di Carlo Cassola
Per ricordare un doppio anniversario – la caduta del fascismo e il centenario della nascita di Carlo Cassola (1917-1987), che abbiamo già menzionato qualche tempo fa – ripubblichiamo un articolo del 1945 in cui Cassola rievocava cose viste e sentite e sentimenti provati in un piccolo paese costiero il 25-26 luglio 1943. L’articolo uscì il 2 ottobre 1945 sull’edizione pomeridiana della “Nazione del Popolo”, il quotidiano del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale, giunto ormai ai suoi ultimi mesi di vita. Qualche altra indicazione in una nota finale.
Il 25 luglio io mi trovavo in un paese di mille abitanti, tenente in un battaglione costiero. La sera del 25 avevo la febbre e andai a letto senza cenare, prendendo due compresse di aspirina.
La mattina la febbre mi era passata. Pochi minuti prima delle otto l’attendente entrò in camera portandomi la notizia. Peraltro di lui non c’era troppo da fidarsi: la sensazione che la cosa fosse vera l’ebbi andando alla finestra, quando vidi un gruppetto di persone che parlavano animatamente, e tutti mi apparvero eccitati e ilari in volto: spalancai la finestra: – È vero? – gridai. Ma, ripeto, ero già certo che fosse vero prima ancora che quelli mi dessero la risposta in coro, coi visi rilucenti di contentezza.
Poco dopo la radio lesse i proclami del re e di Badoglio. Naturalmente la frase: «la guerra continua» non mi andò giù, ma non ci badai troppo. Mangiai e mi vestii. In tante altre occasioni mi accade di entrare in uno stadio di orgasmo: e magari si tratta di contingenze minime: l’attesa di una partenza o di una visita, la lettera di un amico, una festicciola, una gita. Quella mattina invece restai padrone di me: mangiai e mi vestii con rapidità, ma senza perdere la calma.
Le altre mattine usavo trattenermi in casa a leggere o a scrivere, ma quella mattina mi sarebbe stato impossibile restare tra quelle quattro mura un minuto più del necessario. Non vedevo l’ora di essere in istrada, e ricordo che mi sorpresi uscendo nello scorgere la mia vicina di casa tornarsene a casa con la sporta della spesa sotto il braccio. È vero che la buona donna aveva da fare in casa, ma quello era un giorno, mi sembrava, che tutti dovessero riversarsi nelle strade restando lì a parlare, a parlare senza fine: quel giorno non era possibile starsene soli, o nel cerchio della propria famiglia, e tanto meno attendere alle occupazioni abituali. Per conto mio, la prima cosa che dissi al sergente incontrandoli fu di non mandare più gli uomini per una corvée di legna come avevamo stabilito il giorno prima. All’obbiezione del sergente non esserci più un solo pezzo di legno, risposi che per quel giorno si poteva fare a meno di cucinare.
Il sergente pareva poco persuaso, e allora gridai: – Oggi che è andato via quel mascalzone, è la festa più grande che ci sia mai stata.
Alla parola «mascalzone» il sergente fece una faccia spaventata, e io: – Di che ti preoccupi? Da oggi si può dire ad alta voce che era un mascalzone – e mi rivolsi allegramente in giro ricevendo consensi e sorrisi.
Dopodiché me ne scesi alla stazione, portandomi dietro più gente possibile. Il capostazione di servizio era un uomo di mezza età, alto e grosso; provavo per lui un’istintiva simpatia, ed ero perciò disposto a giudicarlo nel modo più favorevole.
I giornali non sarebbero dovuti arrivare prima dell’accelerato, che passava alle dieci; e invece arrivarono col diretto delle nove, perché alcuni viaggiatori ne volarono alcune copie dai finestrini sbracciandosi in segno di esultanza. Ci precipitammo a raccoglierli, ma rimanemmo poi delusi per il fatto che il giornale si limitava a riprodurre i due proclami, facendoli precedere da un commento talmente anodino che alla fine ne sapevamo come prima. Pur tuttavia faceva sempre un bel colpo d’occhio il titolone e le due grandi fotografie del re e di Badoglio simmetricamente disposte. Io non mi stancavo di rimirarlo.
Fu il capo che fece la prima scoperta. – Avete visto? – disse improvvisamente indicando la data. – 25 luglio 1943: niente più XXI Era Fascista.
Il suo aiutante, in un accesso di entusiasmo andava girando per la stanza tutto ripiegato su se stesso, strapazzava il giornale e gridava: – Ah, il mio Badoglio, il mio Badoglio…! Guardatelo – disse fermandosi – che faccia da galantuomo: confrontatela con quella brutta faccia lì – e spiegò il giornale con la fotografia di Badoglio accanto al ritratto del Duce appeso dietro la scrivania del capo. Ci guardava trattenendo il respiro.
Dissi al capo: – Intanto quella fotografia si potrebbe levar di mezzo.
Il capo restò dubbioso.
– Perbacco – feci io – se ne è andato o non se ne è andato?
Il capo continuava a restar dubbioso e io, per non angustiarlo, desistetti. Era straordinaria la benevolenza di cui ci sentivamo pieni in quel giorno. Mi ricordo che il pomeriggio ebbi una discussione con uno squadrista, un certo Bertoletti, un veneto piccolotto tutto nervi, una carogna pericolosa che certamente sarà finito nelle brigate nere: questi diceva che lui era stato squadrista perché i sovversivi sputavano sui mutilati, e ora c’era un governo militare, e quindi niente era cambiato, e perciò continuava a portare all’occhiello il distintivo di squadrista: e io lo lasciai dire e non dismisi nemmeno per un momento i modi urbani e cordiali.
Con l’accelerato delle dieci arrivarono le prime notizie dalla città: formidabili dimostrazioni popolari avevano luogo per le strade, volavano i ceffoni; i gruppi rionali erano invasi, e delle fotografie e dei cimeli si facevano falò sulle pubbliche piazze. Il capo staccò il ritratto del duce, ne tolse la cornice e il vetro, e lo fece a pezzi. Il treno ripartì, le carrozze sfilarono lentamente, sull’ultima c’era scritto: Matteotti, ti vendicheremo.
– Matteotti – disse il capo sporgendosi in avanti e soffiando le parole come se rivelasse un segreto – Matteotti fu fatto uccidere perché aveva le prove… prove incontestabili… che Mussolini durante la guerra s’era imboscato.
Lo avevamo ascoltato tutti con la massima attenzione, e per qualche istante nessuno osò turbare il silenzio.
– Alla Camera dei deputati – disse finalmente il signor Margarozza levandosi in piedi – Matteotti si alzava e diceva: «Quando eravate socialista, voi avete detto così e così… e ora dite così e così e così…». Per questo Mussolini lo fece assassinare. – Si rimise a sedere.
– Mussolini era un vigliacco – interloquì un mio soldato, campano, e per cinque minuti parlò di un duello tra Mussolini e il conte Calvi. Questa non era credibile, ma quel giorno una grande condiscendenza albergava negli animi, e nessuno correva il rischio di venir contraddetto.
Chissà che fine avrà fatto il capo. Penso che sarà ora un uomo stanco, sfiduciato. Ma il 25 luglio il suo entusiasmo, come l’entusiasmo della stragrande maggioranza degl’Italiani, era genuino.
I fascisti viceversa erano gelidi. Il maresciallo di finanza, scuro in volto: – Noi dobbiamo essere dei pilastri – mi ripeteva – in questo momento noi dobbiamo essere dei pilastri. – Livido, il mio collega tenente Sgombri non volle sbilanciarsi e si limitò a dire che se il re lo aveva fatto, era ben fatto.
I giorni seguenti mi cadde di dosso l’animazione che mi aveva spinto a mescolarmi tra la gente. Le chiacchiere antifasciste mi infastidivano, le chiacchiere fasciste m’irritavano. Tornai ad isolarmi. Era cominciata la snervante attesa dell’armistizio.
Nota. Carlo Cassola, 25 luglio in provincia, “Il Pomeriggio. La Nazione del Popolo”, 2 ottobre 1945.
1. Carlo Cassola, nato nel 1917 a Roma in una famiglia che aveva forti legami con Volterra, sin da ragazzo aveva fatto propositi per diventare scrittore. Laureato in giurisprudenza nel 1939, negli anni della guerra alternò le prime prove letterarie, che introdussero negli ambienti delle riviste fiorentine, con i concorsi per diventare insegnante (nel 1940 comincia a Volterra) e i periodi di servizio militare. Nel settembre 1940 si sposò con Rosa Falchi, che era di Cecina.
Nel luglio 1941, sotto le armi a Manarola, nelle Cinque Terre, ebbe l’ordine di far saltare il paese, ma disobbedì, sfuggendo poi alla corte marziale perché la documentazione d’accusa si disperse durante un bombardamento.
Tra il 1941 e il 1942 aderì ai gruppi liberalsocialisti, che avrebbero contribuito a dar vita al Partito d’Azione, al quale fu iscritto dal 1944 al 1946.
Nell’ottobre 1942, dopo aver vinto un altro concorso, cominciò a insegnare nel liceo scientifico di Foligno.
La Cronologia curata da Alba Andreini per il volume Carlo Cassola, Romanzi e racconti (Mondadori, Milano 2007, collana “Meridiani”), da cui ho ricavato la maggior parte delle notizie precedenti, non dice nulla sull’estate 1943. Che Cassola fosse stato richiamato ancora in servizio dopo l’episodio del ’41? Di nuovo sulla costa tirrenica, o su quella adriatica? Insomma, quel “Il 25 luglio io mi trovavo… tenente in un battaglione costiero” introduce un ricordo autobiografico e un racconto? Spero che qualche appassionato di Cassola vorrà aiutarmi con le mie curiosità, o prima o poi mi prenderò il tempo di consultare altri libri.
Com’è noto, dopo l’8 settembre Cassola entrò nella Resistenza, nel volterrano. Pur vicino al Partito d’Azione, insieme ad altri compagni di area azionista (Sandrino Contini Bonacossi, Gianni Facca), militò in una formazione garibaldina, ovvero legata al Partito comunista.
2. “La Nazione del Popolo” (NdP) fu il quotidiano del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN). Preparato nelle riunioni della Commissione stampa del CTLN negli ultimi mesi di occupazione, cominciò a uscire l’11 agosto, annunciando l’insurrezione partigiana e l’inizio della liberazione della città (che si sarebbe completato solo negli ultimi giorni del mese). Il numero del 13 agosto, già pronto, fu sequestrato dalle autorità militari alleate. Per oltre due settimane le pubblicazioni furono sospese, per disposizione della censura alleata. In questo periodo la commissione stampa del CTLN produsse un semplice dattiloscritto fatto quasi solo di notizie d’agenzia dai fronti e dei bollettini della battaglia in corso di Firenze; ma proprio in questa veste scarna e in sostanza a esclusivo uso interno al Comitato, si aprì una importante discussione su come ricostruire il centro storico di Firenze, distrutto dal passaggio della guerra.
La NdP riprese a uscire regolarmente il 30 agosto. A partire dal 19 giugno 1945, a guerra ormai finita in tutta Europa, aggiunse un’edizione pomeridiana, che proprio dal 2 ottobre (data dell’articolo di Cassola) uscì sotto la testata “Il Pomeriggio. La Nazione del Popolo”, che però già l’8 ottobre cambiò in “La Nazione del Popolo – il pomeriggio”.
La storia della NdP sarebbe finita con lo scioglimento dei CLN, compreso il CTLN, il 3 luglio 1946. In seguito a un accordo tra i partiti, il giornale fiorentino sarebbe passato sotto il controllo della Democrazia cristiana, assumendo la testata “Il Mattino dell’Italia centrale”, mentre i partiti di sinistra (ormai privi del Partito d’Azione, che in quei mesi stava esaurendo la sua parabola) aprivano un altro quotidiano, il “Nuovo Corriere” rimasto celebre per la direzione di Romano Bilenchi.
3. Finché rimase organo del CTLN, la NdP fu gestita da una direzione collegiale: un direttore per ciascun partito del CTLN. Nella prima direzione, il Partito d’Azione fu rappresentato da Carlo Levi, che avrebbe mantenuto l’incarico fino all’estate del 1945, quando passò a Roma a dirigere l’“Italia libera” (sono le vicende che Levi raccontò nel suo romanzo L’Orologio, uscito nel 1950). Fu proprio Levi a far entrare Carlo Cassola nella redazione della NdP. I due si conoscevano almeno dal 1942-43, perché entrambi frequentavano gli ambienti letterari e antifascisti di Firenze. C’erano di mezzo anche amicizie comuni, prima di tutto quella con Manlio Cancogni (per Cassola risaliva ai tempi del liceo, a Roma), ma, come abbiamo ricordato sopra, tra i compagni di Cassola nella Resistenza c’era anche Sandrino Contini Bonacossi, molto legato a Levi nel primo periodo della liberazione di Firenze.
Nel 1949, Cassola riconobbe il debito che aveva con Levi: «non dimenticherò mai che fosti tu a infilarmi a “La Nazione del Popolo” in un momento per me disperato dal punto di vista finanziario. Tu risolvesti per me il problema del dopoguerra»1. Per Cassola era un periodo durissimo: pochi mesi prima era rimasto vedevo, la moglie Rosa Falchi era morta ad appena 31 anni.
Fino all’estate del 1952 le loro lettere alternarono discussioni sul calcio a quelle sul titolo e la collocazione editoriale del nuovo romanzo di Cassola, che sarebbe uscito con il titolo di Fausto e Anna proprio nel 1952. Dal canto suo, Levi aveva inserito Cassola (sotto pseudonimo) nella galleria dei personaggi del suo Orologio. Entrambi stavano riflettevano sulle esperienze della guerra e della Resistenza e sulle evidenti continuità – antropologiche prima ancora che politiche – che l’Italia del dopoguerra presentava con quella del regime. (f.b.)
- La lettera si trova in Archivio Centrale dello Stato, Fondazione Carlo Levi, b. 8, fasc. 269, “Carlo Cassola”, 2 giugno 1949. [↩]