di Armando Gavagnin, a cura di redazione sito sAm
Questo ricordo dell’8 settembre è di Armando Gavagnin (1901-1978), veneziano, che aveva alle spalle quattro anni di carcere per antifascismo. Dopo che molti marinai, scappati da Venezia a piedi lungo il ponte verso la terraferma, sono fatti prigionieri dai tedeschi, alcuni esponenti antifascisti – tra cui Gavagnin – tentano di arginare il disfacimento dell’esercito e di predisporre la difesa della città. Risultato inutile un colloquio con il prefetto, corrono all’Arsenale, dove sperano di trovare armi e di organizzare i soldati che si trovavano ancora nelle caserme.
Il martirio dei nostri fratelli avviati in campo di concentramento, chiusi in carro bestiame e spediti non come bestie, ma come cose, subì a Venezia una modificazione: soldati e marinai, con i relativi ufficiali, incolonnati, furono avviati a piedi lungo il ponte che si chiamava allora del Littorio e si chiama oggi della Libertà, affiancati da soldati tedeschi armati di mitra. Contemporaneamente transitavano per il porto piroscafi carichi di altri fratelli nostri, prigionieri e affamati.
Nella serata di quello stesso giorno 8 giunse notizia, non controllata, che i tedeschi fossero a Osoppo. Nella nottata seguirono febbrili trattative per la formazione di un corpo di volontari e al mattino del 9, in una riunione dei partiti convocata in casa dell’avvocato Cerutti, ancor prima che fosse noto il precipitare della situazione, fu deciso di mettersi decisamente all’opera.
Alla cittadinanza venne lanciato un manifesto che avevo preparato durante la notte: «Se eventi ancor più dolorosi dovessero insanguinare il nostro caro suolo, sia finalmente il popolo d’Italia, a fianco dei suoi fratelli in armi, un’anima sola». Pubblicato sulla «Gazzetta di Venezia» (che era l’edizione pomeridiana del «Gazzettino»), fu in serata diffuso da radio Londra e ripubblicato l’indomani sul «Gazzettino».
Nella stessa riunione proposi che i rappresentanti dei partiti si recassero immediatamente dal prefetto a chiedere il suo attivo appoggio presso le autorità militari, perché fossero fatti saltare i ponti sui fiumi e fosse organizzata la resistenza, arginando il pauroso disfacimento militare. Accolta la proposta, fu formata la commissione: Arduino Cerutti per il partito socialista, Augusto Ambrosi per la democrazia cristiana, Enrico Longobardi per il partito comunista e io per il partito d’azione.
Il prefetto fu pienamente d’accordo e telefonò subito a Treviso per rendere possibile l’incontro immediato col comandante di quel corpo d’armata, nella cui zona dovevano avvenire le operazioni.
Altra telefonata alla prefettura, perché Silvio Trentin, tornato dall’esilio di Francia e che noi dovevamo festeggiare proprio in quel giorno, aspettasse all’arrivo del treno i rappresentanti dei partiti e con essi si recasse dal comandante militare.
Ma proprio mentre stava avvenendo il commiato ecco un colpo di scena. Telefona da Padova il generale Gariboldi, comandante di quella piazza, informando che le prime avanguardie tedesche sono in città. Il prefetto rimane impietrito.
Inutile quindi il viaggio a Treviso, inutile pensare ai ponti sul Tagliamento se i tedeschi sono a Padova. Mentre Trentin vanamente aspetta il treno, noi filiamo all’Arsenale dal comandante in capo del dipartimento marittimo, succeduto al duca di Genova, che ha appena tagliato la corda: ormai non c’è che da pensare alla difesa della città.
Colloquio lunghissimo, due volte interrotto da un marinaio, il quale viene ad avvertire che la tavola è pronta. L’ammiraglio è irremovibile, vuole attenersi alle disposizioni (che non ci sono), considera qualsiasi difesa impossibile contro i carri armati tedeschi anfibi che verrebbero certo messi in azione, non vuol far saltare il ponte perché significherebbe lasciare senz’acqua la città.
I rappresentanti dei partiti tengono duro. Contro quella disgraziata logica faccio appello al sentimento: «Non è grande il soldato che ubbidisce alle disposizioni, ma quello che si batte per salvare l’onore della patria. Occorre un esempio che rianimi: i soldati e il popolo saranno dietro il condottiero». Niente da fare: l’ammiraglio ha fatto carriera al ministero e rimane attaccato a terra: i voli, quelli della fantasia come quelli di gloria, gli sono ignoti.
Si tenta allora di lasciare in disparte la sua persona. Permetta che i rappresentanti, quasi tutti veneziani, parlino ai marinai che sono ancora in Arsenale e nelle caserme, ma che seguiranno presto l’esempio di quelli che si sono eclissati o finiranno nei campi di concentramento, e con essi tentino la difesa ai margini della laguna, inquadrati dai volontari che sono desiderosi di battersi. E fallita anche questa richiesta, dia almeno le armi perché i volontari se la vedano col tedesco.
Ma è come pestare contro il muro. L’ammiraglio ha altro da pensare (la minestra diventa fredda) e armi non ne ha né per i marinai né per i volontari, armi non si possono assolutamente trovare e poiché senz’armi non ci si batte, è inutile insistere.
Risolutamente si alza, imitato solo a distanza di tempo. Il giorno dopo, la farsa nella tragedia: «In seguito ad ispezioni militari che richiedono la sua personale presenza, il maresciallo Badoglio è attualmente fuori Roma. Il maresciallo Caviglia ha assunto ecc. ecc.». Che disastro!
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Tratto da A. Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Einaudi, Torino 1957, pp. 428-430 (ristampa Comune di Venezia, Venezia 1979, pp. 422-424).
Nota. Armando Gavagnin (1901-1978), veneziano, di famiglia operaia (il padre lavorava all’Arsenale); repubblicano, licenziato nel 1923 dalle Ferrovie per antifascismo, si trasferì a Torino; redattore del Gazzettino dal 1924, s’iscrisse a Economia e commercio a Ca’ Foscari, dove frequentò Gino Luzzatto e Silvio Trentin (il primo fu costretto a dimettersi da rettore, il secondo andò in esilio); arrestato nel 1928, fu condannato dal Tribunale speciale a sette anni di carcere; liberato nel 1932 per amnistia. Nel 1943 Gavagnin era membro del Partito d’Azione. Nel 1958 sarà per alcuni mesi sindaco di Venezia; dal 1961 al 1969 eletto nelle liste del PSI e vicesindaco.
Oltre a Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, pubblicò i suoi ricordi di prigionia (Una lettera al re, La Nuova Italia, Firenze 1951; Edizioni Avanti!, Milano 1960).