di Piero Brunello
Claudio Pasqual, in un intervento pubblicato qualche settimana fa, ha ricordato lo scontro avvenuto il 27 ottobre 1848 a palazzo Taglia «vicino ai Cappuccini, vale a dire l’edificio di via Costa che ospita oggi l’asilo nido comunale “Chiocciola”». Piero Brunello ha ripreso le testimonianze su quell’episodio, limitandosi alle fonti di parte italiana. Il contesto è quello della sortita che i volontari italiani, che difendevano Forte Marghera, fecero contro le truppe imperiali che tenevano Venezia sotto assedio sin da giugno. Se ne ricava, tra le altre cose, che chi fece il Quarantotto non era restio a fare la guerra: erano le armi a stabilire amicizie e complicità maschili, attraverso la guerra si selezionavano i fratelli, categoria dalla quale i soldati croati, fedeli all'imperatore, erano esclusi. Ritroviamo insomma molti dei temi messi in luce nel quaderno numero 12, al quale rimandiamo i nostri lettori.
1. La testimonianza più dettagliata è quella di Antonio Morandi, allora colonnello, presente ai fatti. Dopo anni di esilio in Inghilterra, nel 1848 Morandi si trovava nel Peloponneso, dove comandava la gendarmeria che dava la caccia ai briganti. Arrivato a Venezia nel settembre 1848 con i volontari del battaglione “Italia libera”, fu spedito a forte Marghera, e un mese dopo partecipò alla sortita. Tornato nel Peloponneso dopo la resa di Venezia alla fine agosto 1849, fu messo in carcere, dove scrisse le sue memorie, da cui traggo alcune notizie.
Innanzitutto Morandi descrive il palazzo, che chiama “Talia”, o “Talia Bianchetti” (ma in tutti gli altri documenti viene chiamato “Bianchini”). Il palazzo era situato nel mezzo di un vasto cortile con attorno un muro di cinta alto quattro metri. Ci si entrava per due cancelli: davanti uno di ferro, elegante, per le carrozze dei signori, e uno dietro, di legno, per i carri e la servitù che accedeva in questo modo alla cucina, alla scuderia e alla cantina. All’entrata del palazzo «un’ampia scalinata di pochi gradini»; all’interno «una larga loggia» con una scala che portava al piano superiore, dove si erano asserragliati dei Croati che sparavano dalle finestre.
Secondo Morandi quel palazzo era stato requisito dagli austriaci, arrivati a Mestre nel giugno 1848, come alloggio per gli ufficiali, o come caserma o come deposito: fatto sta che lì si erano rifugiati molti soldati austriaci, secondo Morandi cinquecento, dopo che il resto delle loro truppe si era ritirato lungo il Terraglio, lasciando Mestre in mano dei volontari italiani.
Morandi ricorda di essersi trovato davanti al palazzo, dove i volontari avevano piazzato due pezzi di cannone. Lì vide morire un giovane pisano per un colpo di fucile, e ricevette le sue ultime parole. Poi salì sul «piccolo campanile» della chiesa vicina per capire come dirigere l’attacco, ma nel frattempo volontari e cittadini si erano mossi di propria volontà: chi cercava di salire con scale per il muro di cinta, chi faceva buchi sul muro per farne delle feritoie. Altri «condussero davanti il portone di dietro un gran carro che trovarono carico di fieno, scalcinarono i cardini del pesante rastello di legno, lo fecero cadere, e 18 a 24 uomini, messisi alle ruote, altrettanti posti retro», lo spinsero sin dentro «la porta interna del Palazzo». I Croati abbandonarono gli edifici e le rimesse del cortile e si rifugiarono dentro il palazzo, e così vennero colpiti dalle fucilate. Chi si salvò, raggiunse le finestre del piano superiore.
Morandi ordinò ai suoi di cessare gli spari e incaricò il napoletano Giuseppe Rosaroll Scorza di offrire la resa agli assediati. Rosaroll, all’epoca quarantenne, sarebbe stato ucciso l’anno dopo nella difesa del ponte ferroviario sulla laguna; suo padre era morto combattendo per l’indipendenza della Grecia. Rosaroll legò un pezzo di tela bianca sopra una lunga canna e diede la bandiera al trombettiere, che entrò dal cancello davanti. Una fucilata dal palazzo lo colpì al braccio. Al grido di “tradimento!”, i volontari ripresero a sparare. Una cannonata abbatté il cancello di ferro. Il carro di fieno, già spinto sotto il portone sul retro del palazzo, fu dato alle fiamme. Subito dopo i volontari entrarono nel palazzo da entrambi i lati. Morandi, che rimase fermo all’entrata del cancello di ferro e poté sentire che cosa stava avvenendo ma non vedere, parla di una “orribile carneficina”, e la descrive così: «era un torrente che prepotente v’irrompeva dentro… Da prima sentissi qualche cupo colpo di fucile; poi porte, mobiglie, usci, cristalli e vetriate infrante cadere in fascio, e far fracasso; poi un acuto tintinnio di ferri, un dimenarsi e battersi ad arma bianca, indi profondi lamenti, accenti di dolore, ed urli tetri, spaventevoli, precursori di morte al di dentro; e poi, l’improvviso apparire de’ nostri sul tetto che volavano quai demoni in cerca d’anime, o di bottino, mentre altri più burbanzosi, spiritati, lordi di sangue affacciaronsi alle finestre a cantar vittoria, vantandosi col dire “tutto è finito, li mandammo a Dio”».
2. Tra i primi a scavalcare il muro fu Felice Orsini, che dieci anni dopo avrebbe attentato alla vita di Napoleone III, e per questo sarebbe stato condannato a morte. Assieme ad altri volontari, Orsini ricordò di aver sfondato il portone d’entrata. Fu probabilmente in quell’occasione – o comunque nel corso del combattimento di quella giornata – che il sedicenne bellunese Carlo Di Rudio conobbe Orsini, già trentenne, con cui avrebbe preso parte all’attentato a Parigi: prima di finire alla Caienna, fuggire dall’Isola del diavolo, arruolarsi nel Settimo cavalleggeri del generale Custer ed essere uno dei pochi bianchi superstiti nella battaglia di Little Big Horn. Entrambi ricordano, seppure en passant, questa vicenda.
3. Dal cancello Morandi assistette a una “inconcepibile scena”, e s’interpose per fermarla. Scrive: «Quand’ecco, vidi un uomo indossando lungo cappotto con cappuccio di panno scuro nero, stretto ai fianchi d’una fascia di lana, o seta rossa, infangato fino alle ginocchia, legata la testa d’un grossolano pezzo di tela bianca, tenendo in pugno un fucile a baionetta, slanciarsi contro quegli sfortunati che per scampare la morte dal furore di quelli che entravano pel portone davanti, sbucavano tra fumo e fiamma dall’altro dietro il cortile, ed in atto affannoso, furibondo, farsi largo, imporla con gesti, voce, e minaccia, ai vicini, e sbracciarsi, ed affaccendarsi per vibrar solleciti colpi a due mani su quella nemica carne umana, agendo a tuta possa, e gridando a tutto fiato “Questo per mio padre!… Questo per mia madre!… Questo pel mio fratello maggiore!…Questo per mia sorella!… Questo…” ma non poté finire perché ero corso, giunsi a prenderlo pel cappuccio, lo tirai con forza a me, perdé l’equilibrio, e voltossi furente e minaccioso per vedere l’importuno che gli toglieva la preda: ei mi riconobbe, gli caddé l’arma, immobile restò, e da infuocati che aveva faccia ed occhi, divenne olivastro; livida bava gli scorrea giù per le mascelle mista a sudore; sangue gli irrigava le tempia e gote, tremava da capo a piedi, ed alzando le braccia al cielo fervorosamente pronunziò queste terribili parole: “Ah, …. grazie ti rendo, mio buon Dio,… sono soddisfatto… e se peccai perdonami il fallo!…” E poi trucemente fissandomi: “Tu pure uomo, me lo perdonerai come mio colonnello! avevo sete di sangue!… non ho più famiglia!!” e sì dicendo, dirotte grosse lagrime gli cadeano dagli occhi, e proseguì: “Costoro in Milano, in casa mia, sotto i miei occhi, me la scannarono tutta,… sette furono i morti, ed io creduto l’ottavo fui lasciato frammisto ai cadaveri de’ miei cari per estinto, e solo per miracolo scampai!… Ora muoio contento, accompagnato da queste quattro carogne di ludri che mi fan corona”; e nel sì dire guatò que’ corpi stesi al suolo in atto di disprezzo, diede un forte calcio ad un che tirando l’ultimo respiro scuoteva le gambe, rallegrossi alcun che nel viso, ma non passò un istante, che esangue cadde boccone a’ miei piedi: dal capo il sangue gli sgorgava per ogni verso giù pel mento, collo, nuca rendendolo così un Ecce Homo. Una palla gli aveva aperto il cranio. Lo lasciai per morto».
4. Secondo Morandi, i soldati austriaci uccisi furono un centinaio. Gli altri furono fatti prigionieri e scortati a forte Marghera: «Ognuno di questi prodi tenendo stretto sotto il braccio un croato discesero nel cortile, si ordinarono in fila per quattro; nel secondo e terzo rango v’erano i prigionieri, marciarono pel fianco tenendo nell’opposta mano il fucile con baionetta in canna le più imbrattate di sangue e materie umane, minacciando chiunque gli si avvicinasse per recare offesa ai loro protetti schiavi. Mi diffilarono davanti avviandosi pel Malghera. Erano 300 e più que’ miseri, tutti dimessi, abbattuti, squallidi, come altrettanti agonizzanti che stan per rendere i loro conti all’Eterno; non avevano cintura né tiranti, e sciolte le braghe con ambe le mani se le tenevano su, usanza del lor paese in segno di sommessione, d’irresistenza, e d’impossibile tentativo di fuga o ribellione». Morandi scrive in nota di non aver approvato i volontari che «trattavano que’ prigionieri sì scandalosamente». Aggiunge poi di aver dovuto far scortare i prigionieri fino al forte «onde difenderli e sottrarli da popolare vendetta».
5. Un particolare sulla resa dei Croati viene registrato dal triestino Giovanni Orlandini, accorso a Venezia dopo la rivoluzione, il quale in una lettera a un amico di due giorni dopo scrisse che i Croati avevano combattuto fino all’ultimo, arrendendosi solo dopo finite le munizioni «dicendo “mi star bono con italiano”».
6. È ancora Morandi a fornire qualche particolare sulla morte di Alessandro Poerio, che aveva voluto seguire da lontano i volontari comandati dal generale Pepe, benché fosse «quasi cieco, totalmente sordo, e d’una complissione delicatissima». Entrato in Mestre, Poerio, invece di proseguire per la strada che oggi porta il suo nome (allora contrada delle Monache), «prese strada diversa, s’incamminò in quella che conduce al palazzo Talia la metà della quale era ancora occupata dal nemico, e nel passare davanti la porta d’una casa s’imbattè con croati che sortivano, fuggivano, ed a bruciapelo mortalmente lo ferirono».
7. Teodoro Ticozzi, che gestiva con il fratello una cioccolateria più o meno dove adesso c’è il centro commerciale Alle Barche, tenne un diario. Era lombardo, di Lecco, aveva quasi quarant’anni, non era sposato e viveva con il fratello e con il padre. Sarebbe morto l’anno dopo, di colera. Alla data 27 ottobre registrò il tempo «giornata con caligo»; la sortita «a buon’ora» di «quelli dei forti»; la morte di un conoscente, Nani Sartorello, colpito da una fucilata. Ricordò anche l’episodio di palazzo Taglia («palazzo al di sotto del Pavan in quell’orto»), dove i Croati «fecero una bella resistenza, indi terminata la munizione si resero prigionieri». I prigionieri portati a forte Marghera erano «circa n. 160, con 6 ufficiali, un Capitano, ed un Maggiore». S’intuisce che Ticozzi era uscito di casa per seguire gli avvenimenti, perché scrive di aver rischiato la morte, «ed invece mia restò colpito Sartorello».
8. Sulla morte di Nani Sartorello abbiamo la testimonianza, a distanza di quarant’anni, di Placido Aldighieri. Nel 1848 Aldighieri era un ventenne commesso da un merciaio, di famiglia modesta. Il padre, veronese, aveva studiato fino al ginnasio e aveva sperato che il figlio si facesse prete; la madre, trevigiana, stirava e cuciva in casa, anche di notte (così ricorda il figlio), alla luce della lampada a olio. Il 22 marzo 1848 Placido lasciò il negozio, corse da una famiglia di conoscenti, i De Marchi, che stavano nel borgo delle Caneve, dietro il municipio, si fece dare un fucile da caccia dalla signora Rosa e raggiunse la folla che occupò forte Marghera. Poi riparò a Venezia. Nei suoi ricordi, il giorno della sortita, partiti gli austriaci per il Terraglio, Sartorello, che faceva il barcaiolo, partecipò al saccheggio in una caserma abbandonata, e stava tornando verso casa con alcune pagnotte di pane. Arrivato alla strada Mestrina, si diresse verso le Buse, oltrepassò l’officina del maniscalco, e fu colpito da una scarica di fucili. Fu portato cadavere in una casa vicina. I tamburi suonarono a raccolta e cominciò l’assalto al palazzo Taglia da cui provenivano gli spari.
9. A differenza di Morandi e dei volontari, che vedono ordini, azioni coordinate e strategie, Aldighieri mostra l’opera del caso e dell’imprevedibilità. (In parte lo si capisce anche dalla testimonianza di Morandi: sale sul campanile per coordinare l’azione, che però nel frattempo comincia senza di lui.) Antonio Scotton, che vendeva carne e vino, prestò una decina di botti, dietro cui i volontari italiani poterono ripararsi e prendere la mira. Per salvarsi dai colpi, gli austriaci, che prima erano disposti fuori del palazzo per controllare sia la strada che portava alla Mestrina sia quella che portava alla chiesa dei Capuccini, si ritirarono dentro il palazzo. Arrivarono due cannoni, azionati da due giovani polacchi, che furono subito uccisi: Aldigheri, a meno che non sia un errore nella trascrizione del manoscritto, li chiama Mishievitz e Demborivsti. I “nostri” scardinarono il cancello di ferro e si precipitarono al portone, che però resistette. Per caso fu trovato un foro da cui entrare, sul retro del palazzo. Tre volontari trovarono della paglia, la introdussero dentro l’edificio e diedero fuoco. Gli austriaci dovettero aprire porte e finestre. «I nostri soldati che stavano alle porte del palazzo Taglia istantaneamente vedendosi aprire le porte senz’altro pensare, con le appuntate baionette, con le affilate daghe, e con i calci dei loro fucili cominciarono a dar giù a destra e a sinistra senza pietà, dimodoché in un attimo quelle stanze erano ridotte un vero macello». I comandanti dei volontari s’interposero «in mezzo alle baionette dei nostri e degli austriaci», cercando di persuadere i «nostri soldati a voler smettere a quella inumana carneficina e accontentarsi infine che da quel momento i soldati Austriaci erano nostri prigionieri, e perciò era nostro dovere, e dovere umanitario di trattarli più che bene». I prigionieri furono schierati nel cortile, «di poi in colonna furono condotti a Marghera fra i fischi della popolazione».
10. I due giovani polacchi non furono gli unici stranieri quel giorno dalla parte degli italiani. Jules Jacques Dumontet era uno studente universitario francese che nell’aprile 1848 si arruolò con una legione di volontari italiani formatasi a Parigi. Dopo aver combattuto in Lombardia, si spostò a Venezia e difese forte Marghera. Anche lui era addetto ai cannoni. All’assalto di palazzo Taglia si trovò vicino ai due giovani polacchi che vi trovarono la morte: fu ferito a una gamba da una fucilata, e un’altra palla gli spezzò la sciabola. L’anno dopo, al momento della resa, si sarebbe imbarcato nel vapore che portò Manin e gli altri quaranta proscritti dall’Austria, dapprima a Corfù e quindi a Marsiglia.
11. Nel raccontare a un amico lo scontro di palazzo Taglia, il volontario bolognese Luigi Busi vantò l’eroismo del suo battaglione e fu reticente sulle scene dell’assalto al piano superiore del palazzo: «Dopo poco tempo eravamo quasi padroni della città, non rimanendovi che un centinaio di croati, un capitano ed un tenente, che si erano rinserrati in una casa del sobborgo con corte circondato da un muro, i quali, dopo due ore di ostinata resistenza, furono presi anch’essi. Io ti dirò che ho provato grande soddisfazione nel vedere questi croati ginocchioni domandare in dono la vita, come pure mi era dolce il poterne salvare alcuni, impedendo ai soldati d’ucciderli; perché, come sai, nelle masse ci sono sempre quelli che inveiscono anche contro i prigionieri ed i feriti. Insomma i nostri soldati hanno mostrato col fatto di essere veri figli dell’eroica Bologna!».
12. Il conte Augusto Aglebert, quasi quarantenne, bolognese, faceva il giornalista e l’attore di teatro. Nel giugno 1848 raggiunse Venezia con un battaglione di volontari e fu destinato a forte Marghera, sentendosi felice nel trovarsi «in un nuovo mondo, nel mondo dell’ideale, del bello, e fra italiani e fra fratelli, ma fratelli in tutta la forza dell’espressione vera di questa parola nazionale». In un primo tempo i bolognesi dormirono a cielo aperto. Quando ebbero delle baracche di legno, non potevano prendere sonno «a cagione della infinita moltitudine di pulci, cimici, zanzare, ed anche, in minor quantità, di pidocchi». Le baracche non tenevano la pioggia; molti gli ammalati di febbre; alcuni senza scarpe. Il 27 ottobre Aglebert partecipò alla sortita con i suoi. Il giorno dopo scrisse alla cognata elogiando la guerra e il comportamento del suo battaglione, e disapprovando, ma anche lui in modo reticente, la carneficina nel palazzo Taglia: «Ieri fu per me una delle più belle giornate della vita: oh è pur poetica la guerra, e più dolce l’ebbrezza del trionfo! Per la verità il valore generale fu sommo: l’impeto e il coraggio dei lombardi, e il sangue freddo, l’ardire, la disciplina del nostro battaglione si resero sopra ogni altra cosa ammirabili. […] La strada di Mestre fu coperta di cadaveri nemici: facemmo circa 350 prigionieri, fra i quali 3 ufficiali, prendemmo carri di munizioni, bagagli, viveri, marmitte e tre pezzi di cannone, oltre una quantità immensa d’effetti. […] La giornata non poteva essere né più bella, né più ricca di risultato. Fu tale l’accanimento che, per cinque ore, una compagnia di croati resisté nel palazzo Talia, e quando noi eravamo già padroni di Mestre e i tedeschi erano vinti, il cannone non bastò a costringerli alla resa, ci volle il fuoco e l’assalto: fu una presa veramente ammirabile. Vi dirò che mi dava un momento fastidio a veder squarciare quei croati, che avevano fatta una così eroica resistenza. Terminato il fuoco anche della casa, e seguita la resa, venni a Venezia portando meco un pennacchio d’un cannoniere tedesco. Quanti siano gli elogi che si possono fare del nostro battaglione, non saranno mai sufficienti […]. La giornata fu una delle più belle che si abbiano avuto nella campagna dell’indipendenza, e solo mi duole che abbiamo dovuto abbandonare quella posizione, che non è tenibile».
13. Ho cercato immagini dell’episodio. Ne ho trovate un paio, pubblicate in un romanzo storico di Eugenio Guazzo pubblicato a Milano nel 1865, quando Venezia era ancora sotto l’Austria: mostrano l’assalto al portone principale, guidato da un trombettiere, e il corpo a corpo al piano superiore del palazzo.
A mo’ di conclusione
Le testimonianze che ho citato riguardano esclusivamente lo scontro di palazzo Taglia. Altri aspetti della giornata del 27 ottobre, non ancora indagati, meriterebbero un’analisi. Per fermarsi solo al racconto di Morandi, ne segnalo tre: la storia della cassa sottratta agli Austriaci, con migliaia di svanziche, che non arrivò mai a Venezia; le voci secondo cui gli Austriaci erano stati informati in anticipo della sortita da qualche spia; la vicenda dell’uomo, ebreo austriaco (ma secondo altri ungherese), trovato nascosto dentro un armadio dell’alloggio del comandante militare austriaco, accusato di essere la spia tanto da rischiare il linciaggio, e contro cui l’ostilità antiaustriaca si mescolò all’antisemitismo cattolico (“l’ebreo, l’infame spia, il Giuda, il mostro”, “l’Iscariotto”, “quella sua razza crucifisse il Redentore del mondo”).
Fonti
P. Aldighieri, Memorie di un veterano 1848-49, Associazione civica per Mestre e la terraferma, Mestre 1961.
C. Crespi, Per la libertà! (Dalle mie conversazioni col Conte Carlo di Rudio, complice di Felice Orsini), San Francisco 1913.
A. Dallolio, La difesa di Venezia nel 1848 nei carteggi di Carlo Berti Pichat e di Augusto Aglebert, Zanichelli, Bologna 1919.
J.J. Dumontet, Un volontario francese alla prima guerra d’indipendenza 1848-1849 il tenente di artiglieria Jules J. Dumontet, Con i tipi di Brugora, Milano 1953.
E. Guazzo, Venezia negli anni 1848-49. Racconto illustrato, Fratelli Boroni, Milano 1865.
A. Morandi, Il mio giornale dal 1848 al 1850 del generale in ritiro Antonio Morandi per servire alla patria storia contemporanea, Andrea Ferrari, Modena 1867.
F. Orsini, Memorie politiche, Degiorgis, Torino 1858.
G. Stefani, Giuliani e Dalmati nella prima guerra d’indipendenza, in La Venezia Giulia e la Dalmazia nella rivoluzione nazionale del 1848-49. Studi e documenti raccolti e pubblicati a cura del Comitato Triestino per le celebrazioni del Centenario, III, Del Bianco, Udine 1949 (lettera di Giovanni Orlandini al dottor Da Camin, Venezia 29 ottobre 1848, p. 53).
T. Ticozzi, Diario 1848-49, Centro studi storici, Mestre 1968.
Conviene partire da V. Marchesi, Storia documentata della rivoluzione e della difesa di Venezia negli anni 1848-49 tratta da fonti italiane ed austriache, Istituto veneto di arti grafiche, Venezia s.d. [1913].
Renato Rossetto dice
Ci sono delle imprecisioni sulle descrizioni. 1° I croati si erano insediati nella villa senza che nessuno si fosse accorto. Solo una errata fucilata uccise un oste nell’angolo tra via Ca’ Savorgnan e Mestrina, solo allora gli insorti, già sicuri che i combattimenti fossero finiti, si resero conto dei croati, gli stessi che erano fuggiti dalla stazione alla fine del breve combattimento e che non si erano potuti congiungere con quelli del ponte della Campana già corsi verso il Terraglio. Gli insorti allora, arrabbiati per l’omicidio si misero di buona lena a vincere i croati. Qui si inseriscono i due cannoni che dalla Campana vennero messi in batteria nell’attuale piazzetta San Carlo e i due artiglieri polacchi iniziarono il bombardamento contro il muro e la casa. Una volta vinti i croati gli insorti non fecero prigionieri, poiché li sgozzarono tutti. A proposito la casermetta depredata di trattava dello Stallo Venezia al civico 88 requisito dagli austrici fin dai primi giorni ed all’interno della soffitta nell’anno 1954 venne ritrovata una grande quantità di cartucce (fatiscenti perché di carta) di quell’epoca. A riguardo al cioccolatiere Ticozzi, egli aveva una vera fabbrica di cioccolate che commerciava con buona resa con Vienna, durante i lavori del Nuovo Coin furono trovare una grande quantità di formelle in ceramica per le tavolette. Il francese Dumontet continuò in Polonia a combattere con gli insorti nella rivolta “D’inverno” del 1861.
Carlo dice
Oggi, nell’era dell’Euro, ci sembra così differente l’Europa di poco più di cento anni fa. Speriamo che, almeno sotto l’aspetto della pacificazione, duri tanto. Un abbraccio agli amici, ma anche ai miei concittadini del mondo.