di Giorgio Bassani, a cura di Filippo Benfante
In occasione dell’8 settembre riprendiamo due scritti poco noti di Giorgio Bassani: un ricordo dell’8 settembre 1943 a Firenze, scritto nel 1945; il racconto di un sogno angoscioso fatto una notte del 1950.
L’occasione per fare una rivista o per resistere?
Nel 1945, Giorgio Bassani rievocò il suo 8 settembre 1943 in poche pagine dattiloscritte rimaste inedite fino a pochi anni fa. Quel giorno si trovava a Firenze, dove era giunto poche settimane prima. Il 26 luglio era stato scarcerato dalla prigione di Ferrara dove si trovava detenuto dal maggio precedente per la sua attività antifascista. Il 4 agosto aveva sposato a Bologna Valeria Sinigallia e quindi insieme si erano stabiliti a Firenze.
Il tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943 Bassani era a spasso con l’amico L., un poeta appassionato tra l’altro di Mallarmé. Girovagando al crepuscolo per le vie del centro, intorno a Ponte Vecchio, incrociarono più volte una “grossa macchina militare tedesca” con a bordo otto “rigidi ospiti incastrati nei sedili come manichini”.
“La radio aveva già diffuso la notizia dell’armistizio quando arrivammo in Piazza Vittorio Emanuele [oggi piazza della Repubblica]. Di lontano avevamo già sentito le grida di gioia, ci aveva sorpassato molta gente che correva verso le radio più vicine, ora stipavano all’interno dei caffè – ‘Giubbe rosse’, ‘Pascowski’, ecc. – in ascolto attorno agli apparecchi. Seduto a un tavolino all’aperto tra le seggiole di vimini scompigliate, tutto assorto nell’infilare con precauzione una sigaretta al bocchino d’ambra, il poeta M. [Eugenio Montale, vedi anche la nota ai testi] ci accolse con l’abituale gesto amichevole. ‘Dunque l’armistizio?’ ‘ Già: ecco una bella occasione per fondare una rivista letteraria’”.
La “solita corte di amici – letterati, pittori e artisti in genere –” si era temporaneamente dispersa per la piazza in cerca di notizie. “Dopo la prima eccitazione suscitata in loro dall’avvenimento sensazionale, eccitazione che li aveva fatti tutti più o meno partecipi del delirio generale, se ne tornavano adesso alla spicciolata, come vergognosi, al tavolino da cui il poeta M. che abitualmente vi pontifica non s’era lasciato distrarre un momento solo. […] In ognuno di noi, compreso forse lo stesso M. cresceva un senso di tristezza. Ricordo che ci separammo quasi subito, trovando nel coprifuoco imminente un facile pretesto per sottrarci a un silenzio diventato poco meno che penoso”.
Il giorno dopo il tempo restò sospeso: caldo afoso, opprimente, e la sera di nuovo allo stesso tavolino di piazza Vittorio Emanuele. “Durante la giornata avevamo assistito al primo disgregarsi dell’esercito. La minaccia dell’invasione tedesca pesava sulla città come un incubo atroce”.
Arrivò il romanziere G., riportando di aver visto una folla inferocita malmenare due soldati tedeschi in una strada del centro. Commentò che ogni resistenza gli pareva una “inutile pazzia”: “Andremmo incontro, diceva, e senza nessun costrutto, a delle nuove Pasque Veronesi”.
Inaspettatamente la discussione si accese. “Levandosi a mezzo dalla seggiola” il poeta M. sostenne che invece bisognava resistere, che lui aveva già fatto una guerra ed era pronto a rifarla, “quello, secondo lui, era il momento di riprendere il fucile” e considerava vigliacchi quelli che non la pensavano così.
Mentre G. stava per rispondere, la discussione fu interrotta da una scena inaspettata: in piazza entrò “una comune carrozza da nolo, scoperta, e procedeva il cavallo – una rozza e magra macilenta – a un passo svogliato e lentissimo. Distesa sui cuscini rattoppati della carrozza, tra un cumulo di valige di cuoio cosparse di vistose etichette internazionali, una donna. Il vestito estivo, svolazzante, ne lasciava intravedere le forme piene, un poco appassite. Il viso triangolare, largo e bianco di cipria, volgeva verso il nostro tavolo. […] Indovinammo il suo profumo di lontano, ricco e volgare, da prostituta”.
Dopo aver fatto qualche giro della piazza, la carrozza prese la via di Porta San Piero e scomparve. “Prima però che dileguasse completamente, un braccio tondo e bianco con in cima una piccola mano paffuta si agitò con malinconia di sopra al mantice polveroso; e mentre un cupo fragore di ferraglia rotolante sui lontani selciati della periferia faceva già tremate tutti attorno i vetri delle finestre, vedemmo balenare nel buio, come fuochi fatui, i grossi anelli delle dita”.
Il 9 settembre fu davvero una giornata di sospensione e di dramma a Firenze. Bassani sembra ignorare che proprio in piazza Vittorio era stato ucciso Valerio Bartolozzi, un giovane comunista di Scandicci che stava distribuendo volantini; il colpo fu sparato da un ufficiale dell’esercito, nel parapiglia seguito all’intervento dei carabinieri per bloccare la distribuzione dei volantini. Anche all’indomani dell’armistizio, la prima preoccupazione delle autorità italiane era quella di mantenere l’ordine e la “legalità”.
Per le stesse ragioni, sempre il 9 settembre, il comandante di piazza di Firenze, il generale Chiappi Armellini, respinse la richiesta del neonato Comitato dei partiti antifascisti di distribuire le armi in modo da poter difendere la città dalla prevedibile reazione tedesca.
Il “cupo fragore di ferraglia rotolante sui lontani selciati della periferia” ricordato da Bassani anticipa quanto accadde l’11 settembre, quando una piccola colonna di blindati tedeschi, scesa dalla Futa per la via Bolognese, arrivò in piazza San Marco, dopo avere superato qualche resistenza male organizzata, per imporre l’occupazione della città.
Bassani sarebbe rimasto a Firenze nascosto sotto uno pseudonimo fino a dicembre, quando si sarebbe trasferito a Roma, sempre insieme alla moglie. In quei mesi molti suoi parenti di Ferrara furono deportati1, mentre i suoi genitori riuscirono a raggiungerlo a Firenze e quindi a trovare un nascondiglio sicuro.
Una lapide introvabile
Nel 1950 Bassani scrisse una cartolina postale alla moglie, per riferirle un sogno angoscioso fatto la notte precedente. Cominciava con la ricerca, in un cimitero, della lapide della figlia Paola che, nell’antefatto del sogno (beninteso non nella realtà: nacque nel 1945 dopo la guerra), sarebbe morta durante la guerra e che poi lui avrebbe dimenticato perché nel frattempo era nata un’altra figlia. Sullo sfondo del sogno, quella dimensione tragica dell’8 settembre – morte, deportazione, sterminio – che è assente nel ricordo scritto del 1945 – per quanto anche quello abbia dei passaggi quasi onirici e ostenti dei presagi.
“La lapide non la trovavo: c’erano molti Bassani, ma nessuna Paola, e nemmeno i lineamenti di lei riuscivo a ricostruire perfettamente, perché l’immagine della nostra prima bambina era di continuo cancellata per sovrapposizione da un’altra immagine somigliantissima e più bella, l’immagine della bambina che avevamo fatto subito dopo, per consolarci della perdita di Paola. Come avevamo potuto dimenticarla?, mi chiedevo piangendo; e come lasciarcela portar via? Perché ricordavo: erano stati i tedeschi, a portarla via, ed io non avevo saputo difenderla. L’avevano attaccata a una corda e calata nuda (aveva la pelle di oca e piangeva: ‘Non lo faccio più!’) in fondo a un pozzo. Quel giorno, l’8 settembre, ci trovavamo riuniti in una grande casa. C’erano tutti i miei amici antifascisti, i letterati – ricordavo Gadda, Bonsanti… – e nessuno naturalmente si rendeva conto che i tedeschi erano per arrivare. Soltanto Benedetto Croce, al pianterreno, pareva rendersene conto, e dalla soglia dello studio mi aveva detto: ‘Vada lei, Bassani, a vedere un po’ quello che succede’. Ed io, maledizione, gli avevo ubbidito. Uscito in lacrime dal cimitero incontrai due donne, due puttane da marciapiede, erano loro che avevano dato la bambina ai tedeschi; cominciai a picchiarle, a ingiuriarle, e loro mi dicevano: ‘Sì, siamo state noi, ma cosa vuole, signore, ne succedevano tante a quell’epoca!’. E parevano meravigliate del mio dolore”.
Bassani concludeva la cartolina con una considerazione sulla recente nascita del secondo figlio, Enrico: a questo evento collegava l’angoscia del sogno e il senso di colpa di aver dimenticato di aver avuto una prima figlia. Una riduzione alla sfera privata quasi rassicurante? Un lettore non di famiglia, e a distanza di tanti anni, leggendo di seguito il ricordo del 1945 e il sogno del 1950, è forse più colpito dalla ricorrenza della figura della prostituta: una ambigua Boule de suif che sembra più pronta a darsi ai nazifascisti che non a resistere contro di loro, e due delatrici capaci ancora di minimizzare il loro comportamento.
Nota. I due testi sono ripresi dall’antologia Giorgio Bassani, Racconti, diari, cronache (1935-1956), a cura di Piero Pieri, Feltrinelli, Milano 2014, rispettivamente alle pp. 280-283 (L’8 settembre a Firenze) e 458-459 (Un sogno).
Il ricordo fiorentino proviene da un dattiloscritto inedito conservato tra le carte degli eredi Bassani (il titolo è del curatore; per la nota al testo, vedi ivi, p. 466). Nella nota anteposta al testo (ivi, p. 279) il curatore identifica “M.” con il poeta Eugenio Montale; non avanza ipotesi su L. e G., che potrebbero essere rispettivamente Mario Luzi (tra le altre cose L. cita un verso di Mallarmé) e Carlo Emilio Gadda (Gadda è ricordato da Bassani anche nel sogno del 1950). Per altre informazioni sui mesi trascorsi da Bassani a Firenze e in particolare sulla sua amicizia con Manlio Cancogni e la frequentazione dei caffè dei letterati, dove incontra tra gli altri Antonio Delfini e Carlo Levi, si veda la Cronologia a cura di Roberto Cotroneo in Giorgio Bassani, Opere, a cura di Roberto Cotroneo, Mondadori, Milano 1998, in part. pp. LXX-LXXI; rimando anche Manlio Cancogni, Gli scervellati, Diabasis, Reggio Emilia 2003, in part. pp. 200-202 (Bassani dopo l’8 settembre si nasconde sotto lo pseudonimo Giacomo Marchi; tra le cose che uniscono Bassani e Cancogni c’è anche la passione per il grande Bologna degli anni Venti e Trenta).
Anche Un sogno è un titolo assegnato dal curatore dell’antologia citata. Il testo non è inedito: fu pubblicato in “Paese Sera” il 18 aprile 1971, in una rubrica curata da Lucia Alberti, e quindi da Paola Bassani, Mio padre, Giorgio Bassani, in Giorgio Bassani: la poesia del romanzo, il romanzo del poeta, a cura di Antonello Perli, Pozzi, Ravenna 2011, pp. 267-269 (vedi la nota in Bassani, Racconti, diari, cronache cit., p. 472).
- Su questo, si può vedere anche, sul nostro sito, il saggio di Marcella Hannà Ravenna del marzo 2017. [↩]