di redazione sito sAm
Qualche giorno fa, la stampa nazionale ha dato notizia della condanna di Roberta Chiroli da parte del Tribunale di Torino per “concorso morale” in azioni compiute dal movimento No Tav nel corso di una manifestazione avvenuta il pomeriggio del 14 giugno 2013. Roberta Chiroli, all’epoca laureanda in antropologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, stava seguendo assieme a una dottoranda dell’Università della Calabria la protesta di un gruppo di liceali contro le ditte impegnate nei lavori della Torino-Lione, per raccogliere materiale e dati ai fini della sua tesi (poi discussa nell’anno accademico 2013-14 con il titolo Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità). La dottoranda è stata assolta, mentre Roberta Chiroli è stata condannata a due mesi di reclusione con la condizionale per “concorso morale in violenza aggravata e occupazione di terreni”.
Secondo le fonti di stampa, basate su dichiarazioni dell’avvocato difensore, il giudice avrebbe accolto la tesi della requisitoria del P.M. secondo cui prova de “la partecipazione materiale o almeno un contributo morale” della studentessa era il “noi partecipativo” da lei usato nel descrivere l’evento. Cercando nel catalogo di ateneo (sezione tesi di laurea), il lavoro di Roberta Chiroli risulta non consultabile (la scelta è a discrezione dell’autore e con le tesi è prassi usuale non lasciarle in libera consultazione). I giornali non dicono come una copia della tesi sia arrivata tra gli atti del processo.
La redazione del sito di storiAmestre – che al pari dell’associazione crede nell’importanza della ricerca, della ricerca partecipante, della storia orale, del reportage e della cronaca – manifesta tutta la propria solidarietà a Roberta Chiroli, esprime incredulità di fronte al fatto che un evidente, esplicito e dichiarato resoconto etnografico possa essere oggetto di rilevanza penale, e grande preoccupazione dinnanzi agli attacchi e alle intimidazioni, a diversi livelli, contro la libertà di ricerca e di espressione. Molte volte sul nostro sito abbiamo pubblicato resoconti di manifestazioni, di proteste, di azioni dirette anche contro le politiche dissennate di distruzione del territorio come la Tav, e continueremo a farlo. Cogliamo questa occasione per riprendere nel sito ampi brani da due paragrafi del Quaderno n. 10 di storiAmestre, che Guido Lanaro ha ricavato dalla sua tesi di laurea in antropologia basata sull’osservazione partecipante. Il primo presenta il carattere delle manifestazioni (partecipanti, colori, slogan, paesaggio sonoro), il secondo documenta lo svolgersi di azioni dirette “concepite con lo scopo di opporsi fisicamente ai lavori” e le discussioni che le accompagnarono.
Il popolo delle pignatte, di Guido Lanaro
Alle manifestazioni No Dal Molin c’è gente di tutti i tipi. Non sono monopolizzate dai giovani, come nello stereotipo dei cortei no global, né da operai, come nella tradizione sindacale. Ci sono invece intere famiglie, bimbi, passeggini e carrozzine, nonni e nonne (più numerosi, a dire il vero, dei loro nipoti). I ragazzi dei centri sociali, i no global, i disobbedienti, gli anarchici ci sono, ma per trovarli bisogna andare apposta a cercarli, mescolati in mezzo alla gente, e anche loro spesso sono in compagnia di genitori e familiari. Alle manifestazioni non si esibiscono distinzioni politiche né rivendicazioni identitarie: si manifesta tutti uniti, tutti insieme, senza distinguo, contro il Dal Molin. Non ci sono spezzoni, né cordoni, e soprattutto non ci sono bandiere al di fuori di quelle “No Dal Molin” e di qualche arcobaleno della pace: fin dalle prime iniziative sono state bandite tutte le altre bandiere1, sia quelle dei partiti, sia quelle dei sindacati. Quello che non scarseggia sono invece i cartelli: se ne vedono talmente tanti che a volte sembra quasi che ogni manifestante se ne sia portato uno.
Le frasi e gli slogan scritti su cartelli, striscioni e tazebao, meriterebbero una raccolta sistematica, poiché sono un’espressione diretta e autentica dei sentimenti della cittadinanza e del linguaggio del movimento vicentino, nuovo e diverso rispetto a quelli utilizzati storicamente dai movimenti di lotta. Vanno per la maggiore insulti e sberleffi ai danni dei politici colpevoli (ovvero praticamente tutti, compresi quelli della sinistra radicale talvolta presenti alla stesse iniziative), ma sono numerosi anche quelli diretti all’alleato americano. Ce n’è qualcuno dal tono pacato e garbato; molti di più sono quelli graffianti e coloriti; alcuni sono volgari.
L’ampio uso del dialetto, soprattutto in chiave ironica o sarcastica, rivela il bisogno di rivalsa e di riappropriazione delle proprie origini e della propria terra, in contrapposizione alla rapina e all’espropriazione.
Anche l’inglese è molto usato, e non solo nei messaggi diretti ai soldati americani: si ironizza spesso e volentieri su scenari futuribili che vedono Vicenza diventare colonia berica degli Stati Uniti, con una conseguente deformazione e creolizzazione della toponomastica (nomi delle strade e delle località “inglesizzati”, patrioti italiani sostituiti dagli equivalenti a stelle e strisce).
Gli slogan che meriterebbero di essere citati sono decine e decine (alcuni si possono apprezzare nelle foto inserite a corredo del testo), ma ne scelgo uno tra tutti, quello che più mi ha colpito nel corso di anni di manifestazioni, avvistato durante l’enorme corteo del 17 febbraio 2007. Diretto ai paracadutisti da ospitare nella nuova base, il cartello recitava: “Aviotrasporteve a casa vostra”.
La diversità del linguaggio utilizzato dalla lotta vicentina traspare anche dai cori, o meglio dall’assenza di cori. Il repertorio dei presidianti non ha praticamente nulla in comune con quello dei cortei no global, o delle curve degli stadi, somiglia molto di più a un canzoniere popolare.
Non si sentono slogan, piuttosto conti alla rovescia che danno il via a pentolate furiose. Accanto al suono delle pentole, quello che va per la maggiore sono le canzoni No Dal Molin: brani musicali tratti dal repertorio popolare riadattati per l’occasione dalle donne del presidio, con nuovi testi ispirati alla lotta contro la base militare. Alcune canzoni sono in italiano, molte in dialetto: parlano di terra, di libertà, ma soprattutto si fanno beffe dei personaggi politici coinvolti nella vicenda. Va per la maggiore “E qui comando io”, il cui ritornello rimane invariato, mentre le strofe vengono continuamente aggiornate a seconda del bersaglio da colpire: si va da “quelle bombette che tu vuoi sganciar, caro bushetto noi non le vogliam”, indirizzata all’ex presidente degli Stati Uniti, a “o Carta Isnardo che sporco lavor, porti disgrazie miseria e dolor”, il cui destinatario è l’impresario responsabile dei cantieri all’interno del Dal Molin.
Certe canzoni hanno un sapore malinconico, ma la maggior parte si contraddistingue per l’ironia nei confronti degli americani e dei responsabili politici. Alcuni testi sono abbastanza raffazzonati e cuciti in malomodo addosso a melodie non loro, altri invece sono degli autentici capolavori. Memorabile il crescendo di “Forse riva i mericani”, versione della popolare “Osteria numero…” rivista dal comitato No Dal Molin dell’altopiano di Asiago, che si conclude in un solenne “i vol farla da paróni, i vada fòra dai cojoni, dighe de no Vicensa dighe no Dal Molin”.
I servizi d’ordine non esistono se non in qualche rara occasione, in pratica per i cortei più importanti quando confluiscono a Vicenza persone da tutta Italia: qualche presidiante, con tanto di casacca fosforescente da cantiere, offre indicazioni e informazioni ai manifestanti, vende merchandising, o raccoglie sottoscrizioni. Discrezione, questa è la parola d’ordine di chi si occupa di prevenire eventuali comportamenti fuori luogo o eventuali incidenti2.
La caratteristica più rilevante di quasi tutte le iniziative pubbliche è il rumore. Il ritmo incalzante e incessante di pentole, fischietti e tamburi è la colonna sonora della vita dei vicentini e delle vicentine che si oppongono alla nuova base. L’enorme e inarrestabile cacerolazo del 26 ottobre 2007 colpisce l’immaginario della città, caricandosi di significati rituali e simbolici fino a diventare un elemento costitutivo e identitario del movimento No Dal Molin.
Si tratta di un fenomeno incredibilmente denso, in qualche modo prossimo a quello che Mauss avrebbe definito “fatto sociale totale”3: vi trovano espressione, intrecciandosi, molte delle ragioni che stanno alla base della coesione, della tenacia e dell’orgoglio che contraddistinguono la protesta vicentina. In effetti più che di cacerolazo sarebbe forse opportuno parlare di charivari, le scampanate con cui nei secoli scorsi si usava censurare, con vena satirica, comportamenti moralmente discutibili dei propri compaesani4.
Sta di fatto che nel corso dell’assemblea di Villa Lattes, nell’ottobre del 2007, a proporre di portarsi dietro pentole e fischietti per contestare il consiglio comunale fu Guglielmo, sposato con una donna argentina pratica più di cacerolazi sudamericani che di tumulti contro notabili usurpatori di terre comunali, capaci di disturbare il sonno dei potenti veneti nei secoli scorsi5.
Non c’è nulla di magico, né di religioso, né di mitologico negli charivari dei No Dal Molin. Non si tratta di riti di esorcismo: i vicentini non hanno alcuna impurità o negatività da espellere, necessitano piuttosto di una qualche riconciliazione con se stessi, con la propria terra, con la propria gente. Il significato principale di queste azioni è una sanzione morale, una denuncia rumorosa al punto da imporsi alle orecchie dei potenti. Ma al tempo stesso rumorosa al punto da scuotere la calma e la tranquillità delle notti vicentine6, e turbare la pace e il sonno di quanti hanno deciso di ignorare, più o meno consapevolmente, la sciagura che si sta per abbattere sulla città. Una rumorosità che esprime la forte contrapposizione nei confronti, oltre che dell’autorità, anche dei mezzi di informazione, responsabili di aver imbavagliato la voce dei cittadini, per condannarli al silenzio e confinarli ai margini del dibattito politico.
Partecipare a una spignattata contro il Dal Molin è un’esperienza straordinaria, emozionante e coinvolgente. Pentole e fischietti vanno per la maggiore, spunta qualche ràcola, i musicisti smontano casse e rullanti dalle proprie batterie, moltissimi improvvisano strumenti di fortuna, dando prova di doti creative e artigianali insospettabili. Bidoni montati sui carrelli della spesa, sirene da fabbrica alimentate da batterie per automobili o addirittura da bombole di ossigeno per subacquei, fino ad arrivare a veri e propri organetti costruiti con le trombette da stadio: c’è una tale varietà di strumenti che si rischia di distrarsi e di non cogliere quello che invece è l’aspetto più affascinante della performance. Lo coglie Ersilia, quando nel documentario Il Popolo delle Pentole racconta le sensazioni provate durante le spignattate: “Siccome c’è anche un grande rumore, non è che ti parli, quindi tu sei lì con tutto te stesso che fai questa cosa, io sono lì anche col mio pensiero, sono lì per un motivo”.
In effetti tutti si aggirano, sbattendo e fischiando, alla ricerca di volti noti, di familiari, di amici, di conoscenti, ma quasi nessuno si parla; ci si limita a scambiarsi sguardi d’intesa e di complicità, si stringe una specie di patto, di coalizzazione. È un modo di riconoscersi parte di una comunità, di riappropriarsi del proprio ruolo all’interno di un tutto che nell’atto di percuotere le pentole esprime il bisogno di ricostruire un legame con il proprio territorio e con i propri vicini, formulando al contempo una specie di codice etico comune e condiviso in grado di esprimere l’estraneità e il danno prodotto da chi è colpevole di averlo violato.
Ersilia continua a raccontare, questa volta assieme a Licia, e svela quello che è un altro aspetto cruciale degli charivari vicentini.
Licia: “Può essere una specie di trance, alla fine…”
Ersilia: “Ti perdi dentro in questa cosa che però sei tu e sei tutti”
Licia: “È un ritmo, che si crea collettivamente”
Ersilia: “Si, si crea anche un ritmo che viene fuori da solo”
Scavando in profondità, fino a scoprire la natura più intima e profonda delle scampanate dei presidianti, più che alle battarelle il pensiero corre alle danze sfrenate delle tarantate salentine. Viene da chiedersi dove i vicentini trovino le energie per rumoreggiare ininterrottamente per ore e ore, spesso dopo lunghe giornate di studio o di lavoro. La risposta sta nel fatto che le spignattate si nutrono dei sentimenti dei propri animatori, della rabbia di una popolazione che nessun governante vuole ascoltare, della frustrazione che si prova nel sentirsi espropriati delle proprie case, e retrocessi, o meglio degradati, dallo status di cittadini a quello di sudditi.
La nuova base militare investe il lato emotivo delle persone, spesso in modo violento e drammatico. Un dramma che cerca una forma di elaborazione e di risoluzione nelle spignattate, la cui funzione terapeutica si esprime nella dimensione coreutica e orchestrale7. È la stessa dimensione che sta alla base del successo, riscosso negli ultimi anni, dai fenomeni di revival di musiche e balli legati alle tradizioni salentine e del sud Italia in genere, a cui è stato attribuito il nome di neotarantismo8. Inutile sottolineare che la funzione sociale degli elementi ritmici e coreutici di questi revival è diversa da quella che animava il fenomeno studiato da De Martino, anche se raramente chi partecipa a feste e concerti è al corrente delle tradizioni da cui queste performance traggono ispirazione, né tanto meno del loro corredo simbolico. Tuttavia è innegabile l’efficacia di queste situazioni in quanto momenti di sfogo e di liberazione, attraverso il movimento e attraverso una specie di trance indotta dal ritmo della musica, ed è altrettanto innegabile l’effetto aggregante e coalizzante insito nella riscoperta e nella rielaborazione di tradizioni che diventano dei marcatori d’identità. Le spignattate di Vicenza, dunque, al pari delle pizziche e delle tammurriate delle feste salentine, fanno da colonna sonora al manifestarsi di un bisogno semi-cosciente di recuperare tradizioni popolari andate perdute, e soprattutto di restaurare quei legami di comunità e di identità di cui quelle tradizioni erano espressione.
Dalle pentolate a un Altrocomune
Abbandonando l’orizzonte simbolico per spostarsi su piani più concreti, le pentolate giocano un ruolo importante anche nella risoluzione dei rapporti di forza. La loro capacità di aggregare e unire le persone, assieme a quella di mantenere viva la partecipazione della gente per periodi prolungati di tempo, concorre a farne un vero e proprio “classico” all’interno del repertorio di iniziative messe in campo dal movimento No Dal Molin. Alle pentolate si ricorre nei momenti di difficoltà, quando è importante chiamare a raccolta il maggior numero di persone possibile. In tutta la prima fase della lotta contro la nuova base, fatta eccezione per le enormi manifestazioni del febbraio e del dicembre 2007, esse sono decisamente preponderanti rispetto a qualsiasi altro tipo di protesta: si spignatta contro il sindaco, contro il prefetto, contro politici locali e non, contro la console americana in visita in città, e spesso contro la caserma Ederle.
L’aggravarsi della situazione e il procedere dell’iter per l’avvio dei cantieri costringono però il movimento a rimettere in moto la creatività, e l’era gloriosa delle pignatte lascia il campo, almeno in parte, ad altri tipi di azioni, concepite con lo scopo di opporsi fisicamente all’inizio dei lavori piuttosto che a dimostrare l’ampiezza e la determinazione dell’opposizione alla nuova base.
Del resto, il tempo della testimonianza sembra essere giunto al termine, visto che né le migliaia di persone che hanno partecipato alle grandi manifestazioni, né coraggiose iniziative personali, come lo sciopero della fame di Danilo9, sono riuscite a rimettere in discussione il progetto della base.
Il diverso carattere delle iniziative provoca un calo talvolta drastico della partecipazione della gente, a causa sia delle responsabilità che è necessario assumersi, sia dei rischi a esse connessi, sia della riservatezza che alcune azioni, per poter avere successo, richiedono.
In questa nuova fase hanno luogo all’interno del presidio delle discussioni molto interessanti sui rapporti e i confini tra legalità e legittimità. Se la disobbedienza civile appartiene storicamente al repertorio di pacifisti e disobbedienti, per molti cittadini che vivono al presidio la loro prima esperienza politica e di movimento, si tratta di una novità che necessita di essere compresa e assimilata prima di poter essere messa in pratica.
Del resto non si tratta di un passaggio irrilevante: è un movimento d’opinione che si accinge a diventare qualcosa di più complesso e articolato, e che si appresta a mettere in campo azioni dirette con cui intervenire in prima persona sulla costruzione della base. C’è un elemento comune tra queste azioni: sono illegali, violano il codice civile se non addirittura quello penale. Un aspetto secondario per chi, come i ragazzi dei centri sociali o gli attivisti di Greenpeace, è già stato colpito più e più volte da provvedimenti repressivi e giudiziari di vario tipo; ma prioritario per molti cittadini che mai e poi mai si sarebbero sognati di violare deliberatamente la legge, per di più rivendicando in pubblico il proprio operato.
In realtà, al contrario di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, questo aspetto non suscita problematiche troppo rilevanti. Ci si sofferma più che altro sul valore strategico delle azioni, sulla fattibilità pratica, su eventuali rischi rispetto all’incolumità delle persone, sulle possibili reazioni delle forze dell’ordine. Certo, molti non nascondono una certa preoccupazione per la possibilità di essere segnalati, denunciati, magari addirittura fermati e condotti in questura per le procedure di identificazione, ma la decisione di rendersi disponibili a compiere azioni illegali sembra essere presa quasi a cuor leggero. La realtà è che la fiducia dei cittadini nel sistema amministrativo e in quello giudiziario è uscita a pezzi dalla vicenda del Dal Molin. Le irregolarità che hanno contraddistinto l’iter del progetto sin dalla sua genesi sono tali e tante che meriterebbero uno studio a sé stante10. È nel tracollo del ruolo delle istituzioni, e di fatto, dello Stato, che va individuato il motivo della tranquillità con cui persone qualsiasi decidono deliberatamente di violare la legge.
D’altronde, se pur di costruire la nuova base militare le autorità per prime hanno messo in disparte la legalità, allora viene a mancare ai cittadini un valido motivo per continuare a rispettarla.
La legittimità si sostituisce dunque alla legalità, in una transizione che sposta il criterio di giudizio sottraendolo alle istituzioni e mettendolo nelle mani dei cittadini stessi, che diventano unici giudici delle proprie azioni. In un certo senso, le coscienze si sostituiscono alle leggi, la cui obsolescenza continua a manifestarsi incessantemente e violentemente negli obbrobri burocratici, amministrativi e giudiziari che costellano, in modo purtroppo grottesco, l’avanzamento del progetto Dal Molin.
È pur vero che qualcuno continua a essere titubante, ma se ai tribunali si può sperare di sfuggire, fare i conti con la propria coscienza è ben più difficile. Per altri invece, finire vittima dei provvedimenti giudiziari, che nonostante tutto non tardano ad arrivare, si traduce in un motivo d’orgoglio. È un segno tangibile del primato dell’onestà e del senso di giustizia nella propria scala dei valori, e una testimonianza dell’entità dei sacrifici che si è disposti a compiere nell’adempiere a esso.
Consideriamo per esempio l’iniziativa del 24 marzo 2007, quando i presidianti, vestiti da operai dell’Altrocomune, attraversano in corteo Strada Sant’Antonino, fermandosi in prossimità di un tombino, scoperchiandolo e recidendo delle fibre ottiche. I cavi in questione erano stati posati nelle settimane precedenti, e dopo alcuni accertamenti, erano risultati assolutamente sovradimensionati rispetto a un utilizzo di tipo civile, come pure era risultata priva delle necessarie autorizzazioni la ditta che li aveva posati. Né le denunce ai vigili urbani, né un’interrogazione al consiglio comunale, né un esposto in procura erano riusciti a far luce sulla vicenda, avallando in tal modo l’ipotesi che le fibre in questione potessero servire per la connessione della futura base militare.
La decisione di recidere le fibre ottiche è importante, sia perché si tratta della prima azione dichiaratamente illegale intrapresa dai presidianti, sia perché con essa assume carattere pubblico quel processo di destituzione delle istituzioni amministrative e giudiziarie che trova la sua sintesi nella formulazione del concetto di “Altrocomune”. Non si tratta dunque di militanti che effettuano un’azione di sabotaggio, ma piuttosto di operai altro-comunali che ripristinano la legalità. Se da un lato il “vero” comune tenta di nascondere e di avallare operazioni illecite, venendo meno al proprio mandato e alla propria funzione civica, è necessario creare altre istituzioni, che scaturiscano in modo più diretto dalla sovranità e dalla volontà popolare, e che siano in grado di far rispettare il territorio e i diritti della cittadinanza.
Nasce così l’Altrocomune, il soggetto con cui il Presidio permanente caratterizzerà la propria azione politica per un lungo periodo, fino alle elezioni amministrative del maggio 2008 e quindi al cambiamento della maggioranza (e che verrà ripreso anche in occasione dell’avvio dei cantieri al Dal Molin).
In questo periodo inizia a manifestarsi in modo esplicito la volontà del governo e delle istituzioni locali di ignorare proteste, rimostranze e preoccupazioni della cittadinanza, e di proseguire nei propri intenti. Le due posizioni sono talmente antitetiche e inconciliabili che una mediazione sembra impossibile, e d’altronde l’arroganza e la prepotenza con cui le decisioni vengono imposte non fanno altro che gettare benzina sul fuoco. Si parla insistentemente di decisioni già prese e irrevocabili, di sacrifici che la città deve accettare nell’ottica di un bene maggiore, magari in cambio di compensazioni di vario tipo. Le preoccupazioni relative al progetto, seppur legittime, devono essere messe in disparte e non devono continuare a sfociare in proteste e manifestazioni.
Allo scopo di fare da tramite, viene nominato dal governo un commissario speciale, Paolo Costa, europarlamentare veneziano del Partito Democratico. Fin da subito il commissario Costa si guarderà bene dal prendere in considerazione le voci della cittadinanza vicentina, e agirà come un’emanazione del potere centrale con il compito di sconfiggere l’opposizione alla base e procedere alla realizzazione dell’opera nel minor tempo possibile. Per comprendere l’atteggiamento con cui il commissario Costa ha interpretato l’incarico affidatogli, credo sia sufficiente riportare alcuni passaggi di una lettera inviata all’allora ministro Parisi nel settembre del 2007 per aggiornarlo sullo stato della situazione. Nella comunicazione Costa invita il ministro a prendere delle decisioni immediate e definitive sulla nuova installazione, al fine di “imprimere una inerzia positiva alla realizzazione del progetto ed eliminare alla radice le componenti locali del dissenso”. Sempre nello stesso documento, il commissario fa riferimento alla V.I.A. [Valutazione di Impatto Ambientale] in questo modo: “rappresenta un’insidia fin troppo evidente alle possibilità di procedere in tempi definiti; ed è capace addirittura di compromettere la decisione finale”. La versione completa della lettera è riportata interamente in appendice.
D’ora in poi il movimento contro la base smette progressivamente di essere un interlocutore delle forze di governo, e viene considerato un avversario, se non addirittura un nemico, e in quanto tale privato di ogni legittimità.
L’operato dell’Altrocomune si esprime attraverso azioni dirette e manifestazioni, e soprattutto attraverso assemblee nei quartieri, organizzate per informare la cittadinanza sull’avanzamento del progetto e sugli innumerevoli problemi a esso connessi.
Questo richiede competenze e conoscenze di vario tipo, da quelle legali a quelle ingegneristiche, e implica difficoltose ricerche sulle pochissime informazioni pubblicamente disponibili riguardanti la nuova base. Il patrimonio di conoscenze accumulato dai presidianti diventa col tempo sempre più corposo, sia dal punto di vista delle dimensioni, sia dal punto di vista dell’accuratezza e della completezza. E, cosa più importante, questo patrimonio viene costantemente condiviso col resto della cittadinanza, sottoposto a verifiche, critiche e correzioni, attraverso assemblee, convegni e pubblicazioni, riuscendo tra l’altro, pur tra molte resistenze e molte difficoltà, a incrinare il guscio di segretezza entro cui governo e amministrazione locale tentano pervicacemente di racchiudere il progetto della nuova base in ogni suo aspetto.
Non si tratta, dunque, di un assalto al palazzo, né di un tentativo di annullare il governo in carica per sostituirlo con uno nuovo e diverso. Raffigurando entità quali amministrazione comunale e stato come nodi entro cui avvengono e si svolgono la maggior parte delle relazioni e degli esercizi di potere11, l’Altrocomune non tenta di appropriarsi di questi nodi. Lavora piuttosto per sottrazione, invertendo flussi e disarticolando le maglie della rete, facendo sorgere altri nodi, legati in modo più diretto al territorio e alla popolazione, spezzando monopoli e costruendo autonomie.
Quella vicentina è una pratica di autonomia che a molti presidianti ricorda comunità indigene in lotta all’altro capo del mondo. Se quella di Vicenza tutto sommato si può considerare una comunità indigena in lotta, l’Altrocomune dei presidianti assomiglia, fatte le dovute differenze, alle Giunte del Buon Governo, insediate dagli Zapatisti nelle Caracoles per governare le regioni autonome del Chiapas12.
Al pari di quella Chiapaneca, la comunità vicentina è in lotta col governo e con lo Stato, e a questo proposito prepara strumenti con cui relazionarsi con i propri interlocutori. Nel caso specifico, poiché la vertenza riguarda in ultima analisi il governo degli Stati Uniti, e verificata la non volontà da parte delle istituzioni locali e nazionali di fare da tramite, il presidio si dota di una propria delegazione diplomatica, che grazie a un febbrile lavoro, e grazie soprattutto al sostegno di molti movimenti pacifisti statunitensi (su tutti Code Pink), riesce a ottenere nell’aprile del 2009 un’audizione presso la commissione del Congresso preposta alla gestione delle installazioni militari dell’esercito degli Stati Uniti. L’episodio è significativo, se non da un punto di vista concreto, quanto meno da quello simbolico: ricorda quella “Bark Petition” con cui i nativi proposero per la prima volta in via ufficiale al governo australiano le proprie istanze relative al possesso della terra. Come molti altri episodi nella storia del movimento vicentino, il viaggio della delegazione a Washington dimostra quanto lontano la determinazione della gente comune possa portare, e testimonia l’obsolescenza quasi grottesca di quegli strumenti istituzionali che dovrebbero essere gli assi portanti del nostro sistema democratico.
Benché aspro, il conflitto che contrappone il movimento al potere costituito non si traduce mai in pratiche violente. È una scelta consapevole, frutto di un dibattito che attraversa di continuo il presidio; le opinioni in questo campo non sono univoche. Si sente l’esigenza di discutere sul concetto di non-violenza, un concetto che nella sua formulazione classica abbraccia una profondità e molteplicità di significati e di comportamenti che va ben oltre la semplice assenza di violenza. Qualcuno esprime considerazioni sull’efficacia di movimenti che nel corso della storia hanno fatto ricorso a strumenti violenti, altri vedono in Ghandi una guida, molti altri non sono interessati a speculazioni teoriche, dichiarando molto più semplicemente la volontà di non nuocere ad alcuno. Altre componenti del movimento, nella fattispecie alcuni attivisti della Rete Lilliput13, esprimono critiche e condanne nei confronti di alcune azioni del presidio, quale per esempio il taglio delle fibre ottiche, che ritengono non confacenti ai principi della non violenza, finendo però per confondere la violenza con l’illegalità, e dimenticando decenni di conquiste sociali e culturali ottenute grazie alla disobbedienza civile, all’obiezione di coscienza e al sabotaggio.
In definitiva, la linea guida che regola e che fa da filo conduttore a tutte le iniziative del presidio si può ricondurre fondamentalmente al principio del non nuocere.
Questa scelta si rivela vincente sotto molti punti di vista. In primo luogo fa sì che il presidio continui ad avere in città un seguito enorme da parte di persone solidali e complici14. In secondo luogo, lo rende difficilmente attaccabile dagli avversari politici (a questo proposito è il caso di leggere la missiva inviata da Costa al ministro Parisi). Ma, cosa non meno importante, risulta decisiva anche dal punto di vista dei rapporti con le forze dell’ordine.
Nota. Tratto da Guido Lanaro, Il popolo delle pignatte. Storia del Presidio permanente No Dal Molin (2005-2009), prefazione di Ascanio Celestini, Quaderni di storiAmestre 10, QuiEdit, Verona 2010, pp. 69-83, qui riprese con qualche lieve modifica e l’omissione di alcune note.
Sul nostro sito, tra le altre cose, è possibile leggere alcune cronache/descrizioni della manifestazione di Vicenza del 17 febbraio 2007:
Camminando fuori porta. Vicenza, 17 febbraio 2007, di Mirella Vedovetto
Vicenza. 17 febbraio 2007, di Maria Luciana Granzotto
Baccalà al governo. Firenze-Vicenza, 17 febbraio 2007, di Filippo Benfante
- Decisione presa non senza qualche difficoltà, per via dell’attaccamento delle organizzazioni comuniste e sindacali ai propri simboli. Durante il corteo del 16 gennaio 2007, che in reazione alle dichiarazioni dell’allora primo ministro Prodi, percorse le vie del centro per poi occupare temporaneamente la stazione ferroviaria, si verificarono dei litigi piuttosto accesi quando alcuni esponenti del presidio invitarono pubblicamente (ed energicamente) alcuni esponenti sindacali e dei partiti della sinistra radicale a riporre le loro bandiere. Il coro «Via le bandiere» che in breve si sollevò dalla piazza li convinse ad aderire all’invito. [↩]
- In occasione delle iniziative di carattere nazionale, i presidianti non mancano di rendere noto in anticipo che la partecipazione ai cortei è aperta a tutti, a patto che si accetti di stare a quanto deciso dai vicentini per quanto riguarda forme e contenuti delle manifestazioni. [↩]
- M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino 2002, pp. 5, 64-65, 134-136. [↩]
- Degli charivari (o scampanate, o battarelle) ha scritto Marco Fincardi in Derisioni Notturne. Racconti di serenate alla rovescia, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere (CE) 2005, e ne Il rito della derisione. La satira notturna delle battarelle in Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia, Cierre, Sommacampagna (Verona) 2009. [↩]
- P. Brunello, Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e in Friuli 1814-1866, Marsilio, Venezia 1981, pp. 11-12. [↩]
- Quasi tutte le spignattate No Dal Molin si svolgono in orario serale, notturno. Non credo si possa parlare di scelta consapevole, visto che come già detto dubito che qualcuno dei propugnatori avesse conoscenza delle battarelle, e visto che per motivi vari una gran parte delle iniziative dei presidianti si svolgono in tardo orario. Ciò non di meno, non si può non ravvisare anche in questa particolarità una forte somiglianza con le “serenate alla rovescia”, come Fincardi chiama le scampanate nel suo volume citato in precedenza. [↩]
- E. De Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano 1961. [↩]
- A. Nacci, Neotarantismo. Pizzica, transe e riti dalle campagne alle metropoli, Stampa Alternativa, Viterbo 2004; per le considerazioni che seguono cfr. in particolare pp. 31 e 49. [↩]
- Danilo è un presidiante ormai non più giovane, protagonista di un digiuno per la pace durato dal 15 aprile al 25 maggio del 2007. Nel periodo in questione Danilo ha vissuto in una tenda presso il Presidio permanente, nutrendosi esclusivamente di latte e di acqua zuccherata. Nel corso dei quaranta giorni Danilo ha scritto numerose lettere di protesta alle istituzioni politiche e religiose della città, ed è stato sostenuto da iniziative dei presidianti, in particolare l’ora di silenzio per la pace, che si è tenuta settimanalmente per tutta la durata del digiuno. Dall’iniziativa di Danilo sono scaturiti numerosi digiuni a staffetta che hanno visto la partecipazione di decine di cittadini, in particolare provenienti dalle associazioni cattoliche e pacifiste. L’esperienza di Danilo è stata raccontata in un interessante fascicolo a cura di Famiglie per la Pace di Vicenza, prodotto in maniera autogestita nel novembre del 2007. [↩]
- A titolo esemplificativo, basti dire che a fine febbraio 2009, nonostante gran parte dei vecchi edifici e la totalità della pista di atterraggio siano già stati demoliti e si stia procedendo alla posa delle fondazioni per le nuove palazzine, non è ancora stato presentato alcun progetto definitivo. [↩]
- Immagine, a mio modo di vedere molto efficace, che riprendo da J. Ferguson, The anti-politics machine, “The Ecologist», vol. 24, n. 5 (settembre 1994), p.180. [↩]
- J. Baschet, La scintilla zapatista, Eleuthera, Milano 2003. [↩]
- Storico network pacifista italiano, che si articola in nodi locali sparsi su tutto il territorio nazionale. [↩]
- Il 16 gennaio 2008 (anniversario dell’editto con cui Prodi diede via libera alla base) i presidianti occupano la prefettura della città, incatenandosi a porte e scalinate. L’iniziativa si conclude in modo pacifico e senza incidenti, ma qualche settimana dopo giunge notizia che oltre 30 manifestanti sono stati denunciati dalle forze dell’ordine e sono sotto inchiesta da parte della procura. Il presidio reagisce affermando che non si può criminalizzare il movimento e che la questione del Dal Molin non può essere risolta come una questione di semplice ordine pubblico, e invita i cittadini a firmare un documento di solidarietà nei confronti dei coinvolti nel procedimento giudiziario. Una settimana dopo, sabato 23 febbraio, vengono organizzati oltre 30 gazebo, dislocati in tutto il territorio del comune, a cui i cittadini potranno recarsi per firmare il suddetto documento. Le firme raccolte nell’arco di una giornata saranno oltre seimila, e verranno consegnate alla prefettura. Questo a titolo di esempio. [↩]
Michele Nani dice
Vi segnalo, ma lo conoscerete già, l’appello che sta circolando in difesa della libertà di ricerca:
http://effimera.org/mai-scrivere-appello-la-liberta-ricerca-pensiero/
Saluti
Filippo Benfante dice
Aggiungo a mo’ di nota (o associazione di idee) qualche riga dalla Introduzione di Haim Burstin al suo recente Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese (Laterza, Roma-Bari 2016, versione italiana del volume uscito in francese nel 2013). Per chiarire il suo approccio allo studio della Rivoluzione francese, da sempre suo tema prediletto, Burstin parte da un’affermazione di Alphonse Aulard (lo studioso considerato il fondatore degli studi scientifici sulla Rivoluzione): “La Rivoluzione francese per comprenderla bisogna amarla”. E così prosegue Burstin: “Si tratta di una formulazione a prima vista discutibile, un po’ desueta e paradossale, se la si interpreta come appello a un atteggiamento genericamente mistico ed emozionale. L’idea di Aulard assume un altro significato se si coglie la necessità di stabilire un rapporto empatico, o quanto meno non repulsivo, nei confronti di un fenomeno così controverso e allo stesso tempo coinvolgente come quello che stiamo prendendo in esame. A ben vedere, ogni soggetto di indagine storica esigerebbe da parte dello studioso un certo livello di empatia, per evitare un atteggiamento aridamente asettico. […] Per rapporto empatico, però, non si intende qui un’esaltazione acritica e militante della rivoluzione, bensì quel tanto di immedesimazione capace di mettere in moto una curiosità analitica, stimolo ad approfondire, prima ancora di giudicare: qualcosa di simile all’«osservazione partecipante» del celebre antropologo polacco Bronislaw Malinowski” (pp. VIII-IX).
Con una battuta si potrebbe aggiungere che si vede male Burstin essere empatico con i vandeani. Questo è un risvolto della faccenda che ci porta lontani, e che comunque ci tiene sempre lontani dalle aule di tribunale. Mi piace ricordare quel che ha scritto un paio di anni fa Pergentino Burdizzo, recensendo un libro di Luciano Mecacci: "Diversamente da quel che accade nelle scienze vere e proprie, in storia prima o dopo si impara che i problemi che ci si pongano non dipendono solo dal bagaglio tecnico. Dipendono in buona parte da quel che la famiglia, gli studi, l’ambiente, le vicende pubbliche e private hanno fatto di te. Problemi e scoperte sprizzano, come avviene per i prataioli coltivati, da un compost soggiacente, poco o niente visibile". Lo si legge nel testo integrale della recensione, scaricabile all'indirizzo https://storiamestre.it/2014/06/ghirlandafiorentina/.
Questa nota mi serve anche per completare il poscritto che ho messo alla mia lettura del libro Le origini della Comune di Enzo Cervelli, pubblicata qualche settimana fa (https://storiamestre.it/2016/05/le-origini-della-comune/). Cervelli aveva precisato che il termine “empatia”, che usa per descrivere il suo atteggiamento verso le sue fonti, veniva da una conversazione con Haim Burstin. Ora che ho scoperto che la questione è scritta in un libro, completo così le mie note.