strage mancata, rimuoveva la morte dei popolani uccisi in piazza San Marco, attribuendo ai notabili il merito della rivoluzione. I famigliari degli uccisi ricevettero privatamente dei sussidi dal governo, ma nessuna cerimonia ufficiale si tenne in loro ricordo. Il funerale delle vittime avvenne all’obitorio di San Giovanni e Paolo la mattina del 22 marzo, proprio mentre i tumulti all’Arsenale e l’ammutinamento di ufficiali e soldati costrinsero le autorità austriache alla resa. E le prime parole del nuovo governo, nell’annunciare l’evento furono: “La vittoria è nostra e senza sangue”.
Ecco perché da allora a Venezia il giorno per commemorazioni e contronarrazioni è il 22 marzo; per il 18 marzo invece nessun ricordo.