Lunedì 20 maggio, alle ore 18, presso l’Ateneo Veneto a Venezia, si terrà la presentazione del sedicesimo Quaderno di storiAmestre: Alain, Appunti per la vita. Propos. Un discorso agli studenti. Definizioni, a cura di Giacomo Corazzol, introduzione di Patrizia Iezzi (2018). Insieme al curatore, ne discuteranno Patrizia Iezzi e Giovanni Levi. L’appuntamento è organizzato da storiAmestre in collaborazione con la libreria Cafoscarina di Venezia.
Per l’occasione, Giacomo Corazzol ha tradotto un “autoritratto” che Alain scrisse nel 1946 a mo’ di introduzione a un’antologia della sua opera.
Avant-propos, di Alain
Passo per eretico e me ne rallegro. Significa dunque che ho saputo dare un’aria di novità a idee vecchissime. Dico davvero, credo che nei miei scritti non si trovi quasi nessuna idea che non sia vecchia come il mondo degli uomini. Dico “quasi nessuna” perché può essere che io abbia lasciato passare qualche idea nuova, ma qualora se ne trovi una, la disconosco qui solennemente.
Non mi sono proposto altra cosa se non di sapere che cosa dicevo quando parlavo come tutti, badando bene, nel farlo, di pensare come tutti, cioè come penserebbero se si mettessero a pensare. Perché diciamo tante cose che non pensiamo, e ognuno di noi è da quelle che inizia. Dico “cattivo” come lo dicono tutti; non penso affatto captivus, cioè “prigioniero”. E tuttavia devo pensarlo; significa spiegare agli altri quello che mi dicono. Ho dunque unito senza nessuna fatica il compito di pensare e la cura di scrivere e ho insegnato le due cose assieme con un successo che spiego così: che ho abolito di buon’ora due idee rovinose: l’idea di pensiero originale e quella di stile originale. Le idee di tutti nel linguaggio di tutti, ecco che cosa ho cercato. Eppure, alla mia bell’età, faccio ancora delle scoperte. Non molto tempo fa riflettevo sul doppio significato della parola Mondo. Da questo punto di vista devo molto a Auguste Comte, al quale rinvierò sempre, per tutti i problemi umani e per tutti i problemi cosmici.
Ciò non significa che io ami molto quest’autore. Ci trovo un tono un po’ più di serietà di quanta vorrei trovarcene, troppo poco slancio, troppo poco rischio. Sono molto più portato a fare schizzi e a finire lo schizzo, il che comporta quasi sempre di scrivere prima di sapere. In questo assomiglio un po’ al poeta, che mi sembra il maestro di pensiero per eccellenza. Tanto nella prosa quanto nella poesia esiste un movimento umanamente giusto di cui bisogna saper approfittare; e lasciare andare la frase spesso come un proiettile. Quello che dico di una frase vale anche per un propos, un capitolo, un libro intero, per tutti i miei scritti considerati nel loro insieme. In ogni cosa bisogna cominciare finendo. Non appena abbia un po’ toccato le idee, qualsiasi lettore segue benissimo questo gioco. E chi non tocca le idee? Ammetto di ignorare del tutto dove siano i miei lettori migliori. Ne conosco alcuni di bravi, ma, a dirla tutta, sono ben lontani dal raggiungere il centinaio. Bisogna dunque supporre che esista un gran numero di sconosciuti preparatissimi a un tipo di spirito allo stesso tempo capriccioso, audace e stringato, che non ha mai cercato le cose facili. Quanto ai refrattari, tra i miei conoscenti ne ho trovati molti, e anche all’interno dell’università, dove però ho fatto una carriera onorevole. Più di un’eminenza ha ritenuto, secondo la scherzosa espressione di Painlevé, che non rispettavo la muraglia cinese. Vero è che ho sempre creduto e credo tuttora che i pensieri che sono salutari per me siano salutari per tutti. Questa maniera di gettare le idee ancora crude è una specie di scortesia nei confronti del lettore, me ne rendo ben conto.
Quello che scrivo qui riguarda soprattutto i Propos. È tramite questi articoletti che ho raggiunto per la prima volta il pubblico. Coloro che si interessano di biografie spirituali noteranno come, per cominciare, il mestiere di professore di filosofia sia passato nei saggi del giornalista e vi abbia conferito del peso; e come, successivamente, la leggerezza e i tratti propri del mestiere di giornalista abbiano alleggerito i libri di dottrina e ne abbiano fatto davvero dei libri. I miei primi saggi di filosofo erano astratti, difficili, spesso noiosi e non facevano nessun passo avanti quanto alla conoscenza di se stessi. Non ne terrò nessun conto nella presente raccolta.
Basterà ora che dica brevemente di dove sono. Sono un borsista, di piccolissima borghesia, dotato per le scienze come per le materie letterarie, e assai pigro. L’università mi accolse bene, favorevole al talento piuttosto che al sapere. Di fatto fui un buon professore e, verso la fine, ritenuto brillante; sempre considerato poco rispettoso, ma molto preciso. Gli anni di lavoro furono interrotti soltanto dalla guerra1, che feci a quarantasette anni nell’artiglieria e che terminai col grado di brigadiere. Questa esperienza ha lasciato grandi tracce in me; è vero però anche che essa non ha cambiato molto lo sviluppo delle mie idee; ne ha solo confermato alcune. Personalmente ho accettato senza fatica la disciplina, che del resto i miei capi hanno sempre mitigato per quanto mi riguardava. Lo spettacolo della schiavitù e di un’ineguaglianza ancora marcata da un umore feroce, però, mi colpi ancor più di quello dei morti, delle miserie e delle rovine. Ho sempre pensato che il mestiere di capo sia pericoloso per il capo; ho sempre pensato che la nostra civiltà sia una cosa preziosa e deperibile, che bisogna rifare istante dopo istante. Ciò è a dire che non ammiro molto il progresso. In ogni epoca, credo, un uomo come Socrate, Epitteto, Montaigne, Cartesio, ha formato attorno a sé, senza volerlo, una specie di piccola città in cui la forza e il denaro contavano meno della saggezza e della giustizia. Sul loro esempio e secondo i nostri mezzi, attualmente, in questo paese, noi che formiamo e conserviamo dei centri di umanità siamo numerosi quanto mai prima. L’esperienza però ci mostra come questi elementi di società reale siano agevolmente spazzati via dalle guerre e dai mutamenti politici. Ai quali ho resistito stando lì dov’ero, sempre con un confortante successo; ci sono molti più uomini veramente uomini di quanto si creda. A tutti consiglio la stessa politica corta e ostinata. Ripongo più speranza in una maniera energica di pensare le dottrine che nelle dottrine stesse; del resto, anche a partire da questi Morceaux choisis [Brani scelti] si saprà come la penso. Non ho assolutamente nascosto le mie fonti; si vedranno comparire e ricomparire Platone, Cartesio, Spinoza, Kant, Hegel, Comte, per citare solo i principali; forse li ho resi più accessibili; di certo non ho rifuggito le difficoltà. La mia sola pretesa è di essermi nutrito dai grandi uomini, cercando sempre di innalzarmi fino a loro piuttosto che di abbassarli al mio livello. Il movimento che si compie ammirando è, secondo me, la luce dello spirito. Ho voluto trasmettere ad altri questo bel segreto, perché mi è parso che la critica rovinasse gli studi superiori, motivo per cui non ho trovato molto da lodare nei miei contemporanei. Che speranza volete riporre in un uomo che, leggendomi, dica a se stesso: “Mi risulta ci siano già trentaquattro interpretazioni di Platone; ecco la trentacinquesima, a meno che non riesca a ricondurla a una delle precedenti trentaquattro”. I sedicenti maestri che ho conosciuto sono fatti così. Escludo Jules Lagneau, che mi ha iniziato ai filosofi e che, del resto, benché poco conosciuto, non è rimasto ignorato, il che lascerebbe credere che i nostri sorbonardi, in fondo, siano dei buoni diavoli.
Ecco da dove vengo quanto allo spirito. Occorre solo che ai filosofi io aggiunga i romanzieri. Fui sempre un forte lettore, anche quando avevo poca scelta, e divertendomi con Dumas padre. Ho dato un posto particolare a Balzac, Stendhal, Hugo e Tolstoj, che furono per me una miniera di idee. La società in Balzac, l’onore in Stendhal, l’uguaglianza in Hugo, la carità in Tolstoj, le passioni in tutti. Devo citare anche il Wilhelm Meister di Goethe, che ho riletto senza stancarmi; ammetto però che per me fu un libro di studio più che un libro di piacere; ne presi, come dal Faust, una certa maniera di allontanare da sé ciò che interessa troppo. Questa specie di freddo mi è assai necessaria, perché ammetto che per natura piango facilmente e mi irrito pure. Non mi piacerebbe che si trovasse dell’enfasi o del patetico nelle mie opere. Per finire con le mie letture, dirò ancora che ho letto e riletto Dickens, innanzitutto per il piacere, che non si è mai affievolito; e che però non fu senza profitto. Le passioni vi sono descritte con tratti enormi che sulle prime rassicurano con la comicità; con questo sono però giusti e tragici; ma il tragico non è che la seconda impressione; quando è il tragico a colpire per primo, non istruisce.
Da dove vengo materialmente? Dall’antica provincia del Perche, ma sono un misto di Perche e di Maine. La mia forma è quella di un abitante del Perche. Se viaggiate da Nogent-le-Rotrou a Argentan, incontrerete il mio ritratto cento volte. Questi uomini sono allevatori di cavalli e realisti per natura; in loro sussistono ancora le passioni degli Chouans; anche se sospetto che in loro il realismo sia una forma di opposizione a qualsiasi governo. Sono cresciuto tra di loro occupandomi di cavalli, caccia e raccolti. Per il resto fui borsista ed ebbi tutti i premi senza lavorare molto. Fui normalista e passai l’agrégation; dopodiché, professore; niente di più comune; il ribelle e il selvaggio hanno solo preso l’abito2. Il fondo dello spirito è rimasto cattivo, vale a dire buono. Ancor oggi il movimento mediante il quale penso è quello del cavallo che rifiuta la briglia. Non so perché lo dico: si vede.
Non credo tuttavia che mi si giudicherà rivoluzionario. Attraverso la lettura di Comte (senza contare Platone) sono stato formato all’idea che esiste una statica sociale, ossia delle condizioni permanenti che risultano dalla struttura umana e che non cambieranno mai molto. Tuttavia, pur all’interno di questi stretti limiti, vedo che si possono imprimere nei costumi e nelle istituzioni dei cambiamenti piccoli e sufficienti. Per esempio, non c’è una gran differenza tra gli uomini in guerra e gli uomini in pace; non più grande di quella che esiste tra collera e riso, che non alterano molto la natura media; motivo per cui questi cambiamenti, importanti quanto agli effetti, dipendono da piccole cause. Si può dunque sperare molto, senza mai smettere di temere un po’; vale per gli altri quello che vale per noi; nessuno è al riparo da quel genere di guai che si direbbe cercato. Ma saperlo è una gran cosa. Significa dire che amo gli uomini e non conosco nemici. L’umore però è vivo; ma che cos’è l’umore quando lo spirito è pronto a riderne?
Accostatevi ora alle mie idee; non hanno nulla che possa spaventare, fuorché il fatto che ciò che esige o produce un cambiamento senza indugio a volte spaventa ben più della promessa di una riforma che, per maturare, abbia bisogno di cinquant’anni. Suppongo che vi troverete dappertutto una sorta di bruschezza, un disprezzo per le preparazioni e, in fin dei conti, un dogmatismo che cammina di pari passo col dubbio e che cammina veloce, nonostante un’apparenza di lentezza e noncuranza. Ecco perché non chiedo nessuna fiducia, ma piuttosto diffidenza. Non sono privo di amici che sono avversari; è una cosa che scopro a volte per caso. Sta a loro vedere se siamo separati da altra cosa che non sia un decreto o un giuramento. È dunque una dottrina ben nascosta quella che scopre un partito preso nei pensieri più imparziali.
20 ottobre 1946
Tratto da Alain, Morceaux choisis, textes établis par M. Savin et A. Laffay, Gallimard, Paris 1946, pp. 9-17, traduzione di Giacomo Corazzol.