di Giuseppe Zaggia, a cura di redazione sito sAm
Proseguiamo la pubblicazione di ricordi e testimonianze relativi all’8 settembre 1943 e ai giorni seguenti. Ecco le prime pagine del diario di prigionia di Giuseppe Zaggia, che all’epoca aveva 33 anni ed era ufficiale al forte Gazzera. Sposato con un figlio, abitava a Mestre, non lontano dai Quattro Cantoni; la madre e due fratelli in età di leva abitavano a Venezia. Ordini contrastanti, prime fughe dalla caserma, soldati e ufficiali vestiti da borghese, colonne di soldati di Marina fatti prigionieri dai tedeschi all’imbocco di via Piave… Il 15 settembre due S.S. e un interprete lo prelevano a casa e lo conducono al Comando tedesco, da dove verrà mandato prigioniero in Polonia e in Germania per essersi rifiutato di servire il Reich, i tedeschi occupanti e i fascisti loro alleati. Zaggia scrive che era iniziata una “caccia all’uomo, per costringerlo a servire ancora e suo malgrado la causa sbagliata”. Zaggia darà alle stampe il suo diario di prigionia al ritorno a casa, nel settembre 1945 (Filo spinato, Rialto, Venezia 1945).
8 settembre: La Gazzera
Vado in caserma come al solito e, come al solito dal 26 luglio, mi occupo del «servizio di ordine pubblico». Poco dopo le undici, si odono fioche le sirene. Il trombettiere della caserma dà l’allarme. Lo scompiglio, incredibilmente rapido, ha inizio. Gruppi di soldati traversano il cortile, correndo come forsennati, quasi sentano già cadere le bombe. Raggiungo di corsa le scale, gridando. Qualcuno si ferma, incerto tra l’obbedienza e la fuga, poi, chiamato per nome, si calma.
L’adunata viene effettuata rapidamente, il reparto prende la fisionomia normale, il nervosismo scompare. Appena fuori della caserma, apriamo le file e ci dirigiamo rapidi verso la Gazzera. La popolazione, a piccoli gruppi, è ferma lungo la strada, sotto i platani. Biciclette con due e tre persone ci sorpassano. L’allegria comincia a nascere nelle file: prima scoppi di risa, poi qualche tentativo di canto in coro.
Quando, venti minuti dopo, arriviamo alla Gazzera, il nervosismo provocato dall’allarme è del tutto svanito. Operai fermi lungo il rifugio in costruzione scambiano frizzi con i soldati. Donne che sostano sulle soglie ci guardano sorridendo.
Sul muro che recinge la ex casa del Fascio, sono i resti della parola «Vincere» cancellata dopo il 25 luglio. Do l’alt al reparto e, dopo brevi raccomandazioni e la presentazione al capitano Duse, faccio rompere le righe. Ci sediamo a un tavolo della trattoria. Passa alto, lento, un esamotore tedesco. Al termine dell’allarme rientriamo.
Il pomeriggio trascorre normalmente. Verso le 19 incontro Gianna, una signora del paese, che mi chiede se so qualche cosa dell’«armistizio». Rido. A casa mia moglie mi dice di averne sentito parlare. Un casigliano mi chiama ad ascoltare la radio. Gli occhi, il viso, tutta la persona esprimono un’allegria infantile. La sua naturale balbuzie, accentuata dall’emozione, gli conferisce un’aria ridicola, ingenua e pietosa insieme. Non so rendermi conto di tanta allegrezza, anche se l’armistizio è realmente concluso.
«Radio Londra» annuncia ufficialmente la firma dell’armistizio.
Accordo con la Germania? O avremo contro la Germania?
Circa alle 21 allarme aereo. Ci siamo? Alle 23 l’aiutante maggiore capitano De Lorenzi mi chiama d’urgenza in caserma. È costernato. Mi dice che avrebbe preferito morire piuttosto che assistere a tanta sciagura. Mi ordina di fare approntare subito tre autocarri con tre ufficiali, tre sottufficiali, l’efficienza delle armi. In attesa che arrivino i tre ufficiali, do alcune direttive di massima, la destinazione e il probabile impiego. Ho la netta impressione che l’eventualità di battersi contro i tedeschi, di sparare contro i tedeschi, sorrida a tutti. Meno entusiasti, invece, sono gli ufficiali che prendono il comando degli autocarri. Il tenente M. incappottato, mi fa osservare che soffre di raffreddore. Mi chiede quando avrà il cambio. Gli autocarri partono. Meta: la stazione ferroviaria. Consegna: impedirne l’occupazione.
Alle tre ricevo l’ordine di far uscire cento uomini con due ufficiali a protezione del palazzo dei telefoni.
9 settembre: L’armistizio
L’armistizio è poco commentato. Nelle prime ore del mattino, prendo accordi per la distribuzione del rancio ai militari in servizio alla stazione e al palazzo dei telefoni.
Il capitano Duse va a ispezionare la truppa in servizio. Io mi faccio radere.
Tornato in caserma, faccio pressioni presso l’aiutante maggiore perché sia dato il cambio alla truppa in servizio. Mi risponde che ciò è impossibile. Provvedo al consueto servizio di ordine pubblico con attendenti e militari di riserva.
10 settembre: I tedeschi
Il cortile della caserma è animato da gruppi di militari che si scambiano le più sensazionali e pur vere notizie, Roma, Bologna, Verona, Padova sono occupate dai tedeschi, che disarmano e fanno prigionieri gli ufficiali e le truppe italiane. Il nervosismo, l’inquietudine la paura dominano tutti.
Il colonnello Corazza, a rapporto, ordina che la truppa sia «tenuta sottomano», che vengano effettuati frequenti controlli, che i nomi degli assenti vengano comunicati di volta in volta al Comando. Dal Comando di Presidio il colonnello Serra dà ordine che i militari in servizio degli autocarri armati e al palazzo dei telefoni non sparino contro i tedeschi a meno che non vengano «molestati». Il Deposito del 56 invia una Compagnia a difesa della caserma e rinforza il nostro presidio ai telefoni. Trovo strani questa difesa e questo presidio di uomini che hanno l’ordine di non sparare.
Cominciano il caos, le contraddizioni, gli ordini e i contrordini, il compromesso tra il dovere e la paura, tra l’onore e il tornaconto personale.
Le prime defezioni di sottufficiali e truppa si verificano nella Compagnia Comando. Alcuni soldati, penetrati nel ripostiglio, si riempiono sacchi di scarpe e di indumenti, che intendono portarsi a casa prima che cadano in mano ai tedeschi. Faccio restituire e rimettere a posto ogni cosa e catechizzo i ripostiglieri.
Mando due staffette sulle strade di Padova e di Treviso per avere conferma o meno dei movimenti delle truppe tedesche. «Nessuna novità».
Cominciano le ambascie di mia moglie: mi scongiura di abbandonare tutto, di non farmi prendere, di fare come «gli altri».
Verso le 18 rientrano in caserma gli autocarri armati e le truppe di presidio al palazzo dei telefoni: il servizio, visto che «non si deve sparare», diventa inutile ed è merito del colonnello Corazza averlo fatto comprendere al comandante del Presidio.
Verso le 24, un porta-ordini del Comando del Presidio reca in caserma una comunicazione secondo la quale è previsto l’arrivo a Mestre di reparti tedeschi nella notte stessa o nel mattino successivo. Il colonnello Serra avverte che sarà sua cura di prendere contatto con il comandante di dette truppe onde stabilire accordi tendenti ad ottenere che sia normalmente continuata la «nostra pacifica attività» (?).
11 settembre: L’accordo
Il nervosismo sembra sia diminuito. Continuano tuttavia le defezioni fra la truppa, anche nel mio reparto. Alcuni ufficiali girano per la caserma in abito civile. Il colonnello Corazza conferma l’ordine di impedire la fuga dei militari e di denunciare gli assenti. Avverte che questi, probabilmente, verranno fucilati.
Nelle prime ore del pomeriggio il colonnello Serra comunica di essere riuscito a stabilire gli auspicati accordi con i reparti tedeschi: noi resteremo ai nostri posti, liberi di muoverci entro determinati limiti (il Cavalcavia di Marghera, il Cavalcavia della Giustizia, Zelarino e la Favorita) e continueremo ad effettuare, col concorso di militari tedeschi, il «servizio di ordine pubblico».
12 settembre: Il disaccordo
Alla messa al campo, il cappellano militare esorta la truppa a mantenersi disciplinata e calma e ad avere fiducia nei superiori. Poco dopo, a rapporto, il colonnello Corazza, ribadisce l’ordine di «tenere sotto mano la truppa» e di segnalare gli assenti.
Parla di mitragliatrici da mettere alla porta della caserma per impedire la fuga dei militari. Non sa darci altri chiarimenti.
L’aiutante maggiore mi avverte che, dopo mezzogiorno, sarà bene che gli ufficiali vestano l’abito civile. Il personale della maggiorità ha disertato in massa.
L’aiutante maggiore si prepara ad uscire. Sulla porta della caserma, trovando alcuni militari in procinto di svignarsela, li minaccia con la pistola, trattandoli da vigliacchi.
Assisto alla distribuzione del rancio.
Un motociclista del Comando di Presidio che viene di passaggio ad annunciare che gli accordi con i tedeschi sono stati annullati e che il Colonnello è fuggito, provoca nella truppa intenta a ricevere il rancio un moto di panico rapido e inatteso. I soldati fuggono a raggiera verso i muri di cinta e il cortile retrostante.
Alle 12.30, mi avvio verso la mensa del Presidio per cercarvi il colonnello Corazza e vedere se è possibile cavarne qualche cosa. Un rumore di ferraglia e di motori a scoppio mi fa arrestare dubbioso, appena girato l’angolo della strada. Due autoblinde entrano dalla porta carraia. Proseguo verso casa.
Il capitano Duse, che mi attende, mi consiglia di mettere l’abito civile e di non uscire, tanto non c’è più niente da fare. Mia moglie, agitatissima, mi supplica di farlo subito.
Dopo colazione, decidiamo di andare a Venezia con mio figlio Sandro, per evitare due carri armati che attraverso Via Piave tengono il cannone puntato contro la mensa del Presidio e il magazzino presidiario, raggiungiamo la stazione per Via Dante. Sul piazzale della stazione autoblinde e carri armati fanno evoluzioni, sollevando la crosta di asfalto della strada. Nell’interno della stazione, gran ressa di gente, abbastanza calma, che aspetta di partire.
Il sergente Vallarini e il calzolaio caporale Valentini, in borghese, mi salutano. Non mi pare che la previsione di essere fra poco a casa, e forse per sempre, li renda eccessivamente lieti.
Arriva da Trieste un treno affollatissimo in cui molta gente, vestita in strane fogge tra il borghese e il militare, occupa i posti più strani dai tetti delle carrozze ai respingenti della locomotiva.
All’arrivo a Venezia, nessun controllo ci molesta, militari tedeschi, sia all’interno della stazione che fuori sono rarissimi. C’è nella gente un senso di sbigottimento, un’aria tra preoccupata e trasognata.
Passano per il Canal Grande, verso Santa Chiara, battelli carichi di marinai. Viene da lontano, forse dalla Giudecca, forse da più lontano, un rombo di artiglieria leggera.
In un cortile una ragazza piange disperata sulla sorte di un fratello morto in Croazia e di un altro prigioniero.
A casa, mio fratello Toni mi avverte che, dopo il tentativo di fuga del cacciatorpediniere «Quintino Sella», affondato da aerei germanici, i tedeschi hanno infranto gli accordi, imponendo la resa di tutte le forze della Marina, entro le ore 17 di oggi, in Piazzale Roma. Rappresaglia in caso di disubbidienza: bombardamento di Venezia e interruzione delle condutture dell’acqua e del gas. Il Comando italiano ha aderito, ciò spiega l’afflusso dei battelli carichi di marinai verso S. Chiara. La Piazza Marittima di Venezia, forte di 600 marinai, è stata presa da due motosiluranti tedesche. Mio fratello chiede consiglio circa la sua presentazione o meno. Mia moglie ed io lo consigliamo per il no. Mia madre non si pronuncia.
Decidiamo di recarci tutti e tre al Piazzale Roma per vedere che aria spira. Quando arriviamo, la massa dei militari di marina è già partita a piedi per Mestre. Pochi giovanissimi allievi meccanici sono circondati dalla folla che cerca di occultarli alla vista dei soldati tedeschi. Qualche donna arriva con fagotti di abiti borghesi. Un uomo anziano, alla vista di una macchina che si ferma al marciapiede e dalla quale scendono quattro militari tedeschi, chiede a gran voce una bomba a mano per fare saltare macchina e uomini. Così invasato, così furente contro i tedeschi e contro gli italiani che non reagiscono, sembra un apostolo, un poco ridicolo, di rivolta. Nessuno si cura di lui. Decidiamo di tornare a casa.
Ci avviamo alla stazione. L’impiegato della biglietteria, mi avverte che, dalle 17.30, il comando tedesco ha sospeso la partenza dei treni.
Contrariati e preoccupati, ci avviamo comunque ai binari e prendiamo posto nel treno per Udine, che sarebbe dovuto partire fin dalle 18. Poco dopo, mentre la vettura si va stipando fino all’inverosimile, viene annunciata prossima la partenza. Un giovanotto, che discute con tre uomini anziani, parla di possibili ispezioni tedesche e della sua decisione di nascondersi sotto il sedile. Un altro viaggiatore annuncia che a Mestre, all’uscita della stazione, i tedeschi controllano i documenti. Giunti a Meste, ci dirigiamo, un poco perplessi, all’uscita della stazione. Esibisco la tessera degli ufficiali in congedo. Il militare tedesco di controllo la sbircia. Non vi trova nulla. La gente si assiepa all’uscita e nelle vicinanze. Autocarri e autoblinde tedesche compiono manovre nel piazzale, disponendosi a bloccare la imboccatura di Via Piave. I carristi tedeschi urlano alla folla che si sbanda. Echeggiano spari.
La colonna dei marinai avanza dal viale della stazione verso via Piave, preceduta da un carro armato, fiancheggiata da autoblinde e da militari tedeschi a piedi. Ufficiali e marinai camminano frammisti, con bagagli sulle spalle, affrettati, sospinti dai tedeschi. Ogni tanto, senza apparente motivo, i tedeschi sparano in aria. Si alzano le loro urla irose e bestiali. Qualche tedesco colpisce alle reni, con il calcio del fucile, i marinai italiani.
Mia moglie piange, e il suo viso esprime dolore e terrore, ma più ancora ira. Sandro mi dice: – Anca mi go paura, ma no vogio pianzer.
La colonna è passata. Spari ed urla ci giungono ormai lontano.
Siamo a casa.
13 settembre: – Bitte, Kamarad –
Mia moglie mi vieta di uscire di casa. Mi porta alcuni giornali e la rivista «Tempo».
In quelli, già controllati dei tedeschi, ha risalto la notizia della liberazione di Mussolini. In sordina, la notizia dello sbarco anglo-americano a Salerno. «Tempo», meno aggiornato, si sbilancia ancora tra l’una e l’altra parte, ma tra le righe si legge la convinzione dell’inutilità della lotta.
Dal balcone, lungo il tratto di strada dei Quattro Cantoni, si vedono passare interminabili colonne di prigionieri in maggioranza marinai, precedute, fiancheggiate e seguite da autoblinde. Nelle pause dei motori sento lo scalpiccio pesante dei piedi strascicati. Apprendiamo che i marinai, non presentatisi il pomeriggio del giorno prima secondo l’ordine tedesco e racimolati o volontariamente presentatisi dopo, sono stati costretti a percorrere di corsa i vari chilometri del Ponte tra Venezia e Mestre. Hanno abbandonato a poco a poco lungo la strada ogni bagaglio.
L’avversione e l’odio crescono.
[…]
La giornata passa. Continuano a defluire le colonne dei prigionieri italiani.
A sera, poco dopo le 21, arrivano a casa mia, da Udine, mio cognato e un suo amico. Hanno fatto tutta la strada a piedi. Vestono una tuta da meccanici ed hanno le scarpe sfondate. Sono fuggiti dall’Autocentro domenica.
A Udine è avvenuto come a Mestre. Il generale comandante la difesa ha accolto i tedeschi e ha tentato di accordarsi. Ha ordinato che la truppa consegnasse le armi e non uscisse dalle caserme, indi ha consegnato le caserme ai tedeschi.
Rifocilliamo i due fuggiaschi. Diamo loro da dormire.
14 settembre: Servi e padroni
La moglie di mio cognato porta un abito borghese per lui e uno per l’amico. Mio cognato va a casa, l’amico spera di raggiungere la sua a Milano.
Per tutta la mattina continuano a passare le colonne di prigionieri.
La giornata passa lentamente, con la compagnia della signora Ada e di sua sorella Gianna. Restiamo tutto il tempo accanto alla radio in funzione a ascoltiamo tutti i notiziari. Una signora di origine tedesca ci traduce il discorso di Hitler. Ci restano impresse le parole: «Ho dovuto fare all’Italia condizioni dure». È il padrone che decide di punire il servo recalcitrante, anche per mettere paura ad altri servi esitanti. […]
15 settembre: Le S.S.
Resto a letto fino a tardi a giocare con Sandro. Mia moglie porta «Il Gazzettino» con il bando del Comando tedesco che ordina a tutti gli ufficiali del territorio della città di Venezia di presentarsi con il bagaglio personale entro le ore 20 di oggi agli Alberghi Terminus e Germania. Nonostante cerchi di convincere mia moglie che ci terranno in Italia, che vorranno solo interrogarci, ho la certezza che aderire al bando significa la deportazione in Germania. Il bando minaccia la denuncia al tribunale militare tedesco di coloro che non si presenteranno. Vedo, dietro a tale minaccia, l’altra, la rappresaglia a carico delle famiglie.
I sottotenenti C. e S., della IV Base, vengono a sentire il mio parere. Decidiamo di uscire insieme per consigliarci con altri colleghi. Un gruppo di tenenti ha deciso di tentare di raggiungere Trieste e di là, se del caso, unirsi ai partigiani della Venezia Giulia e dell’Istria. Torno a casa da solo.
Un militare in divisa di alpino, anziano e zoppicante, mi chiede informazioni sui tedeschi, se fermano i militari in divisa, se li lasciano viaggiare in treno. Lo invito a casa. È un contadino dell’Aquila, fuggito da Gorizia. Lo vestiamo in borghese e gli diamo da mangiare. Si avvia alla stazione rinfrancato, con qualche speranza.
Il pomeriggio viene a trovarci mia madre, che desidera conoscere le mie decisioni. Mi riferisce che i fratelli Toni e Giancarlo hanno deciso di non presentarsi: Toni ha tre navigli in consegna, Giancarlo è in licenza di convalescenza. Sandro, che capisce i nostri discorsi, scoppia a piangere protestando: non vuole che il papà parta. Anche mia moglie piange. Mia madre decide di portare Sandro a Venezia.
Esco di nuovo. I giornali del pomeriggio recano i primi nuovi fogli di disposizioni di Mussolini relativi alla ricostituzione del partito fascista. La cosa tragica e ridicola insieme, mi fa pensare che il ritorno di Mussolini significa la legalizzazione in Italia delle decisioni tedesche, l’organizzazione, con mezzi italiani in cooperazione con quelli tedeschi, della caccia all’uomo, per costringerlo a servire ancora e suo malgrado la causa sbagliata; significa il prolungamento dell’agonia tedesca e, con essa, della tragedia dell’Europa.
Verso le ore 20, un poco amichevole suonare di campanello mette in orgasmo mia moglie. Dal balcone, non riesce a scorgere i visitatori alla posta di strada. Un poco alterata, mi dice di passare in un’altra stanza prima che apra la porta sulle scale. La prego di stare calma e di andare ad aprire. Una voce non nuova dal timbro straniero, chiede di me. È un alto-atesino, soldato alla IV Base in servizio di interprete, certo Herbert Hermuth, accompagnato da due S.S.. Li faccio entrare.
L’interprete mi dice subito che ritiene di farmi un particolare favore e dare un notevole riconoscimento alla mia opera di ufficiale nell’offrirmi di collaborare con le truppe tedesche. Non nutre il minimo dubbio ch’io non abbia ad accettare e mi prega di recarmi subito con lui e i due «camerati» al vicino comando. I due «camerati» sorridono, altrettanto convinti.
Rispondo subito che non è mia intenzione di collaborare in alcun modo con i tedeschi. Il soldato, sorpreso, traduce la mia risposta. Il sorriso sparisce dalle facce dei «camerati».
Segue breve discussione tra me e l’interprete, il quale inizia uno sproloquio sulla fedeltà che merita la Germania, sul valore e l’invincibilità del suo esercito e sulle tremende conseguenze che dovrà subire il popolo italiano in generale se seguirà le orme dei traditori e, in particolare, gli ufficiali e i soldati se si rifiuteranno di collaborare con il Reich.
Interrompo lo sproloquio avvertendolo che non ne ricaverà niente.
Con stizza, con ira, mi dice allora che devo seguire subito lui e i due tedeschi e che sarò mandato dove i traditori avranno modo e tempo di pentirsi della loro vigliaccheria e di pagarla. Mia moglie, che segue il discorso, scoppia in lacrime. Egli si rivolge ai due «camerati» e dice loro alcune parole, in tono tra l’ironico e il risentito. Uno di essi estrae un’enorme pistola; fissandomi adirato mi urla qualche cosa in tedesco e prendendomi per un braccio mi tira verso la porta. Chiedo all’interprete di tradurmi le parole della S.S. e questi mi risponde che il tedesco mi ha ordinato di andare subito con loro.
Mia moglie mi si attacca al collo singhiozzando. Le chiedo se desidera ch’io resti al servizio dei tedeschi. Poi domando al soldato se sa dove sarò condotto e se potrò tornare a casa o no. Mi risponde che non sa, ritiene tuttavia che non potrò tornare a casa. Dico a mia moglie di prepararmi un po’ di roba nella valigia. Chiedo ai due tedeschi, sempre tramite l’interprete, di attendere che io abbia indossato la divisa.
L’interprete risponde, dopo avere confabulato con i due soci, che se tenterò di scappare, mia moglie pagherà per me. Un quarto d’ora dopo io sono vestito in divisa e la valigia è pronta. Dico all’interprete che possiamo andare. […]
[Zaggia viene portato al comando, che aveva sede “nella palazzina già sede del Circolo Sociale di Mestre” ma allora adibita “per lo meno in parte, a uffici della S.A.D.E.”. Di nuovo gli viene chiesto di collaborare, e di nuovo rifiuta. Viene trasferito subito a Venezia, all’albergo Germania, dove sono già stati portati molti altri ufficiali. È la prima tappa della sua deportazione: poco dopo, infatti, vengono portati alla stazione e fatti salire su un treno.]
Dentro alla stazione mia moglie, sempre in lacrime ma più calma, mi bacia la bocca e il viso con l’avidità e quasi il parossismo di chi sente che quei baci non potranno per chissà quanto essere ripetuti. Le dico di baciare e di salutare Sandro.
Ci lasciamo.
Insieme al capitano Sorrentino e ai tenenti Marè e Dal Carlo prendiamo posto in uno scompartimento di terza classe. Fumo, bevo e do da bere rhum. Si parte. Guardo attentamente e cerco di imprimermi nella mente la visione delle cose che passano: il Macello, la punta di San Giobbe, il Cimitero, Murano, San Secondo, il Cippo, San Giuliano. Dopo la stazione di Mestre, appena passato il cavalcavia della Giustizia, cerco di scorgere la mia casa, ma non ci riesco. La notte passa senza sonno, senza pensieri definiti, tra sigarette e rhum.
***
Tratto da Giuseppe Zaggia, Filo spinato, Rialto, Venezia 1945, pp. 7-22.