• Passa alla navigazione primaria
  • Passa al contenuto principale
  • Passa alla barra laterale primaria
storiAmestre

storiAmestre

storia e documentazione del tempo presente

  • Chi siamo
    • Informativa sulla privacy e l’utilizzo dei cookie
  • Rubriche
    • La città invisibile
    • Letture
    • Oggetti
    • Centro documentazione città contemporanea
      • 68 di Carta
      • 40 anni di manifesti
    • Agenda
  • Pubblicazioni
    • Quaderni
      • Titoli pubblicati
      • Come avere i Quaderni
      • 1. Breda, marzo 1950
      • 2. L’anarchico delle Barche
      • 3. Bloch notes
      • 4. Andare a vedere
      • 5. Cronache di anni neri
      • 6. Pensieri da un motorino
      • 7. Per riva e per marina
      • 8. Un cardellino in gabbia
      • 9. L’onore e la legge
      • 10. Il popolo delle pignatte
      • 11. Compagni di classe
      • 12. Rivolta e tradimento
      • 13. Acque alte a Mestre e dintorni
    • Altre pubblicazioni
  • Autori e Autrici

LA RESISTENZA CIVILE DEGLI OPERAI DI PORTOMARGHERA

07/06/2025

Per testimoniare l’attualità del 25 aprile, di cui ricorrono gli 80 anni, riceviamo e pubblichiamo l’intervento della nostra socia Sandra Savogin sulla resistenza civile all’interno delle fabbriche di Porto Marghera.

L’ intervento, svolto il 2 maggio 2025 c/o la municipalità di Marghera all’interno del festival della Resistenza a cui ha collaborato anche storiAmestre, intende delineare la Resistenza civile messa in atto dagli operai di Porto Marghera attraverso le memorie di due protagonisti, Berto Cornaglia del PCdI ed Ermanno Giommoni del MUP.

 

Di Sandra Savogin

  1. I lavoratori di Porto Marghera: un “proletariato fluttuante”

E’ bene ricordare che i lavoratori di Porto Marghera avevano caratteristiche occupazionali e una composizione che si discostava da quelle prevalenti nella classe operaia nelle grandi città industriali del nord. Le produzioni chimiche ed elettrometallurgiche, a causa dell’alto consumo di energia elettrica, seguivano un ciclo produttivo che si riduceva nettamente durante il periodo invernale e richiedeva pertanto una manodopera flessibile e precaria, determinando così un notevole turnover delle maestranze. Il reclutamento si rivolgeva prevalentemente verso una manodopera non qualificata, alla quale veniva richiesta resistenza fisica ed adattamento a condizioni ambientali disagiate.

Malgrado una sensibile crisi produttiva avesse investito le aziende veneziane, in primis l’Arsenale, solo in parte la manodopera del centro storico trovò occupazione a Porto Marghera. Fece eccezione lo stabilimento della Breda che, come cantiere navale, richiedeva manodopera qualificata e la trovò in molta parte negli “arsenalotti” rimasti senza lavoro: fabbri, carpentieri in ferro, fonditori e tracciatori, la cui professionalità era accompagnata da una accentuata sindacalizzazione. A Venezia questi lavoratori erano stati componente importante del movimento socialista ed erano stati in prima fila nell’occupazione delle fabbriche nel 1920: la Breda infatti fu la sola fabbrica di Marghera in cui rimase uno zoccolo duro di operai politicizzati, che continuarono a manifestare anche dopo il 1922. Nel ’24 più di metà degli operai scioperò per solidarietà contro dei provvedimenti disciplinari attuati contro quattro compagni e nell’anno seguente parteciparono a una delle ultime manifestazioni organizzate dalla FIOM; durante tutto il ventennio la polizia e il prefetto sorvegliarono lo stabilimento considerato “pericoloso”. Per gli industriali di Marghera i contadini e gli artigiani di campagna erano preferibili alla manodopera proveniente dal centro storico perché dotati di una malleabilità di gran lunga superiore. La possibilità di un ampio utilizzo di manodopera a estrazione agricola era garantita dall’ubicazione di Mestre, posta al centro di una zona agraria che, rispetto ad altre zone della provincia, era nelle condizioni di liberare forza-lavoro contadina che però non si distaccava completamente dalla terra. Era quindi dotata di quella flessibilità che la maggior parte delle fabbriche richiedeva e conciliava il lavoro in fabbrica con il lavoro stagionale nei campi.

I comuni annessi a Venezia nel 1926 e i comuni del distretto di Mirano e Dolo, appartenenti alla zona definita del Brenta – Dese, costituivano un’area agraria abbastanza omogenea, soprattutto in relazione alle dimensioni e alla tipologia di conduzione delle aziende agricole. Circa il 99% delle aziende veniva classificato come aziende a conduzione di tipo famigliare – con una prevalenza della piccolissima proprietà – e spesso non autonome, in quanto, date le dimensioni delle famiglie di allora, avevano una sovrabbondanza di manodopera e una produzione insufficiente a garantire il sostentamento di tutti i componenti. Un’ampia fascia dell’ “esercito di riserva” per l’industria era costituita anche dai braccianti, già poco numerosi nell’area del Brenta – Dese, data la scarsa presenza della grande proprietà, i quali nella fabbrica trovavano una via d’uscita dalla miseria. Contadini e braccianti si affollavano quindi davanti ai cancelli degli stabilimenti industriali, andando a costituire un “proletariato fluttuante” con caratteristiche culturali ben diverse rispetto a quelle proprie del proletariato industriale. Nella mentalità di questi operai l’occupazione in fabbrica non costituiva un progetto a lungo termine, data anche la precarietà e stagionalità di questa occupazione. Essi non si distaccavano mai completamente dal podere, in cui altre braccia garantivano la produzione, e che rappresentava una sicurezza rispetto ai rischi del lavoro salariato di fabbrica. Continuavano per lo più a restare legati anche alla terra e, se ne uscivano, andavano a ingrossare le fila di un proletariato rurale dai “cento mestieri” che sapeva sfruttare le diverse opportunità lavorative offerte dal territorio: erano di volta in volta sterratori, facchini, carrettieri, badilanti o manovali edili. Solo una parte entrò a far parte di quel gruppo di lavoratori che si stabilizzarono nella condizione industriale. Tra questo “proletariato fluttuante” era presente anche un sentimento di gratitudine nei confronti del fascismo, che aveva offerto un’altra opportunità per migliorare le loro misere condizioni di vita.

Fu la guerra, portata avanti da Mussolini fino alle estreme conseguenze, a creare nella gran parte dei lavoratori delle fabbriche un clima di sfiducia e di malcontento nei confronti del regime, la base cioè per una disponibilità ed apertura alle proposte degli oppositori del regime e favorire il consenso verso la Resistenza che si espresse attraverso gli scioperi e il sabotaggio.

2. Gli scioperi del 1943-44 a Porto Marghera

Controversa appare agli studiosi, in particolare a Chinello, la partecipazione delle fabbriche di Marghera agli scioperi operai svoltisi nel marzo 1943 a Torino, Milano, in Lombardia, attestata da alcune testimonianze orali ma non confermata da fonti documentarie. In una ricerca condotta nel 1972 Isabella Peretti sostiene che sarebbe stato organizzato in modo coordinato per il 14 marzo uno sciopero che avrebbe coinvolto il 75% dei lavoratori di Marghera, in particolare nelle grosse fabbriche. Le richieste erano di natura economica: una tredicesima mensilità ed un aumento di cinquanta lire mensili oltre a due giorni di ferie in più e un supplemento dei generi alimentari razionati. La circostanza è confermata da Berto Cornaglia, operaio comunista della Breda il quale testimonia la partecipazione degli operai della Breda allo sciopero della primavera del 1943. Il via per la manifestazione era stabilito per le 10, l’ora in cui veniva fatta la prova per le sirene d’allarme di attacco aereo. Il suo reparto si fermò ed anche gli altri reparti nonostante l’arrivo di camionette dei carabinieri e di uomini della Milizia Volontaria, che dinanzi al fronte compatto degli operai vennero fatti ritirare da un ufficiale. In un volantino fatto circolare in fabbrica si chiedeva un miglioramento della mensa, copertoni e camere d’aria per la bicicletta e un aumento della razione di carne alla settimana.

Accertata invece la partecipazione di Porto Marghera alle agitazioni dell’autunno 1943. I primi scioperi scoppiarono a Genova e a Torino per più giorni nel mese di novembre per estendesi a Milano a dicembre e si conclusero con un accordo ed alcuni miglioramenti economici per gli operai. La protesta operaia estesa a tutta l’area industriale del Nord, era certamente una risposta alle condizioni di vita dei lavoratori dell’industria, rese ancora più drammatiche dall’occupazione tedesca. Il costo della vita era aumentato del 57% nel 1943 rispetto all’anno precedente e l’impossibilità di accedere, per i costi altissimi, al mercato nero condusse l’esistenza degli operai e delle loro famiglie ai limiti della sopravvivenza.

A Marghera sospensioni del lavoro si verificarono nella prima decade di dicembre agli Azotati, all’Ilva e alla Breda, segnalate dal Questore nelle relazioni del 20 e del 28 dicembre, relazioni in cui si evita accuratamente l’uso della parola “sciopero”, poiché “la vertenza è stata sollecitamente risolta e non ha avuto riflessi sull’ordine pubblico”.

Lo sciopero generale proclamato dal CLN dall’1 all’ 8 marzo 1944 fu preparato in tutte le principali città industriali in modo capillare particolarmente dal PCI; i lavoratori di Marghera vi parteciparono il 7 di marzo. La natura politica dello sciopero venne riconosciuta dallo stesso Questore, il quale tuttavia tentò di ridurne le proporzioni. Drammatico il racconto che ne fa Cornaglia: alla Breda quando alle 10 gli operai di quasi tutti i reparti si fermarono intervenne qualche camionetta di militi fascisti che furono accolte da fischi, urla e sassate e successivamente camionette delle SS in assetto di guerra. I nazisti con i mitra spianati rastrellarono operai e impiegati facendoli confluire in un piazzale interno; piazzarono a terra una mitragliatrice a tre piedi e da una finestra un ufficiale tramite l’interprete invitò tutti a riprendere il lavoro. Nessuno dei lavoratori si mosse perciò l’ufficiale, dopo aver discusso animatamente con il Direttore della fabbrica, invitò qualche operaio ad esporre i motivi della protesta. Un operaio salito spontaneamente dopo un breve scambio di battute disse che i tedeschi e la Direzione erano disponibili ad esaminare le richieste se il lavoro fosse stato ripreso subito. Nessuno tra i 2.000 operai e impiegati si mosse ma vi furono fischi e mormorii. L’ufficiale infuriato, subito tradotto dall’interprete, gridò che venivano concessi cinque minuti di tempo perché tutti riprendessero il lavoro, intimando che chi voleva lavorare si spostasse a sinistra e tutti gli altri a destra dove erano piazzate alcune mitragliatrici. Il rumore delle mitragliatrici che venivano caricate provocò uno sbandamento tra gli operai radunati e parecchi, di fronte ad una minaccia così stringente, erano disposti a cedere. Dopo alcuni momenti di ondeggiamento e confusione suonò l’allarme aereo che provocò un fuggi – fuggi generale ed evitò un bagno di sangue tra i più determinati a continuare la protesta. Tra i molti operai individuati mentre fischiavano alle parole dell’ufficiale tedesco, circa quaranta, furono processati al tribunale militare di Trieste e inviati al lavoro coatto in Germania.

Un secondo testimone della Resistenza operaia a Porto Marghera è Ermanno Giommoni del MUP molto legato alla figura di Cesare Lombroso e fermamente convinto della necessità delle forze della sinistra. Anche Ermanno Giommoni operaio alla Vetrocoke ricorda come in particolare in quel 1943 le condizioni di vita per gli operai delle officine, il cui salario era bloccato dall’inizio della guerra, fossero insostenibili. Ritenne opportuno con i suoi compagni Beretta, Novello e Costa di dar voce al malcontento e di prendere contatto con l’operaio comunista Toni Bernardi, responsabile di una cellula comunista nella stessa fabbrica. “La sera del 13 marzo si parlava dello sciopero dell’indomani e che altre industrie avrebbero scioperato contemporaneamente”. La mobilitazione durò due ore durante le quali tutti gli operai, riuniti in sala mensa, discussero con la direzione e i rappresentanti dei sindacati fascisti: il risultato fu molto modesto, un piccolo aumento della razione di pane, ma “il riflesso politico fu molto importante” secondo Giommoni perché “gli operai avvertirono che il fascismo per sopravvivere ha bisogno di loro”. Relativamente agli scioperi dell’autunno ricorda come alla Vetrocoke lo sciopero fu capeggiato dagli operai comunisti Toni Bernardi, Costa e Beretta e costò l’arresto di questi ultimi e dello stesso Giommoni. Anche negli scioperi della primavera del 1944 Giommoni ricorda che la partecipazione dei lavoratori della Vetrocoke fu massiccia: compatti non si mossero dal piazzale antistante la direzione dello stabilimento neppure quando giunse una pattuglia delle SS e con fucili spianati venne loro ordinato di tornate al lavoro. Questa inflessibile resistenza indusse il comandante della pattuglia ad autorizzare le trattative che durarono dalle ore 10 alle ore 13. Furono accolte alcune richieste, ovviamente di carattere economico, ma per tutta la giornata gli operai restarono in sciopero. Nel mese di giugno dello stesso anno Giommoni consegnò a Giovanni Tonetti due ordigni a orologeria che possiamo supporre potrebbero essere stati utilizzati nell’attentato partigiano, a palazzo Giustinian sede della GNR del 26 luglio. Nello stesso mese dovette fuggire dalla fabbrica, grazie all’aiuto di alcuni compagni, perché le SS si erano presentate in direzione per arrestarlo.

3. I sabotaggi della produzione bellica alla Breda

Nella sua Memoria Cornaglia ricostruisce in modo circostanziato anche il sabotaggio, cioè i diversi sistemi ideati alla Breda dagli operai per rallentare e ostacolare la produzione che era stata commissionata, cioè sei corvette impiegate nella guerra in corso. La vigilanza sui macchinari indispensabili per garantire la continuità della produzione iniziò non appena i tedeschi insediarono un corpo di guardia e dei tecnici in portineria. La Direzione autorizzò a smontare e trasportare di notte questi macchinari nelle isole di Murano, Burano e Mazorbo dove vennero custoditi in alcuni magazzini affittati appositamente.

Ogni reparto aveva individuati i suoi metodi per ridurre quasi quotidianamente il ritmo dell’attività lavorativa; il più semplice era stato congegnato nell’officina meccanica dove un tornitore aveva trovato il modo di provocare un corto circuito che interrompeva l’attività dell’intera officina fino alla riparazione del guasto. Nel reparto lamiere si alteravano i contrassegni in modo che un gruppo di lamiere predisposto per una delle sei corvette in costruzione veniva avviato alla corvetta sbagliata. Il trasporto avveniva con carri trainati a mano e trovare la giusta collocazione dei pezzi richiedeva non poco tempo. Ancora più grave il ritardo che procuravano gli operai del reparto in cui si producevano tubi: di solito gli operai creavano un danno che si poteva verificare solo quando tutto l’impianto era montato. A questo punto era necessario smontare tutto, verificare l’inconveniente e rimontare nuovamente. Le frequenti minacce e le lavate di capo da parte tedesca alla direzione non otteneva miglioramenti sensibili nella produzione. Più rischiose furono le azioni compiute sulle corvette “Baionetta” e “Scintilla”, ormai quasi ultimate. La prima era attraccata alla banchina dell’allestimento pronta per essere consegnata dalla Direzione alle autorità tedesche. Furono gli elettricisti di bordo che si prestarono a creare un ultimo guasto che avrebbe ritardato ulteriormente la consegna della nave. Fu creato un dispositivo che, al momento dell’accensione per la messa in moto del motore principale, creasse una esplosione con la conseguente distruzione del quadro elettrico. Gli ufficiali tedeschi, furenti perché la corvetta era attesa in bacino di S. Marco per la cerimonia di consegna all’equipaggio, condussero in direzione alcuni operai del reparto elettricisti di bordo con il responsabile per interrogarli. Furono trattenuti per sei ore ma, grazie al sangue freddo degli operai che avevano compiuto il sabotaggio e la connivenza dei tecnici del cantiere, si riuscì ad accreditare la versione che l’esplosione fosse stata causata da un corto circuito dovuto ad un difetto dell’impianto elettrico. I lavori di riparazione furono eseguiti sotto il costante controllo di sentinelle tedesche.

L’ultima corvetta fu allagata quando ormai era ultimata e pronta per uscire in mare. Tre operai che erano rimasti nascosti a bordo dopo la fine del turno allentarono dei bulloni ed aprirono la valvola della presa a mare facendo scivolare in acqua il volante. Dopo essere scesi a terra, riuscendo a sfuggire al controllo della sentinella, restarono nascosti in un locale mentre la corvetta si allagava lentamente. Al mattino, alla ripresa del lavoro poterono uscire e confondersi con gli altri lavoratori e all’arrivo dei macchinari tedeschi l’acqua era ormai arrivata al livello della coperta dell’imbarcazione. I capi reparto e l’ingegnere responsabile dell’allestimento meccanico furono a lungo interrogati ma riuscirono a scampare alla ritorsione minacciata grazie alla loro condotta precedente di totale collaborazione. Si era ormai ad aprile del 1945 perciò, benché riparata e messa in condizioni di navigare, la corvetta non uscì più dal cantiere.

Articoli correlati:

    La divisione Acqui a Cefalonia, primo atto della Resistenza italiana di Sandra Savogin In occasione del 25 aprile riceviamo e pubblichiamo il testo che ci ha inviato la nostra socia Sandra Savogin sulla resistenza della divisione Acqui a Cefalonia. Un estratto delle interviste che Sandra Savogin ha fatto agli ultimi reduci della divisione Acqui – alcuni scampati miracolosamente al massacro...

Archiviato in:Sandra Savogin Contrassegnato con: 25 aprile, Porto Marghera, Resistenza

Interazioni del lettore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Barra laterale primaria

Per informazioni e per ricevere la newsletter scrivi a:

info@storiamestre.it

Cerca nel sito

Archivio

Ultimi commenti

  • Daniele Zuccato su Bombardamenti a Mestre 1941-45
  • Domenico Canciani su Paesaggio, non luoghi e periferie: riflessioni per una nuova geografia della storia locale
  • Patrizia su Breve storia della ditta Paolo Morassutti, affossata da manovre finanziarie. Una lettura
  • Fabio Bortoluzzi su Commiato con auguri. La redazione di storiamestre.it si congeda
  • Agnese su «È possibile fare volontariato per accogliere i migranti?». Una settimana di luglio a Lampedusa
  • Valeria su “Per fortuna è durata poco”. Due settimane in un istituto professionale del trevigiano

Tags

8 settembre 18 marzo 25 aprile 1848 anniversari antifascismo Avvisi per i posteri camminare Comune di Parigi cronaca descrizione escursione fascismo festa sAm Firenze guerra Il Milione intervento intervista lavoro manifestare manifestazione Marghera Marzenego Mestre paesaggio pagine scelte Parigi presentazione prima guerra mondiale Primo Maggio razzismo regione Veneto Resistenza resoconto ricordi san Nicola scuola spunti-ni storici storia del lavoro storia del movimento operaio storiografia strenna urbanistica Venezia

Per informazioni e per ricevere la newsletter scrivi a:

info@storiamestre.it

Cerca nel sito

Archivio

Ultimi commenti

  • Daniele Zuccato su Bombardamenti a Mestre 1941-45
  • Domenico Canciani su Paesaggio, non luoghi e periferie: riflessioni per una nuova geografia della storia locale
  • Patrizia su Breve storia della ditta Paolo Morassutti, affossata da manovre finanziarie. Una lettura
  • Fabio Bortoluzzi su Commiato con auguri. La redazione di storiamestre.it si congeda
  • Agnese su «È possibile fare volontariato per accogliere i migranti?». Una settimana di luglio a Lampedusa
  • Valeria su “Per fortuna è durata poco”. Due settimane in un istituto professionale del trevigiano

Copyright storiAmestre © 2025

Il sito storiAmestre utilizza cookie tecnici ed analytics. Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra in linea con la nuova GDPR.Accetto Ulteriori informazioni
Aggiornamento privacy e cookie (GDPR)

Privacy Overview

This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary
Sempre abilitato
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
ACCETTA E SALVA