di Manlio Calegari
Per ricordare, come di consueto, l’anniversario del 25 luglio 1943, quest’anno riprendiamo alcune pagine di un nostro amico, lo storico Manlio Calegari. A Genova la notte del 25 – quando ancora pochi sapevano delle dimissioni di Mussolini, vista la tarda ora in cui era stato trasmesso l’annuncio – passa tra dubbi e incertezze: non è chiaro se insieme a Mussolini è finito anche il fascismo, oppure no, se la guerra continua, oppure no. Il 26 mattina cominciano le manifestazioni spontanee. Nessuna organizzazione era possibile ancora, anche perché nessuno, per la gioia, “stava più nella pelle e quindi in casa o nei luoghi consueti”: impossibile ritrovarsi per concordare qualcosa, lo spazio pubblico viene occupato da una grande festa collettiva in cui si fanno le prime prove di libertà individuali e di attività politica.
La sera del 25 luglio ’43, alle 22,45, la radio diede l’annuncio delle dimissioni di Mussolini. L’ora tarda limitò la diffusione della notizia. Fu il telefono a selezionare i partecipanti alle prime discussioni. L’indomani tutti parlarono ma la sera del 25, nello sparuto mondo dell’antifascismo e in quello ben più consistente del fascismo fu al telefono che si presero i primi accordi o ci si interrogò.
A Genova, tra gli appuntamenti presi quella notte, uno ebbe un certo peso sugli eventi a seguire. In via Balbi, nello studio abitazione del professor Ottorino Balduzzi (n. 1897), neurochirurgo primario nell’ospedale S. Martino, arrivarono, a poca distanza uno dall’altro, l’ingegner Adriano Agostini (n. 1911), l’impiegato Arturo Dellepiane (n. 1903) e l’avvocato Giovanni Tarello (n. 1881). Tarello, massone, uno degli organizzatori della fuga dall’Italia di Turati, iscritto al PSI fin dal 1904, difensore di perseguitati politici, perseguitato lui stesso, era tra loro il personaggio di maggior prestigio. Dellepiane era considerato il responsabile morale e politico dei comunisti delle fabbriche e quindi del comunismo genovese tout court. Balduzzi, in gioventù militante socialista a Bologna, si era avvicinato ai comunisti verso la metà degli anni Trenta quando, arrivato a Genova, aveva conosciuto Paoletti che a sua volta l’aveva messo in contatto con Dellepiane. Agostini, il più giovane del gruppo, era stato coinvolto nell’inchiesta milanese contro Giustizia e Libertà del 1937 e se l’era cavata con un po’ di confino. Erano tutti comunisti che, come altri avversi al fascismo, popolari, liberali, socialisti, avevano intensamente aspettato quell’evento senza peraltro riuscire a immaginare la forma che avrebbe assunto. Ed ecco che quella sera addirittura la radio, l’informazione ufficiale, annunciava la caduta di Mussolini. In seguito i protagonisti della riunione faticarono a ricostruire le discussioni di quella notte. Agostini si incaricò di scrivere l’arido comunicato mentre l’annunciatore lo ripeteva. Cercavano di interpretarlo: Mussolini e il fascismo erano caduti insieme o era caduto Mussolini e restava il fascismo? Se invece il fascismo era scomparso, come era possibile tornare al sistema dei partiti dato che questi, salvo sia pure modestamente il comunista, sembravano scomparsi da tempo? Nel corso delle ore gli interrogativi più importanti si ridussero a due: erano testimoni dell’inizio di una frana che andava alimentata o era il punto di arrivo di un processo che invece andava difeso dal più che probabile ritorno dei fascisti? Seconda questione: la guerra continuava per davvero – come recitava il comunicato – o si era in procinto di stipulare un armistizio? La pace – la parola era stata tra quelle esplose nella notte quando si erano aperte le finestre attorno alle 23 e dalla strada voci isolate continuavano a rimandarla – sembrava impossibile. Solo gli ingenui potevano pensare di entrare in una guerra e poi uscirne con tante scuse a tutti. L’armistizio, che invece era probabile, restava un interrogativo. I quattro ne discutevano mentre dalla strada saliva un brusio cauto; qualche voce gridava “è finita”, forse alludendo alla guerra o al fascismo o a tutti e due.
Era veramente difficile immaginare il messaggio da lanciare la mattina del giorno dopo, il 26, al cui sorgere mancavano ormai solo poche ore. Perché tutti e quattro erano assolutamente convinti che già da l’indomani mattina sarebbe stato necessario uscire allo scoperto; parlare. Ma cosa sarebbe successo il giorno dopo? Ci sarebbero state manifestazioni di piazza? La notte della notizia inattesa divenne, mentre discutevano, sempre più scura. Era stata l’odiosa monarchia e non gli antifascisti, gli operai, il popolo a liberarli dal fascismo; avrebbero saputo contenerne i ritorni? E se il popolo avesse deciso di andare oltre e riaprire la partita chiusa più di vent’anni prima? Come lo avrebbe fatto: vendette personali, illegalità, “caos”?
Era impossibile, disse Dellepiane, rispondere da soli a questioni così impegnative. Bisognava stabilire i contatti, cercare i compagni operai; sentire il polso delle fabbriche; fare a qualsiasi costo, anche se le strade fossero state presidiate dai militari, una riunione tutti insieme l’indomani mattina, sempre da Balduzzi. Se si era alla vigilia di una normalizzazione costituzionale bisognava essere in prima fila; evitare di perdersi nei conti col passato ma guardare il più possibile ai problemi che incombevano: la liquidazione irreversibile del fascismo e della guerra. Anche se non si sapeva ancora con precisione cosa fosse successo, tutti e quattro erano fermamente convinti che il proclama sentito alla radio non azzerasse e riportasse indietro di vent’anni la situazione politica ma invece ne avesse creata una nuovissima. Potrebbe non apparire un gran merito, ma lo era. La maggior parte di coloro che il fascismo avevano visto nascere – e tre dei quattro erano adulti quando Mussolini aveva avuto dal Re l’incarico di governo – ancora si andavano interrogando su cosa realmente gli avesse permesso di trionfare. Come fosse stato possibile che un movimento approssimativo e banditesco avesse conquistato tanto credito sia nel Paese sia all’estero. Ne erano già morti parecchi di quelli che pensavano che sarebbe stata una cosa di breve momento e, vanamente, ne avevano aspettato la fine da un giorno all’altro.
La domanda iniziale sulle reali intenzioni della monarchia si era trasformata, a forza di discutere, in un’altra: cosa avrebbero fatto i fascisti e come si sarebbe comportata la massa anonima, la cui unica rappresentazione nota era quella delle riunioni oceaniche di plauso al regime? E i giovani da che parte avrebbero buttato il loro peso, loro che non avevano mai conosciuto altro che il fascismo? La riunione si sciolse dopo l’una del 26. Il ritorno a casa fu affrontato con un certo timore, ma quella notte, in giro, non c’era un solo soldato, poliziotto o carabiniere che fosse.
L’alba del 26 vide a Genova, come in altre città italiane, il popolo in piazza; non quello oceanico che vibrava a tempo con le parole del duce ma, invece, disordinato e stupito. I giornali andavano a ruba. La folla variava: qui composta, poco più in là scamiciata, accaldata. Gli assembramenti, già numerosi alle 8 di mattina, erano diventati cortei che a loro volta erano confluiti in altri. Sembravano prove di libertà. Dalle dieci di mattina, non c’era più in giro un solo distintivo del Pnf o una divisa della milizia; come se fossero svaporati. Nel frattempo i cortei erano diventate fiumane che convergevano dai diversi quartieri della città verso il centro. Nel pomeriggio aumentarono ancora in un continuo scomporsi e ricomporsi di gruppi. La festa prendeva la forma nota delle manifestazioni patriottiche con esposizione di tricolori; non mancavano i ritratti del re. I cortei che affluivano dai quartieri della Valbisagno e da Sampierdarena avevano una marcata composizione operaia. Erano per lo più uomini in tuta; alcuni appena coperti da camice da lavoro. Provenivano da piazza Caricamento o dalla stazione Principe e marciavano, rumorosi e incerti, verso piazza De Ferrari. I simboli del regime, cartelloni pubblicitari, targhe, monumenti erano occasioni di soste ribollenti e raccoglievano ululati e collere. In via XX settembre venne demolita la lapide posta al civico 42 in memoria del primo fascio genovese. Neppure un lungo allarme aereo scosse i manifestanti. Ci furono anche dei feriti, dei contusi; ma pochi. Si trattò in genere di personaggi di nessun rilievo; camicie nere e distintivi venivano strappati e calpestati tra gli applausi.
Nelle delegazioni operaie i fatti si svolsero secondo unico rituale: assembramenti davanti ai vecchi municipi e alle case del fascio, con martellamento di simboli e lancio di mobilio dalle finestre, anche da quelle di alcuni personaggi vistosamente compromessi col regime; qualche saccheggio, raro, qualche incendio di suppellettili e un gran chiedere e guardarsi in giro. Gli inseguimenti, la caccia al “capetto” e al prepotente furono più frequenti che in centro, con la dimensione paesana della delegazione, la risonanza delle sue frustrazioni e quindi delle sue collere. I ritratti del re e i tricolori furono più scarsi che altrove; nei cortei improvvisati, specie a Rivarolo, Certosa, Bolzaneto si sentì molto la parola “pace” e si chiese a gran voce la “fine della guerra”.
Gli stabilimenti industriali furono abbandonati anche dai pochi che la mattina erano entrati perché all’oscuro del fatto o incerti sul da farsi. Unica eccezione lo stabilimento Ansaldo Artiglieria di Rivarolo. Qui il direttore, un generale dell’esercito, forte dell’appoggio che gli proveniva dalla presenza di un presidio di militari schierato baionette in canna, minacciò di far sparare su chi avesse abbandonato lo stabilimento. Dagli operai riuniti sotto il capannone partirono rimostranze ma nessuno osò allontanarsi. Si cercò, ma inutilmente, di parlamentare. Aldo Zanotti (n. 1908), comunista, uomo di Dellepiane, senti che quella mattina toccava a lui – un po’ tutti sapevano che era “uno di quelli” ma non che fosse un capo anzi il capo dei comunisti della Valpolcevera – e andò per primo. Ci sarà una strage, disse al generale, per una stupida questione di principio; in fondo, aggiunse introducendo una nota di realismo tipica del suo carattere, lo stabilimento non fa che fermarsi per mancanza di materie prime. Non sarà certo la fermata di stamattina a mettere in crisi la produzione. Il generale, per risposta, lo minacciò di arresto immediato. Si era sul finire della mattinata e, mentre fuori dello stabilimento premevano altri operai venuti a “liberare” i compagni, l’intervento di Amino Pizzorno (n. 1909), un “tecnico” ben conosciuto nello stabilimento, sbloccò la situazione. Non godeva di particolari simpatie nel gruppo degli operai comunisti perché la madre, donna di forte carattere e molto conosciuta in tutta la delegazione, non faceva mistero della sua fede anarchica. Fu però la foga oratoria di Pizzorno, tribunizia, sconosciuta ai suoi stessi compagni di lavoro che ne rimasero stupefatti, a sbloccare il lungo parlamento. Dialettico e aggressivo nello stesso tempo, Pizzorno prima creò il silenzio sotto il grande capannone; poi conquistò e travolse le ultime esitazioni. Gli operai uscirono davanti ai soldati resi più incerti da una esibizione così decisa. Dalla mattina del 26 luglio 1943, Pizzorno entrò sulla scena politica genovese e vi rimase, protagonista, per molto tempo.
In mezzo al popolo che in tutta la città manifestava c’erano non più di un migliaio di persone che, per appartenere idealmente alla famiglia comunista, forse più degli altri si interrogavano su ciò che stava succedendo. Non c’era stata la tanto attesa sconfitta del fascismo ma la sua sparizione; rapida e indolore, almeno a vedere come si erano messe le cose. Ed era rimasta la guerra, che non poteva certo essere considerata un incidente. La monarchia era per la guerra? In caso affermativo per arrivare alla pace bisognava attaccare la monarchia. Ma era il momento di farlo dato che questa aveva appena liquidato il fascismo? C’era da dubitare di tutto; ad alcuni comunisti il memorabile annuncio del 25 era parso addirittura una trappola e, specie a Zanotti, le “donne scalmanate” che inneggiavano alla riconquistata libertà, delle ingenue. “Quella parola d’ordine, fine della guerra, che nacque spontaneamente dal popolo anche a Certosa, io non la capivo”, disse in seguito Zanotti, che appena uscito con gli altri dall’Artiglieria aveva cercato inutilmente di mettersi in contatto con i suoi compagni. La mattina del 26 luglio i responsabili dell’organizzazione clandestina comunista che in tutti quegli anni aveva fatto capo a Dellepiane, una ventina di persone collegate tra loro, si erano cercati ma inutilmente. Di colpo i riferimenti abituali, i bar, gli angoli delle piazze dove ci si vedeva a ore fisse erano saltati; i posti di lavoro abbandonati. Nessuno, per la gioia, stava più nella pelle e quindi in casa o nei luoghi consueti.
Nota. Tratto da Manlio Calegari, Comunisti e partigiani. Genova 1942-1945, Selene, Milano 2001, pp. 69-75.