di Franco Calamandrei, a cura di redazione sito sAm
Il terzo ricordo che abbiamo scelto rievoca l’8 settembre a Venezia. Il testimone è un fiorentino, Franco Calamandrei (1917-1982), figlio di Piero, all’epoca archivista: dal giugno 1943 aveva preso servizio presso l’Archivio di Stato di Venezia. Al termine del brano che presentiamo, forse la sera del 12 settembre o il giorno dopo (le annotazioni di quei giorni sono datate in modo confuso e talvolta contraddittorio), lasciò la città diretto a Sud, prima tappa Firenze; avrebbe poi raggiunto Roma, dove avrebbe aderito alla Resistenza, entrando nei GAP del Partito comunista.
8 settembre
Sull’imbrunire, mentre leggo Verga al mio tavolo, sento una insolita animazione nella fondamenta, esclamazioni festose, canti giulivi di ragazzi; richiami ridenti di bambine. Poi una donna, da una finestra di rimpetto dopo aver chiesto qualcosa ad altre donne già nella fondamenta, dice: – Maria Vergine! – con intonazione gioiosa. Mi affaccio incuriosito e domando: – Hanno firmato la pace, – mi dicono. – È l’armistizio. – Mi vesto ed esco. Una pattuglia di tre soldati sta passando, e tutti li interrogano: – È vero, è vero, – rispondono, ma la loro voce è senza allegrezza, stanca, opaca, avvilita. Da un caffè si sente trasmessa dalla radio l’incisione del proclama di Badoglio, rauco e funerario. Vedo C., seduto a tavola nella sala della pensione: è depresso, quasi disfatto: – Ora – mi dice subito – la moneta crollerà. – In trattoria congratulazioni, abbracci, vino, brindisi, il solito improvviso e breve ottimismo. Poi suona l’allarme: le donne, soprattutto le vecchie, corrono spaventate ai ricoveri, dicendo: – I tedeschi, i tedeschi! – (Si saprà invece come l’allarme sia stato suonato per impedire alla gente di manifestare contro i tedeschi.) Dopocena, nel salotto della pensione, si ascolta Radio Londra trasmettere l’esortazione al popolo italiano, ai marittimi, ai ferrovieri, ecc. Senso di annichilimento, silenzio, confusione. Con T. andiamo al Gazzettino a chiedere notizie. Circolano dovunque marinai e soldati ubriachi, gridando: «Viva Badoglio, abbasso il Duce!». Davanti al Gazzettino alcuni di loro si sono raccolti in tondo e hanno intonato un coro. Intorno a V., direttore del giornale – che non ha alcuna notizia da darci – troviamo un gruppetto di ebrei, che male dissimulano il loro nervosismo, le loro apprensioni. Di ritorno alle Zattere con G., C., P. ed altri fino all’ora del coprifuoco, perdendoci in vani commenti. Una gondola incrocia, dove una donna sdraiata ad un uomo declama melodrammaticamente, forse D’Annunzio, nel silenzio opaco della Giudecca, sotto la luna velata. Le gridiamo di tacere: – Basta! Buffoni! Si vergogni – finché il gondoliere ruffiano ci risponde incollerito. (X racconta a G. di avere avvicinato un tedesco e di avergli stretto la mano, senza una parola, in un impulso di disgusto per quanto vede accadere.)
Dopo l’armistizio. Di notte, nella fondamenta, verso la mezzanotte. Passato da poco sulle pietre sonore il passo ferrato della ronda, si sentono altri passi di scarpe militari arrivare, timidi e scompigliati, dalla cantonata. Vanno di porta in porta e si sente ad ogni loro sosta un campanello squillare in una casa. Una finestra finalmente si apre. – Siamo italiani, signora! Siamo militari. Avete vestiti borghesi da darci? – E dopo le prime esitazioni altre finestre si aprono, e i vestiti cominciano a piovere. In basso sono i soldati, dalle finestre, e presto scese giù alle porte, sono donne, ragazze, e qualche voce di bimbo incuriosito e divertito. Piovono magliette, pantaloni, berretti, camicie: una voce ridente di ragazzo annunzia un paio di pantaloni da frak. Offerta di vino. In cambio dei vestiti da qualcuno vengono accettate le coperte militari. Le divise, strette in pacchi, vengono buttate nel rio. I soldati sono andati lungo la metà della fondamenta che è al riparo della luna, ed in quella penombra si vedono le loro figure, prima – vestite com’erano del grigio-verde – confuse con la notte, farsi chiare, affiorare, quasi fiorire. Ridiventano liberi, si rianno. Ma sono venuti anche dall’altra parte, e mutati i vestiti sostano in capannelli, respirano la tregua, commentano per l’ennesima volta la loro disgrazia, stabiliscono il loro avvenire. Si sente improvvisamente lontano uno sparo, poi altri: forse la ronda. Lo spavento: le porte si aprono e i soldati si nascondono nell’interno delle case. Poi, ritornata la quiete, alcuni rimarranno dentro a dormine, altri usciranno e si distenderanno all’aperto. E per tutta la notte sarà un brusio vario di dialetti lungo le case. La mattina dopo aeroplani tedeschi lanciano manifestini di intonazione fascista. Nel pomeriggio con A. e T. andiamo al Gazzettino per chiedere a V. una maggiore decisione nel tono del giornale, un avvertimento alla popolazione contro i manifestini. Ci accoglie Gorg., con un profluvio di parole volenterose, esibendoci i suoi meriti di queste ultime settimane. Poi V. ci riceve. Smarrito, impaurito del precipitoso complicarsi degli eventi, siede dietro il lussuoso banco, frugando nervoso e senza scopo nel cassetto dove è ammucchiata la corrispondenza. Racconta di aver avuto la mattina un «commovente» colloquio con il Prefetto, conclusosi con un abbraccio e un bacio scambievole, ed in un comune pianto sulle «sventure d’Italia». Il Prefetto gli ha raccomandato di non stampare nulla che possa turbare gli animi: perciò egli non può far nulla di quanto chiediamo. Gorg. intanto dice di temere per la sua persona: vorrebbe dai «suoi partiti» una guardia personale, un gruppo di giovani che difendesse il giornale. V. risponde che non si può, che sarebbe illegale, che bisognerebbe chiedere al Prefetto. E un alto ufficiale fuggito da Trieste, in borghese, racconta, ridendo, con aria di superiorità e di compatimento per i nostri bollori di giovani, di aver disperso con una autoblinda la folla che voleva assalire, a Trieste, l’albergo dove alloggiavano gli ufficiali tedeschi. Usciamo con Gorg. per andare a sentire che cosa decidono «i suoi partiti». Ci fa aspettare come congiurati a una cantonata mentre egli va in cerca degli altri. Ritorna a dirci che i capi terranno tra poco un comizio per decidere «se scappare». In Piazza San Marco, sulla Riva degli Schiavoni, la gente, a bocca aperta, sosta guardando la colonna di fumo del Conte di Savoia, ancorato al Lido, che gli aeroplani tedeschi hanno spezzonato e incendiato. I pompieri, nella loro lancia, guardano anch’essi con le braccia incrociate. Un gondoliere dice in dialetto: – Per me venga chi vuole: tedeschi, greci o turchi fa lo stesso. Ho lavorato ieri, lavoro oggi e dovrò lavorare finché camperò…
Il giorno dopo, alla Pensione Berlino, mentre Luigi scampato dalla Croazia veste gli abiti borghesi, Ve. Riesce a chiudersi in una camera con una delle ragazze e la fotte. Andiamo con T. al Gazzettino. Per le scale incontriamo V. che se ne va, con dei pacchi sotto il braccio. – Me ne vado, – dice, con voce quasi di pianto. – Il giornale deve uscire domani con il testo del discorso di Hitler. Ma temo di compromettermi a andar via… – Gorg. è tremante di paura: qualcuno lo ha minacciato. Vuol vestirsi da prete per scappare: – Ma no: perché ce l’hanno anche con quelli. – Giù al portone il picchetto dei marinai è inquieto, scompigliato: è giunto l’ordine del comando tedesco di presentarsi la sera a consegnare le armi; temono di essere internati. Ne esorto uno a venire con me a mettersi in borghese: mi segue insieme a un altro, con entusiasmo. Sono giovanissimi. Mi seguono per le calli a una certa distanza: e sento il loro passo, dapprima deciso e alacre, farsi a poco a poco lento ed irresoluto; poi si fermano, mi chiamano, e mi dicono che temono di andare incontro a sanzioni gravi; mi ringraziano e tornano al loro posto. – In piazza basta che un ubriaco gridi un poco forte delle parole sconnesse, perché la gente accorra da ogni parte a sentire. – La sera la radio annunzia la liberazione di Mussolini [12 settembre] ad opera di paracadutisti tedeschi. Siamo nel salotto della Pensione Calcina, con Colla, Guidi, Cesetti, la Chittaro, Vedova, Turcato eccetera. Guidi dice: – Finalmente avremo un governo! Qualcuno già accarezza l’idea di una rivincita. Se quei traditori… non avessero consegnato la flotta!
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Tratto da Franco Calamandrei, La vita indivisibile. Diario 1941-1947, a cura di Romano Bilenchi e Ottavio Cecchi, prefazione di Romano Bilenchi, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 109-112.
Nota. Sia per la prima che per la seconda edizione (Giunti, Firenze 1998) de La vita indivisibile i curatori hanno preferito non sciogliere sigle e abbreviazioni. Segnaliamo qui che “V.” indica il poeta e francesista Diego Valeri (1887-1976) e “Gorg.” il giornalista Giuseppe Gorgerino (1904-?). Nel rivolgimento seguito alla destituzione di Mussolini, dal 28 luglio 1943 il Gazzettino fu retto da un Comitato di direzione. Inizialmente sembrava che il ruolo di direttore potesse essere affidato ad Armando Gavagnin (1901-1978), già redattore del giornale dal 1924 al 1928, quando era stato arrestato per attività antifascista (fu liberato nel 1932 per amnistia). Nel 1943 Gavagnin era membro del Partito d’Azione, la sua nomina fu bloccata dal veto del prefetto; nel frattempo, il 2 agosto era entrato in carica il nuovo prefetto (designato il 29 luglio) Ruggero Palmeri, ritenuto meno compromesso con il fascismo del predecessore Celso Luciano.
Fu l’11 agosto che Diego Valeri assunse la carica di direttore del Gazzettino (e della Gazzetta di Venezia, che apparteneva alla stessa proprietà, la Società San Marco, i cui maggiori azionisti erano Vittorio Cini e Giuseppe Volpi). Dopo l’8 settembre, Valeri, Gorgerino e altri del Comitato di direzione dei 45 giorni lasciarono Venezia; Valeri riparò in Svizzera, altri entrarono nella Resistenza. A metà del 1944 nella Venezia repubblichina si svolse un processo contro di loro, che si concluse con lunghe condanne (Valeri e Gorgerino a 30 anni).
Nel 1946 Gorgerino collaborò alla stesura del soggetto del film Il sole sorge ancora, diretto da Aldo Vergano, che racconta una storia della Resistenza cominciando dall’8 settembre 1943.
Per le informazioni relative al Gazzettino durante i 45 giorni, abbiamo tenuto presente:
Maurizio Reberschak, Stampa periodica e opinione pubblica a Venezia durante i quarantacinque giorni (25 luglio-8 settembre 1943), “Archivio Veneto”, s. V, vol. XCIV (1971), pp. 95-134;
Giannantonio Paladini, Le istituzioni culturali veneziane negli anni del cambiamento (1938-1946), in La Resistenza nel veneziano. La società veneziana tra fascismo, resistenza, repubblica, a cura di Giannantonio Paladini e Maurizio Reberschak, Università di Venezia-Comune di Venezia-Istituto Veneto per la Storia della Resistenza, Venezia [1985], pp. 333-364 (in particolare p. 356, dove Paladini utilizza proprio il diario di Franco Calamandrei come fonte per inquadrare l’atteggiamento di Valeri).
Su Franco Calamandrei, e suo padre Piero, nei due decenni a cavallo della seconda guerra mondiale, si veda il recente Franco e Piero Calamandrei, Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1936-1956), a cura di Alessandro Casellato, Laterza, Roma-Bari 2008.