di Angelo Vianello, a cura di Giannarosa Vivian
Questo ricordo dell’8 settembre 1943 è tratto da un manoscritto inedito di Angelo Vianello (Pellestrina 1922-Campalto 1999). Ortolano, reduce dalla ritirata di Russia, viene a sapere dell’armistizio nella caserma di Montorio, oggi periferia di Verona. Fatto prigioniero dai Tedeschi, sente che è giunto “il momento di lottare per la mia libertà”: rifiuta l’arruolamento nei reparti militari italo-tedeschi, abbandona lo zaino, prende con sé una borsa con vestiti borghesi messi da parte in precedenza, e con un commilitone s’infila in un tombino di scarico delle fogne.
Dunque [… ] si tratta d’una cosa mia personale accadutami da militare, in un mattino dopo i susseguenti primi giorni dell’otto settembre 1943. Allora mi trovavo a Montorio di Verona, nella caserma, in attesa di nuove disposizioni dopo gli eventi avvenuti con la caduta del Regime Fascista e lo sfasciamento delle Forze Armate.
Io allora ero appena da poco tempo rientrato dal fronte Russo, con le peripezie mie provate con la ritirata in quell’inverno freddo, ma fortunato o graziato di avermi salvato e ritornato in Italia. Ma improvvisamente mi sono trovato come tutti gli altri militari presenti a questo nuovo evento militare, tragico e confusionale, disordinato, e quasi subito immediato, ci siamo trovati presi e dominati dai Tedeschi, che ci disarmarono lasciandoci umiliati, nell’abbandono personale, attendendo notizie tranquillanti nei nostri riguardi da parte dei nostri comandi del reparto del nostro gruppo. Ma che non arrivarono mai, lasciandoci in balia ai Tedeschi.
[…] Così i Tedeschi agirono come hanno voluto, ormai avevano ottenuto il sopravvento, dominando tutto, dalla loro parte, ed erano loro che decidevano, giusto da considerarci prigionieri come bottino di guerra, e per trasportarci via come prigionieri.
Noi già lo immaginavamo che succedeva così, tanto è vero che entro la giornata del 12.9.43 caricarono tutti e li trasportarono via per destinazione ignota. Io a quel punto non ero presente, perché fuggito, e non posso testimoniare altra cosa di loro, dei miei amici. Soltanto qualche ora prima di quel giorno che partirono si sono trovati presenti i miei genitori, che erano accorsi a Montorio per notizie e per vedere di me, come ero, e non mi trovarono, ero già fuggito, soltanto poterono salutarsi con i miei amici, che anche loro non sapevano nulla di me, si può immaginare lo sconforto che avranno provato i miei Genitori nel lasciare gli amici tornando a casa senza una mia notizia. A me mi è dispiaciuto molto di non avere potuto avvisarli e salutarli i miei amici, ma non ebbi il tempo di non poterli nemmeno farli un cenno, per quello che stavo per compiere per la mia libertà, di loro non seppi più nulla poi, e non sono al corrente di nulla, del suo destino di vita.
[…] Ritorno nuovamente in breve a raccontare il Diario sull’argomento precedente (la mia fuga). Era l’8.9.1943. Data dell’armistizio incondizionato. Io quella sera alle ore 19 sentii via radio la notizia dell’evento storico.
Subito rimasi preoccupato del fatto, e dubbioso del suo esito nel suo seguito, e così è stato. Il secondo e terzo giorno ricevemmo ordini confusi e disordinati dai Comandi. Intanto i Tedeschi andavano possessandosi dentro le nostre caserme, per tenerci sotto il suo controllo decidendo l’operato da prendersi su di noi.
Per primo ci radunarono facendoci consegnare le nostre armi, e nel raduno ci esposero un suo suggerimento a noi sbandati, di arruolarsi con loro per formare nuovi reparti militari, ItaloTedeschi, adeguandoli ad una nuova costituzione militare repubblicana per la difesa della Patria. E di quale Patria? Ma […] nessuno si è azzardato d’avvicinarsi ad accettare la sua richiesta inaccettabile da noi, ad eccezione di certi comandanti Italiani, convenuti per i loro scopi, per prolungare la guerra.
Noi invece semplici soldati pensavamo e sognavamo che ci dovessero dare un congedo magari provvisorio in attesa di avvenimenti nuovi, era cosa gradita da ognuno di noi per tornare alle nostre famiglie, per facilitare la pace.
Poi il quarto giorno ci presidiarono nell’interno con carri armati e sparando qualche colpo pazzesco di mitra intimidatorio verso qualche nostro soldato che li stava guardandoli, ferendone due gravemente ai polmoni.
In quei giorni non arrivava nulla da mangiare, e ci arrangiavamo come si poteva o con quello che avevamo. Uno di quei giorni i Tedeschi ci incolonnarono e ci fecero camminare fino al centro di Verona, seguiti da loro come prigionieri scortati dai tedeschi armati di mitragliatori. Ci fecero rimanere poi la notte in un cortile al cielo aperto, per fortuna non à piovuto, al giorno dopo ci incolonnarono facendoci fare ritorno nuovamente.
Io durante il percorso ho consegnato alcuni miei indirizzi di casa a dei civili perché dovessero informare i miei famigliari del nostro caso. Non so io, e non si è saputo nulla, perché ci fecero fare quella dimostrazione di andare e tornare da Verona a Montorio.
Il quinto giorno verso le 6 del mattino i soldati Tedeschi entrarono nelle nostre camerate armati di mitra, invitandoci ad uscire e sgomberare le camerate e raggiungere un posto suo assegnato, portandoci gli equipaggiamenti nostri in dotazione con il zaino; io avevo da parte mia una borsettina di cose mie personali con indumenti borghesi, con un paio di scarpe, questa borsetta la conservavo separata appositamente se mi dovesse essere stata necessaria per qualche eventualità inaspettata, per fuggire e per quello me la avevo accaparrata.
[…] Io subito immediatamente eseguii questo suo ordine, però dentro di me c’era una premeditazione di tentare a fuggire. E proprio in quel momento più critico e assai tragico, perché c’erano intorno dappertutto soldati Tedeschi che ci controllavano i nostri movimenti. Ma forse in quel momento ebbi una ispirazione di decisione forte, ormai per me era giunto il momento di lottare per la mia libertà.
Allora abbandonai il zaino militare con il mio equipaggiamento, ed è ancora lì che mi attende, si fa per dire, mi presi la mia borsettina nella mano, quella non potevo abbandonarla perché pensavo che mi occorreva quella roba per vestirmi poi in borghese e così è stato. Là dentro la borsetta c’era un paio di calzoni borghesi, una camicia, un paio di scarpe e cose intime borghesi con le mie documentazioni, e quello era in quel momento tutta la mia ricchezza.
A quel punto cercai di incontrarmi con un amico collega che lo ritenevo più deciso a seguire questa mia ispirazione, e così è stato, lo informai e acconsentì subito accettando e immediatamente ci scambiammo uno sguardo in silenzio e segreto anche verso gli altri colleghi, perché non c’era altro tempo d’attendere, eravamo agli estremi per decidere, il tempo che scorreva era prezioso e ogni attimo di disattenzione ci poteva costare caro per fuggire, non potevamo ormai pensare più a nulla, si trattava di attimi per salvarci e superare il momento critico dubbioso.
Ma subito si immergemmo dentro, lui davanti e io dietro di lui, verso la botola di accesso del tunnel di scarico della caserma, e così ebbe inizio la nostra fuga, compromessa e rischiosa per la ricerca del nostro destino per la libertà sperandosi soltanto della protezione e della Grazia Divina dandoci subito tanto coraggio e forza per fuggire, e all’oscuro di quello che potevamo incontrare, ed anche perché nessuno à saputo di noi e dove ci trovavamo.
[…] Entrammo dentro una botola d’accesso del tunnel principale di scarico lungo alcuni chilometri e che conduceva il percorso fino al fiume Adige. Noi nulla sapevamo di come era composto e come finiva, e se si accorgevano i Tedeschi della nostra entrata nel tunnel ci avrebbero sparato a zero dentro a dritto filo, quella era la nostra fine che noi avevamo, nessuno veniva più a cercarci, e destinati a putrefarsi assieme alle feci fognarie, intanto proseguivamo a camminare al buio dentro il tunnel centrale, di altezza un po’ più alta di me e di larghezza un po’ più comoda del mio torace, e cammina e cammina, dove vai, io non so, il scivolo dell’acqua e lo spurgo fognario ci arrivava quasi alle ginocchia e il percorso era in discesa, guai se durante quelle ore ci fosse stato qualche temporale alluvionale, si avrebbe riempito la capienza del scarico e noi saressimo stati perduti finendo annegati, quindi la nostra fine era esposta in varie aspettative, salvo la Divinità. Noi in quei momenti pensavamo a salvarsi incoraggiandosi, guai se ci abbattevamo […], tenendosi forti per continuare a camminare, passando piano piano il tempo che scorreva ci sembrava una eternità, sepolti sotto terra parecchi metri senza luce celeste.
Intanto proseguivamo il nostro cammino lasciandoci dietro di noi il buio nero tombale già percorso. Però mantenendoci viva e serena la nostra speranza di avvicinamento man mano che trascorreva il tempo, verso un possibile raggio di luce che ci illuminasse la strada nuova da percorrere.
Intanto con questa fiducia continuavamo il nostro cammino seguito sempre nel buio fitto che lo si può immaginarlo, ma ciò nonostante tutto si sentivamo l’uno con l’altro con le nostre voci, scambiandole per mantenerci in contatto uno con l’altro dimostrando che eravamo ancora vivi e incoraggiarsi per non abbattersi nel nostro stato fisico, anche quella non era una cosa da meravigliarsi perché ci poteva accadere che da un momento all’altro le nostre forze ci venivano a mancare, il che voleva dire sarebbe avvenuta la nostra fine, magari a metà percorso, e nessuno dei due non sarebbe stato più in grado di avvertire della incompiuta nostra fuga se fosse avvenuta così, ma già ormai era più di un’ora che assieme camminavamo collegati assieme e magari per ognuno proseguendolo per proprio conto recitandosi qualche preghiera di fede Divina […].
Per esempio voglio precisare che anch’io personalmente lungo il cammino mi recitavo per conto mio qualche preghierina espressa alla Madonna della Apparizione che si venera a Pellestrina, al quale io ero devoto, ed anche perché lo conservavo e lo portavo con me quel santino con la sua immagine, ed era dalla mia partenza da Pellestrina che camminavo assieme con lui arrivando poi al fronte russo e ritornando poi in Italia in ritirata dal fronte ed ora stiamo attraversando il tunnel per salvarci assieme.
Per me era anche una responsabilità di portare a salvamento il santino con me perché mi era stato a me consegnato dal mio Genitore quando io partii per soldato per essere benedetto. Perché anche il mio babbo l’aveva portato con sé al fronte e tornando poi salvo dalla guerra riportandolo in famiglia il Santino.
Quindi per me in quei momenti critici era presente e importante la fede concepitami fin da bambino dai miei genitori, ed in più era presente in me il monito sulle parole che mio padre mi disse al momento che mi consegnò quel santino, dicendomi figlio mio prendilo e portalo con te e che ti abbia a benedire a fare il soldato come lo portato io con me durante la guerra del ‘18, ritornando poi a casa.
Ora dopo tutte queste perplessità accennate […], cosa succedeva dentro di noi in quei momenti, nei nostri pensieri fantasiosi nella mente, di svariate cose dopo di avere al buio camminato per più di un’ora senza intravedere nessuna segnalazione d’avvertimento di qualche spiraglio di lume almeno per sapere quanto lontano si trovava ancora l’uscita? Ci sembrava di essere all’aldilà del mondo. E quali ostacoli incontreremo ancora prima di raggiungere il fiume Adige? E poi quando l’avremo raggiunto, troveremo qualche buona persona da abbracciare, il dubbio era di trovare invece i Tedeschi o fascisti, e come ci accoglieranno, forse ci fucileranno sul posto? Perché siamo fuggiti? E se invece ci riuscisse di uscire tutto in bene, come faremmo ad evitare questi personaggi poco graditi per poi incominciare ad avviarsi verso le nostre dimore abbastanza lontane e complicate. Il fatto era che ormai i soldati tedeschi avevano bloccato controllando tutte le vie adiacenti verso la libertà. Di questa cosa ne eravamo stati informati prima ancora di fuggire, dalla stampa e dalle notizie vaghe della naia e dai civili.
Ciò nonostante tutto fino a quel punto proseguivamo il nostro cammino, lasciandoci dietro di noi il buio nero tombale già percorso con i pensieri nostri che ci portavamo dietro, in parte non li pensavamo più, ma altri li tenevamo sempre presenti dentro di noi, come per esempio la viva e serena speranza a non farsi perdere il coraggio per un avvicinamento possibile verso la vera libertà di pace e la possibile salvezza da acquistare dopo le tragiche peripezie.
Ma tutto d’un tratto, ad un certo momento, all’improvviso sentimmo un po’ lontano, l’eco di alcune voci rivolte verso di noi, le quali ci invitavano a proseguire il cammino e senza paura, perché loro erano pronti per darci il loro aiuto. Però noi eravamo ancora un po’ lontani e ci fermiamo, un po’ dubbiosi e perplessi di queste voci perché nel medesimo istante ci vedemmo di fronte a noi un raggio di luce che ci illuminava il punto dove ci scandiva l’eco delle voci tutto dall’alto e verso in basso del tunnel che noi due stavamo percorrendo. Ma subito immediatamente ci siamo destati da quell’attimo d’attesa che ci eravamo impressa dubbiosa di tranello, viceversa i nostri occhi poterono rivedere la luce, dopo il lungo percorso del tunnel.
***
Tratto dal Memoriale manoscritto di Angelo Vianello, fasc. 3, cap. 47, pp. 195-203.
Nota. Angelo Vianello (Pellestrina 1922-Campalto 1999) fin da ragazzino fa l’ortolano con suo padre Ménego, e assieme a lui trasporta in barca a remi i prodotti degli orti fino ai mercati di Venezia e di Chioggia. Non ancora ventenne è militare sul fronte russo. Dopo la ritirata di Russia, Angelo si trova nella caserma di Montorio, vicino a Verona, quando arriva l’8 settembre 1943. Alla fine della guerra riprende a fare l’ortolano. Nel 1954 comincia a occuparsi, dapprima stagionalmente, della coltivazione degli orti dell’ospedale di Pellestrina; più tardi, e fino alla pensione, lavora presso gli ospedali Civili Riuniti di Venezia. Nel frattempo, in seguito all’alluvione del 1966, lascia la casa di Pellestrina, ormai inagibile, e si trasferisce con moglie e figlio in terraferma a Chirignago, e in seguito a Campalto.
Dal 1992 al 1997 raccoglie i ricordi della sua vita in quattro quadernoni a righe, dal titolo Memoriale, raggruppandoli per soggetti (genealogia famigliare, lavoro, scuola, storie militari, religione, alluvione del ’66, vita a Pellestrina).
Ringraziamo Elisabetta De Poli e Dario Vianello per aver concesso la pubblicazione.
pietro monai dice
Aggiungo un ultimo commento del sito web montorioveronese.it
leggibile da questo link:
http://www.montorioveronese.it/index.php/menu/tutte-le-notizie87/33-dalla-stampa/6174-fuga-dalle-casermette-l-incontro
Pietro Monai dice
Volevo segnalare che c’è una storia simile sul sito http://www.montorioveronese.it
in particolare:
http://www.montorioveronese.it/index.php/spazio-ai-navigatori-mainmenu-356/81-lettere/3024-fuga-dalle-casermette
e
http://www.montorioveronese.it/index.php/argomenti-mainmenu-353/notizie-mainmenu-354/3315-fuga-dalle-casermette1050
che siano scappati assieme?
Dario Vianello dice
Vi ringrazio di questa iniziativa. E’ un dovere morale conservare la memoria di quello che è successo ai nostri cari. Per quanto ricordo delle cose che mio padre Angelo Vianello raccontava, aggiungo che le voci che si sentivano in fondo al tunnel erano di due ragazzi veronesi, due giovani civili non appartenenti ad alcuna organizzazione precisa. Fu un gesto di umanità, semplicemente. Una volta aiutati a uscire dal tunnel, i due fuggitivi non si trattennero con loro – era troppo pericoloso -; non seppero mai i loro nomi né li rividero in seguito. Verso di loro mio padre ha sempre avuto un pensiero grato per i rischi che anche loro stavano correndo.
manlio calegari dice
ma porca miseria, come si fa a lasciare il lettore sul più bello, perdipiù sapendo che non troverà da nessuna parte il seguito della storia…