di Claudio Pasqual
Riceviamo e pubblichiamo l’intervento fatto dal nostro socio Claudio Pasqual al secondo incontro del ciclo Mestre. Una città complessa, organizzato da storiAmestre in collaborazione col museo M9, per realizzare un breve percorso di conoscenza ed approfondimento di temi e fenomeni che hanno caratterizzato, nel corso del ‘900 e anche negli anni più recenti, lo sviluppo economico, sociale e urbanistico della città.
Non nascondo la mia perplessità quando mi è stato proposto di svolgere un intervento sulla Mestre più recente, diciamo quella da quaranta, cinquant’anni a questa parte. Fare storia del presente, per un osservatore immerso nei fatti che descrive e partecipe di mutamenti almeno in parte inconclusi e i cui esiti si proiettano in un futuro indeterminato, espone a molti rischi, primo fra tutti quello di non tenere a freno convinzioni e passioni personali, facendosene influenzare nel proprio giudizio. Scriveva Benedetto Croce nella sua “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”, pubblicata nel ’29, “che il periodo che si apre con questa – egli si riferiva al 1915, io al momento fra i Settanta e gli Ottanta che a mio parere apre la fase attuale della vicenda veneziana -, per ciò stesso che è ancora aperto, non è di competenza dello storico, ma del politico. Né io vorrò mai confondere e contaminare l’indagine storica con la polemica politica, la quale si fa, e si deve certamente fare, ma in altro luogo”. Ebbene, osando contraddire l’illustre filosofo, ho deciso invece di accettare la sfida, cercando di rimanere al di qua, come ebbe a scrivere Claudio Pavone, del “confine oltre il quale sulla ineliminabile presenza del vissuto politico dello storico prende il sopravvento la deliberata parzialità”.
Chi ha cognizione, appartenga o meno a questo luogo, della storia recente, novecentesca di Mestre, ne ha anche ben presente l’immagine consolidata e universalmente condivisa nella rappresentazione collettiva di periferia dormitorio della città di Venezia, risultato, dopo la creazione e con la crescita del polo industriale di Porto Marghera, di una vertiginosa crescita demografica, la più alta in assoluto del Paese, frutto dell’inurbamento dalle campagne del Triveneto e dell’espulsione di veneziani poveri – il proletariato lagunare – dalla città lagunare/marciana, e di una rapida espansione urbanistica, specie nei Cinquanta e Sessanta, poco e mal governata, fatta ora di una “moderna” architettura di anonimi palazzoni e palazzine senza attrattive, ora di modeste casette mono e bi- familiari, nei nuovi quartieri ma spinta fin dentro il vecchio abitato, con la cancellazione di ampie porzioni dell’armonica e amena cittadina primonovecentesca. Una esplosione urbana a cui non si accompagna una parallela crescita dei servizi per la collettività e delle attrezzature pubbliche, che sono scarsi, largamente insufficienti. Un luogo che è stato definito, con una formula che ha avuto successo, una “città invisibile”, impossibilitata a riconoscersi e priva di un riconoscimento, agli occhi del mondo, in quanto città.
E’ questa una rappresentazione troppo unilaterale e senza sfumature, perché fermenti socio-culturali e segnali di vita urbana, a volerli vedere, non mancavano: si pensi, solo per fare qualche esempio, all’effervescente scena musicale della terraferma – per Mestre qualcuno si inventò, ed ebbe successo, la definizione di “Liverpool italiana” – o alla vivacità del movimento studentesco e all’intensità delle lotte degli operai di Porto Marghera nei Sessanta e Settanta. Non c’è dubbio però che quella rappresentazione fosse realistica, contenesse larghi tratti di verità.
Ma è ancora così, Mestre? è ancora valida quell’immagine? Da qualche tempo in qua, diciamo dagli anni Ottanta in avanti, in questi luoghi sono intervenuti tanti e tali cambiamenti che la risposta non può che essere negativa: no, la realtà di Mestre e della terraferma veneziana non corrisponde più a quella rappresentazione.
Si è verificata una trasformazione che presenta tanti lati positivi, ma con le sue contraddizioni e l’insorgenza di nuovi nodi problematici.
L’universo urbano è il risultato dell’incontro e dell’interazione di tre dimensioni, riassumibili con altrettanti termini presi dalla lingua latina: polis, urbs, civitas.
Vediamoli uno per uno.
Polis
Molto in breve. A partire dalla prima giunta rossa del 1975 la sinistra – poi, nella “Seconda Repubblica”, il centro sinistra – ha governato la città da Ca’ Farsetti per un quarantennio. È in questa fase che si sono verificate le trasformazioni più significative. I critici hanno rimproverato alle amministrazioni la mancanza di un’idea complessiva e coerente di città e di un progetto di sviluppo sociale e culturale. Con questo mio intervento ho cercato di dimostrare che in realtà si possono individuare con sicurezza almeno tre direttrici dell’azione politico-amministrativa comunale: la riqualificazione urbanistica del centro storico cittadino, la promozione del verde pubblico, il potenziamento delle dotazioni per la cultura.
Nel 2015 c’è stato il cambio, è diventato sindaco l’imprenditore Luigi Brugnaro, alla testa di una lista civica e con il sostegno dei partiti del centrodestra, riconfermato nel 2020. È stata Mestre per prima a eleggerlo. Tante le ragioni, locali e nazionali, non mi soffermo. Sulle ultime amministrazioni solo poche considerazioni. La turistificazione della terraferma non è certamente cominciata con Brugnaro, ma è continuata speditamente senza incontrare veri ostacoli e anzi decisioni del Comune ne hanno favorito e altre probabilmente ne favoriranno la crescita: si pensi, ne scriverò in seguito, al “distretto” alberghiero di via Ca’ Marcello e al progetto in itinere di Punta San Giuliano. Su un altro fondamentale versante, con l’impostazione essenzialmente securitaria seguita finora le giunte Brugnaro non hanno saputo dare una risposta adeguata alla spinosa questione della sicurezza e del degrado sociale, emersa per lo meno a livello di percezione collettiva come il male forse maggiore della Mestre attuale; mentre in ambito urbanistico si sono fatte scelte opinabili e controverse, vedi il Bosco dello sport a Tessera, il progetto edilizio di viale San Marco o Punta San Giuliano.
Urbs
“Mestre bella” fu lo slogan programmatico lanciato da Gaetano Zorzetto, assessore e prosindaco per la terraferma dal 1993 al 1995, scomparso in quell’anno. Da allora Mestre non è più così brutta – la più brutta città d’Italia come veniva descritta – un’immagine che stenta per altro a svanire del tutto nell’immaginario collettivo. Anche se “bella” a macchia di leopardo, perché davvero ci sarebbe da risanare o abbattere molto di quanto fatto durante il “sacco” dei Cinquanta e Sessanta – un’architettura anonima e scadente e situazioni di congestione edilizia, esempi eloquenti i rioni Bissuola e Cipressina – e da ricostruire in forme nuove. Abbellito è stato il centro storico di Mestre ma non solo, lo sono stati anche gli spazi pubblici degli altri nuclei di quell’arcipelago urbano che è la terraferma.
L’inizio può essere indicato nella pedonalizzazione di piazza Ferretto (1985), un provvedimento che incontra resistenze, specie da parte dei commercianti, impreparati e timorosi di fronte a questa novità; bisognerà poi attendere un decennio perché se ne realizzi, su progetto dell’architetto e urbanista Guido Zordan, la riqualificazione (1995-1997), unitamente a quella di via Palazzo (1998). Via della Brenta Vecchia è del 2005. La definitiva riapertura del ramo inferiore del Marzenego nel tratto centrale – che ha il valore di una riscoperta della città d’acqua che fu, non senza opposizioni e resistenze di settori cittadini, che portano a un ridimensionamento del progetto, da cui è esclusa la Riviera XX Settembre – è il perno attorno al quale ruota la riqualificazione della stessa Riviera e di via Poerio (2013-2014), di via Rosa e piazzale Donatori di Sangue (2015). Un complesso di interventi che valorizzando lo spazio urbano del primo Novecento hanno conferito un valore estetico al luogo. Un aneddoto: un amico mi ha raccontato di un suo ospite newyorkese turista a Venezia che è rimasto incantato alla vista di piazza Ferretto!
Quasi contemporanei sono stati la riqualificazione di piazzale Candiani (2012-2013) e il rifacimento della galleria Barcella (2012-2015). In posizione appena decentrata, il contratto di quartiere per la rigenerazione del rione Altobello e di via Costa (2005-2014), che ha recuperato alla città un’area piuttosto degradata, è stata un bell’esempio di urbanistica partecipata. In un ventennio è stata così condotta in porto un’opera di riqualificazione e valorizzazione della parte centrale, la vecchia Mestre, che ha avvicinato la nostra alle altre città storiche italiane. Mestre ha acquistato finalmente una veste, una tonalità formale di città compiuta, realizzata.
A questo risultato hanno contribuito l’apertura o il rinnovamento e potenziamento degli spazi e attrezzature pubbliche sociali e culturali, un ambito in cui l’iniziativa comunale ha positivamente incrociato quella privata.
Al principio troviamo il faticosissimo parto del Centro Culturale Candiani (1978-2000), niente affatto una scatola vuota com’è stato talvolta dipinto, per le tante, pressoché quotidiane iniziative e appuntamenti, mostre e rassegne che vi si tengono; merita una citazione fra le altre il Candiani Groove, manifestazione musicale con ospiti artisti internazionali.
Nel 2007 è stato restaurato il teatro comunale Toniolo, che non è rimasto l’unico spazio pubblico dedicato a questo genere di spettacoli in città. In quello stesso anno è stato inaugurato il teatro Momo di via Dante, da 220 posti, specializzato in rassegne per bambini. Dal 1992 esiste il Teatro del Parco Albanese, alla Bissuola; rimasto chiuso per un decennio, dal 2007 al 2017, è stato restaurato e riaperto nel 2020 e ospita anche attività laboratoriali in campo musicale e teatrale.
Veniamo ai cinema. Nel 2013 ha aperto i battenti il multisala Img della famiglia Furlan, che ha preso il posto dell’arena scoperta del Centro Culturale Candiani, di fatto mai utilizzata e in abbandono. Questa novità ha comportato il sacrificio della dismissione dell’Excelsior, bell’esempio di architettura Liberty ancora chiuso, ma per il quale sono a quanto pare in vista delle novità. Un altro storico cinema, il Corso, apre occasionalmente per singoli eventi.
Nello stesso anno 2013 ha aperto la nuova sede della biblioteca civica, la VEZ in villa Erizzo, della quale si è da poco concluso l’ampliamento, deliberato nel 2018. Tredici anni, dal 2005 al 2018, è durata la gestazione di M9, il Museo del Novecento della Fondazione di Venezia, in una nuova originale costruzione nello spazio del medievale ex convento di Santa Maria delle Grazie, del quale è stato recuperato e aperto al pubblico il chiostro su via Poerio. Venendo all’oggi, manca poco all’inaugurazione di un caffè letterario e di atelier per giovani artisti nell’edificio ristrutturato dell’ex emeroteca all’imbocco di piazza Ferretto, mentre sono in corso i lavori alla scuola elementare De Amicis, che diventerà una sede per associazioni oltre che per uffici comunali.
In un’area valorizzata in termini urbanistici ed estetici si è venuto in questo modo a costituire un distretto della cultura – teatro, cinema, biblioteca, museo, sale conferenze e per esposizioni, ancora in fieri. Il centro di Mestre ha guadagnato funzioni e modi di fruizione sociale tipicamente e pienamente cittadini.
Naturalmente anche le periferie hanno avuto del loro: si pensi alle biblioteche di quartiere e ai centri civici, sedi per tante associazioni culturali e di volontariato cittadine.
Le attrezzature sportive contavano un tempo un piccolo stadio per il calcio, il Baracca, il campo di atletica San Giuliano, un modesto palazzetto dello sport, l’Ancillotto, il Tennis club e una piscina, scoperta, di via Olimpia. Poi è arrivato il palasport Taliercio (1978), si sono aggiunte le piscine di via Calabria, parco Albanese, Terraglio e Marghera, e fanno cinque, l’impianto natatorio del centro è stato coperto. Centri sportivi sono sorti in più luoghi della periferia. Il Bosco dello Sport a Tessera, fortemente voluto dal sindaco Brugnaro, che aggiungerebbe alle attuali dotazioni un nuovo stadio e un’arena per gli sport al coperto, è contestato dalle opposizioni in consiglio comunale e dagli ecologisti per l’impatto ambientale e perché giudicato uno spreco di risorse per una città bisognosa di ben altri investimenti.
Sul piano della mobilità, l’innovazione più rilevante è stata l’introduzione del tram. Un’opera dalla storia travagliata e motivo di infinite discussioni, dal suo concepimento nel 1992 al completamento delle due linee, Venezia-Favaro Veneto e Mestre-Marghera, nel 2015. Un intervento di riqualificazione del trasporto pubblico che accanto a indubbi benefici per l’ambiente urbano ha rivelato anche criticità. A parte la promiscuità dei percorsi con il traffico veicolare su gomma, con tutti gli inconvenienti che essa inevitabilmente comporta, il tram ha prodotto la desertificazione commerciale e sociale di alcuni luoghi precedentemente molto vivi, mi riferisco in particolare a via Olivi; ma soprattutto c’è da chiedersi se, correndo il tram sull’asse via Colombo- Corso del Popolo trasversalmente a piazza XVII Ottobre, ciò non significhi l’addio a ogni progetto di riqualificazione complessiva dell’area dalle Barche al canal Salso.
Vogliamo parlare del verde? Da città del cemento e dell’asfalto Mestre è diventata città verdissima, e non è un’esagerazione. È stato calcolato che un tempo la superficie per cittadino equivaleva a un vaso di gerani! Per forza, di fatto esisteva soltanto il piccolo parco di villa Querini. Si è cominciato con il Parco Piraghetto e con quello alla Bissuola (1975-1980), 33 ettari dedicati ad Alfredo Albanese, commissario di polizia ucciso a Mestre dalle Brigate Rosse. Poi è arrivato, nel 2004, il Parco San Giuliano, 74 ettari sulla gronda lagunare, una delle più grandi aree verdi urbane d’Europa, in luogo di una discarica di fanghi tossici di Porto Marghera. Il Bosco di Mestre, altra felice idea di Gaetano Zorzetto, è il progetto di una cintura verde attorno alla città: fra Favaro e Dese sono stati piantumati (2004-2009) più di 200 ettari di terreni, nel piano regolatore del 2005 ne sono previsti 1.200. Prima ancora, nel 1994, era sorto quello in riva all’Osellino nel rione Pertini. E che dire di Forte Marghera in zona San Giuliano, un polmone verde di 48 ettari e 75 costruzioni passato nel 2010 dai militari al Comune, recuperato, riqualificato, restaurati gli edifici e riconvertiti agli usi culturali e sociali, in parte ancora in corso di ristrutturazione (vedi le casermette napoleoniche) dove si incontrano il godimento del verde, la cultura – è sbarcata la Biennale, c’è una sezione specializzata della biblioteca civica – la ristorazione, l’intrattenimento e gli spettacoli. Uno spazio frequentatissimo dalla gioventù locale. In progettazione è il parco del Marzenego fra l’area di via Olimpia e Zelarino, del quale si parla fin dagli anni Sessanta, altra operazione sulla quale l’amministrazione comunale e le associazioni cittadine interessate risultano divise.
Certo, il quadro non è uniformemente roseo, ci sono anche le incompiute e i fallimenti.
L’ex ospedale Umberto I, chiuso nel 2008 e parzialmente demolito nel 2009, è da allora un’area abbandonata e degradata di 4 ettari in pieno centro, che attende un intervento di riqualificazione urbanistica; quello che è familiarmente chiamato “il buco nero” di Mestre sta forse per essere finalmente colmato, ma con un progetto contestabile e contestatissimo – ne accennerò oltre.
Si accennava prima a piazza Barche. Se ne decide la riqualificazione e nel 2005 si bandisce un concorso di idee, ma il progetto vincitore, nel quale la rotonda diventa una piazza pedonale ed è previsto un mercato coperto, non piace al sindaco Cacciari e viene abbandonato. Successivamente viene conferito incarico con affidamento diretto all’urbanista catalano Manuel Ruisanchez, che immagina anch’egli un mercato coperto e una specie di “rambla” fino al canal Salso, ma irregolarità procedurali, contestate dai vincitori del concorso di idee e confermate in giudizio, fanno naufragare anche questo tentativo e la riqualificazione di Piazza Barche finisce in soffitta.
Concludendo con l’urbs, all’inizio si era scritto che sarebbe mancata una visione d’insieme del futuro della città di terraferma. Ai tempi in cui era sindaco, Massimo Cacciari aveva auspicato e preconizzato per Mestre un avvenire da New city. Se ho interpretato bene, andare in altezza, costruire in verticale, per liberare spazio in orizzontale, per gli usi comuni, il verde, i luoghi di aggregazione.
Non mi pare sia questo il modello che è stato seguito.
Edifici molto alti sono stati effettivamente costruiti dove c’era spazio e qui è sorta la città dalle forme più innovative e originali, qualcosa di simile a una Milano in piccolo: vedi l’Aev Terraglio e via Torino. Ma si sono messi ai piedi dei grattacieli capannoni, edifici commerciali e parcheggi, vedi sempre i palazzi in area Terraglio e la Hybrid Tower di via Torino. E ancora si pensa di farlo in queste forme. Esiste un progetto di un costruttore privato di edificare in un’area verde – l’ex campo di calcio del Real San Marco sul viale omonimo – una torre di 60 metri ed un centro commerciale grande 4.500 metri quadri. Al posto del palazzo delle poste dismesso accanto alla stazione dei treni si vuole collocare un altro grattacielo. Sempre in zona e a ridosso dei binari, ma sul lato Marghera, in Via Ulloa, in raccordo con la ristrutturazione della stazione ferroviaria, il gruppo Salini Impregilo intende costruire due torri alte 90 metri; in questo caso però sarebbe prevista anche la realizzazione di un parco pubblico di circa tre ettari. Dovevano pure sorgere tre torri di 90-100 metri sul terreno dell’ex ospedale, secondo il primo progetto mai realizzato. Ora se ne pianificano altre, solo un po’ più basse, e i contrari, più che temere l’ombra gettata da questi giganti sulle abitazioni vicine, paventano un’operazione speculativa, appartamenti di classe superiore per acquirenti facoltosi e un grande supermercato – l’ennesimo! – consumata per giunta con il sacrificio di una parte del verde e degli edifici storici, come il padiglione De Zottis che si intende demolire per far posto a un parcheggio.
Civitas
Abbiamo detto in partenza della Mestre di nemmeno mezzo secolo fa come di una periferia dormitorio. Porto Marghera ne sostiene la crescita a ritmi vertiginosi. La nuova popolazione è fatta prevalentemente di immigrati dalle campagne del nord est e da veneziani espulsi dalla città storica. È abitata da molti operai, ma non si può definire una città operaia. Una parte consistente delle maestranze del polo industriale è fatta di pendolari dello hinterland e i veneziani venuti al di qua del ponte sono sì in prevalenza popolo, ma molto meno lavoratori di fabbrica. L’economia di Mestre è basata sostanzialmente sul terziario, a supporto delle industrie di Marghera che stanno di là dalla ferrovia e della popolazione locale: piccolo commercio, studi professionali, servizi all’impresa.
Il comparto commerciale costituisce oggi uno dei punti critici. Negli ultimi decenni la funzione commerciale si è spostata verso le periferie – si inizia con Panorama nel 1984, Auchan è del 1995 – dove la grande distribuzione organizzata ha dilagato con la creazione di una concentrazione di gallerie commerciali, megastore, ipermercati, lungo l’asse Romea-tangenziale, da Marghera fino a Marcon, che non ha forse, o ne ha pochi, eguali in questo Paese. Conseguenza ne è stato il prosciugamento del commercio in centro, con le tante chiusure di negozi e un’abbondanza di serrande abbassate. La desolazione di alcune vie ed angoli della città ha generato un’immagine di decadenza; all’osservazione si coglie invece una certa dinamicità del settore, con sempre nuove aperture, ma la crisi strutturale del comparto, in particolare del commercio di vicinato, si traduce in una certa instabilità, con un rapido avvicendamento delle attività.
Se il commercio è in difficoltà, in quest’ultima fase un’economia dei servizi è cresciuta attraverso funzioni già presenti e introducendone di nuove per Mestre. Tacendo del settore privato, dove sarebbe interessante un censimento delle società di consulenza, comunicazione, formazione, marketing, finanziarie e altro qui operanti, si consideri solamente la funzione pubblica. In terraferma nel corso degli anni enti e istituzioni, locali e statali, hanno aperto o trasferito da Venezia o potenziato in terraferma loro sedi o uffici. Un elenco probabilmente incompleto: l’Ufficio Scolastico Regionale, la Direzione Regionale di Poste Italiane, L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli del Veneto, la Direzione Regionale Veneta dell’Agenzia del Demanio, una sede dell’Agenzia delle Entrate si trovano in terraferma. L’università Ca’ Foscari è sbarcata in via Torino con il campus delle proprie facoltà scientifiche, un’operazione di dimensioni e caratura architettonica notevoli. Si considerino i progressi delle strutture sanitarie, con l’ospedale dell’Angelo (2008) al posto del vecchio Umberto I e l’annessa nuova Banca degli occhi, un centro oftalmico di eccellenza a livello internazionale.
Ma siamo sicuri che Mestre non sia più un dormitorio, che abbia perso del tutto questo connotato? Io dico di no, che in un certo senso ed entro certi limiti lo è ancora: non più un dormitorio per operai, ma per turisti.
L’industria turistica ha preso piede anche qui ed è diventata un’importante attività cittadina – impressione mia, tutta da verificare: la più importante “industria” mestrina? – Ovviamente, si viene non per visitare Mestre ma avendo come meta Venezia. Però alloggiare a Mestre costa di meno. Qualche vacanziere lo si vede girare per piazza Ferretto, cenare nei locali e anche, inaudito, scattare fotografie, ma un rapporto di conoscenza di questi ospiti con la città, il modo di trattenere e incuriosire i visitatori non si è trovato e capisco che sia complicato, forse impossibile, con il magnete di Venezia a un dipresso. Nessuna remora c’è stata nello spalancare le porte al grande business – piattaforme online, operatori internazionali e catene alberghiere – e alla piccola rendita dei proprietari di seconde case affittate ai turisti, anche con interventi urbanistici di forte impatto, giustificati come rimedio al degrado delle aree. Come quello di via Ca’ Marcello a un passo dalla stazione ferroviaria, quattro grandi strutture alberghiere e un ostello su 100 metri di strada (2017-2019), in posizione decentrata, con scarsi servizi e senza verde, però strategica per il trasferimento rapido di masse di visitatori in laguna.
Da indagare e valutare sarebbero poi i contraccolpi negativi sulla residenzialità, conseguenti a una minore offerta di abitazioni e al costo degli affitti, con sottrazione di energie e risorse umane a una città in calo demografico e alle prese con l’invecchiamento della sua popolazione.
I turisti arrivano, uno-due giorni e se ne vanno. Da una trentina d’anni circa a questa parte c’è invece chi è venuto per restare. La più grande trasformazione degli ultimi tempi nel tessuto demografico e sociale mestrino e di Marghera, il cambiamento forse più rilevante, certamente il più vistoso, è stata l’immigrazione dall’estero. Un capitolo importante e complesso, che richiederebbe da solo una trattazione a parte.
In breve. Nel periodo 2002-2022, nell’intero comune gli stranieri sono passati dal 2,5 al 16% della popolazione totale, con un aumento del 498%. Gli abitanti del comune nel frattempo sono diminuiti del 6,5%. In terraferma gli stranieri nel 2022 sono poco più di 34.400 e rappresentano dunque un quinto degli abitanti. Il loro numero è salito del 713% rispetto al 2002. Il record di presenze si registra in due quartieri: Mestre Centro e Marghera. Nel primo i residenti stranieri sono 13.233, il 26,4% della popolazione, aumentati del 631% rispetto al 2002.
A Marghera sono 7.758, il 27,5% degli abitanti, con una crescita dell’867% sullo stesso anno (fonte: Fondazione Pellicani).
Al 31 dicembre 2023, il gruppo più numeroso proviene dal Bangladesh, 8.261 persone, seguono Romania,6.493 persone e Cina, 3.881 persone (fonte: Comune di Venezia.
Come spiegare questa crescita? Esiste una stretta correlazione con la particolare fisionomia assunta dal mercato del lavoro veneziano. Il Turismo e la cantieristica-Fincantieri sono due settori di primaria importanza sul piano dell’offerta occupazionale cittadina. Settori che offrono in larga parte lavoro dequalificato, spesso precario e con basse retribuzioni, trovando manodopera soprattutto grazie agli stranieri. Non vi tedio con altri numeri, la realtà è sotto gli occhi di chi abbia buona vista. In entrambi i settori, turismo e industria, la comunità più coinvolta è quella bengalese.
Il dato della crescita della popolazione migrante è “di per sé rilevante ma non allarmante: ci troviamo su percentuali comuni a tante altre realtà urbane, ampiamente integrabili per una città delle dimensioni di Venezia. Il nodo critico, però, si manifesta nella massiccia concentrazione di residenti stranieri in due quartieri, Mestre centro e Marghera, dove il rischio della ‘zonizzazione’ è evidente. Una situazione legata al fatto che i due quartieri si trovano nelle direttrici per raggiungere il centro storico e Fincantieri”. Nel caso di Marghera, hanno ovviamente inciso anche i prezzi più favorevoli delle abitazioni.
“Le ricadute del fenomeno ‘zonizzazione’ possono essere molteplici”, si possono “generare squilibri nella composizione sociale dei quartieri, con il rischio di creare veri e propri ‘ghetti’ in città”. Ne conseguono “problemi di integrazione, rischi di marginalizzazione, contraccolpi sulla vita sociale ed economica”.
Un esempio la scuola, già oggi [2022] si hanno classi con quasi il 90% di studenti stranieri. “O ancora le attività commerciali”, a Venezia il 12% è gestito da imprenditori stranieri. “Fino ad arrivare al mercato immobiliare, a Mestre Centro negli ultimi 10 anni le case svalutate tra i 300 e i 400 € al mq” (fonte: sito Fondazione Pellicani).
È una frazione della popolazione ben visibile, specie nella cosmopolita e animata via Piave, che niente affatto è soltanto marginalità, tossicodipendenza e piccola criminalità di strada, anche se questi fenomeni generano, effettivamente e non solo nella percezione dei soggetti, insicurezza per l’umanità multicolore che l’abita e la frequenta, la diversità negli abbigliamenti, la varietà degli idiomi. Nella città ormai multietnica l’integrazione è però limitata, la tendenza delle comunità è a fare vita separata, è una coesistenza senza convivenza. Da parte dei mestrini autoctoni non mi sembra che emergano razzismo e xenofobia; se ce ne sono, e senz’altro è così, sono di minoranze e rimangono sottotraccia. Nemmeno la presenza e l’attività di frazioni criminali di stranieri, attive in particolare nel commercio della droga, che hanno fatto di Mestre la capitale regionale dello spaccio e del consumo e la zona della stazione e Corso del Popolo luoghi di degrado, mi sembra incidano sull’atteggiamento della maggioranza. Certo, le istituzioni non brillano per spirito di accoglienza, si veda soltanto l’annosa questione dei luoghi di culto per i musulmani; ben più aperta si è mostrata la Chiesa veneziana. Direi che nei mestrini c’è soprattutto indifferenza.
Fortunatamente esistono esperienze di segno contrario, di accoglienza, di incontro e di scambio. Voglio citare il Gruppo di Lavoro di Via Piave, che organizza corsi per l’apprendimento dell’italiano e altre iniziative e attività con la partecipazione di cittadini stranieri, l’annuale cena di quartiere la più nota e frequentata. La stessa storiAmestre ha creato un gruppo, “Voci fuori luogo”, che ha saputo coinvolgere persone di altri Paesi nelle proprie pratiche di ricerca. Ma anche sul versante della popolazione immigrata ci sono realtà organizzate che si aprono al dialogo con gli italiani: “Giovani per l’Umanità” del bangladese Prince Howlader, tra gli organizzatori della marcia del coordinamento dei comitati mestrini “riprendiamoci la città” del febbraio 2023; la Venice Bangla School di Kamrul Syed, portavoce della comunità bangladese veneziana, dove maestre italiane insegnano la lingua a discenti in maggioranza donne.
Dobbiamo sperare, fare affidamento sulla scuola, e sullo sport, come officine di una futura integrazione per questi nuovi italiani, quali sono non di diritto ma senza ombra di dubbio di fatto tanti bambini e ragazzi, molto spesso nati in Italia, che nelle aule, per strada, quando giocano senti comunicare tra loro nella lingua di Dante e Petrarca.
La socialità a Mestre. La piazza come spazio di aggregazione sociale e luogo, arena del discorso pubblico, è molto regredita. Finiti i grandi raduni politici dei Settanta, qui si fa propaganda con i gazebo, nell’indifferenza dei passanti. Al massimo si fanno i festival della politica, iniziativa si badi meritoria ma di natura spettacolare, dal sapore di happening, di evento culturale. La politica, quella poca che è rimasta come forma di partecipazione collettiva, si è ritirata al chiuso.
Piazza Ferretto come luogo di aggregazione, di incontro per folle di giovani e meno giovani che la gremivano, automobili o non automobili, al tempo delle “vasche” ma anche delle contrapposizioni politiche e antropologiche, fascisti di qua e “compagni” e fricchettoni di là, è un pallido ricordo. Per la piazza si transita, la socialità si è ritirata nei tanti locali aperti nel frattempo, è una socialità meno estesa, meno coinvolgente, più frammentata. Ecco, questo proliferare, questa concentrazione di bar, bistrot e birrerie, che è un altro elemento molto vistoso del cambiamento attuale della vita cittadina, fenomeno per altro non solo mestrino ma un po’ di tutte le città, è il segno di luoghi centrali che molto meno che in passato sono lo spazio della comunicazione pubblica e delle relazioni sociali e molto di più invece oggetto di consumo e spazio unicamente del loisir, di una fruizione socialmente atomizzata e disimpegnata del tempo libero.
Eppure Mestre è un posto caratterizzato oggi da una grande vivacità sociale e culturale, da una cittadinanza attiva che magari non si nota molto, non si vede tanto perché le attività non sono abbastanza pubblicizzate o sono di nicchia, ma è presenza numerosa e capillare.
Al 2 febbraio 2024, risultano essere 3.599 le associazioni e iscritte all’albo delle associazioni del Comune di Venezia, di tanti tipi e in tutti i campi: cultura, tempo libero, sport, volontariato sociale ecc. Non se ne indica la sede, ma è sicuro che la maggior parte appartiene alla terraferma.
È rimarchevole la reattività e la facilità ad aggregarsi di settori della cittadinanza ogniqualvolta si presenta una questione di interesse pubblico che solleciti una risposta dal basso in termini di partecipazione collettiva o di contestazione/condivisione delle scelte. Mi riferisco ai comitati e loro coordinamenti. Faccio alcuni esempi, scegliendo fra realtà diverse per matrice sociale e ispirazione politico-culturale.
“Per un altro Pat”, del 2011-2012, è stato un coordinamento di 47 associazioni promosso e animato dall’ambientalista Michele Boato, che contestava la proposta della giunta di centro-sinistra di Piano di assetto del territorio, lo strumento urbanistico che andava a sostituire il PRG, e in particolare la seconda pista dell’aeroporto e le “speculazioni immobiliari” del quadrante di Tessera.
“Mestre off limits”, invece, nato nel 2012 e ancora attivo, è scaturito da un’affollata manifestazione nel giugno di quell’anno, espressione dei negozianti e professionisti contrari alla chiusura al traffico del centro, considerata una minaccia per il commercio cittadino, e anche alla riapertura del Marzenego, e in seguito si è concentrato sulla questione del decoro e della sicurezza, su posizioni securitarie e per misure di ordine pubblico, orientamento confermato dalla decisione di associarsi al coordinamento nazionale “No degrado e malamovida”, del quale il portavoce di “Mestre off limits” è stato eletto presidente.
Mobilitazioni sono in corso anche ora e alcune meritano senz’altro una segnalazione.
Il comitato “Ex Umberto I bene comune” si è costituito nella primavera 2019 per premere sul Comune affinché dia una soluzione al “buco nero” dell’ex ospedale in abbandono dal 2009, facendo propria, contro i progetti del privato proprietario, giudicati una speculazione immobiliare, l’idea di trasformare l’area in un grande polmone verde, farne il cuore di una ‘Mestre verde’, assegnando funzioni sociali ai padiglioni storici: scuole, asili, spazi dedicati alla musica, al teatro e alla cultura”. Il comitato ha promosso Incontri e dibattiti, manifestazioni di piazza, raccolte firme, e presentato proprie osservazioni ai piani urbanistici.
Nel caso del “Comitato di Quartiere Villaggio San Marco” siamo nel 2021. Ci si mobilita contro il progetto della torre Setten al posto del campetto di calcio in disuso, progetto appoggiato dal Comune ma inviso a parte dei residenti e della città, perché stravolgerebbe la fisionomia “storica” del luogo con una costruzione fuori misura e un pletorico supermercato. Dopo le petizioni e le manifestazioni arriva nel 2024 anche un ricorso al TAR.
Esiste dal 2007 una “Associazione Amici del Parco di San Giuliano”. Siamo nel 2024. Il progetto approvato dal consiglio comunale prevede in Punta San Giuliano un’area di interscambio, con la demolizione e la ricostruzione degli attuali fabbricati e la creazione di un hub intermodale e turistico nell’area. Se ne attuerebbe così la riconversione in zona produttiva e logistica, con l’aggiunta di un terminal di trasporto pubblico-privato e di oltre 45mila mq di parcheggi per i turisti. L’associazione vi vede uno snaturamento del fine del Parco e anche un rischio di nuovi flussi turistici verso la Laguna. Viene organizzata una raccolta firme e il 13 aprile 2024 si tiene sull’argomento un convegno al Candiani.
Se consideriamo l’ambito della cultura, possiamo notare da qualche lustro in qua grande dinamismo e intensità di iniziative. Da una vita culturale di tono minore si è passati a una ricchezza di esperienze e di proposte, non tutte piccole e di ambito locale – la messe di corsi, mostre, conferenze, presentazioni di libri (4,5 a settimana, secondo un recente articolo su La Nuova) -, rassegne varie organizzate da associazioni e istituzioni cittadine, ma alcune di respiro tale da trovare un’eco a livello nazionale. La stagione teatrale del Toniolo è una delle più gettonate in Italia. Non so quante città abbiano come Mestre tre festival culturali: il Festival della politica (dal 2011, della Fondazione Pellicani), il Festival delle idee (dal 2019, associazione Futuro delle idee, con sede a Carpenedo) e il Mestre book Fest, l’ultimo arrivato (dal 2023, organizzato da Confcommercio Mestre e Comune di Venezia). Finalmente Mestre è stata dotata di una biblioteca, la VEZ, degna di una città: 139.000 volumi per 351 posti a sedere. Nella programmazione del Candiani si segnalano, fra le altre cose, le mostre, ultime quelle di arte moderna organizzate dai Musei Civici Veneziani – con il Centro Culturale trasformato in un’appendice di Ca’ Pesaro sul continente. Il museo M9 offre un fitto calendario di iniziative, in sinergia con le associazioni cittadine, e grandi esposizioni temporanee, da segnalare quella di un artista di fama mondiale come Banksy. Infine, qualche meraviglia ha suscitato il recentissimo, improvviso e imprevisto sbocciare, dopo le varie chiusure avvenute in passato, di librerie, per cui oggi abbiamo in un chilometro quadrato Feltrinelli, San Michele, Ubik, Galleria del Libro, Giunti, Coop, Giralibri, cui aggiungere Heimat a Marghera.
Giunti a questo punto, possiamo affermare che Mestre è una città? Penso che possiamo rispondere affermativamente a questa domanda. In conseguenza delle dinamiche in corso della sua economia e del riequilibrio delle funzioni urbane, della riqualificazione urbanistica, del cambiamento demografico e di una nuova qualità della vita sociale e culturale, Mestre non è più periferia, appendice residenziale di Venezia, ma è diventata l’altro nucleo urbano, assieme alla città d’acqua, della città bipolare (e policentrica) che chiamiamo Venezia.
Per concludere, consideriamo il tema dell’autorappresentazione di Mestre. Per dire che come un tempo anche adesso fatica molto a restituire un’immagine di sé e della sua storia.
Certo, c’è la letteratura sull’argomento, opera in gran parte di studiosi e scrittori locali. La prima volta che, ragazzino, mi sono interessato alla storia della mia città e mi sono rivolto per avere lumi alla biblioteca civica, che stava allora nell’edificio della Provvederia, mi fu consegnato un rettangolo di compensato sul quale era incollato un foglio di carta con poche righe di testo. Oggi invece su Mestre c’è una bibliografia che occupa intere file di scaffali.
Però la lettura, lo studio, sono esperienze individuali, private.
Qui si vuol parlare invece di rappresentazioni pubbliche e anche di immaginario collettivo.
Il migliore tentativo è stata la mostra del 2007 al Candiani, curata da Giorgio Sarto, intitolata “Mestre Novecento. Il secolo breve della città di terraferma. Storie di trasformazioni urbane”. Con un magnifico, ricco catalogo. Quel che ne è seguito potrebbe chiamarsi, prendendo a prestito l’espressione dalla psicanalisi, un “atto mancato”: si doveva fare una cosa e invece se n’è fatta un’altra. La documentazione e i materiali raccolti per la mostra avrebbero dovuto essere il nucleo fondativo del museo della città, tanto desiderato e richiesto dalle associazioni, in prima linea storiAmestre; un museo che raccontasse Mestre, e Marghera, nel Novecento e il Novecento attraverso Mestre e Marghera, perché la vicenda della terraferma veneziana risulta per tanti versi paradigmatica delle trasformazioni del mondo urbano del secolo scorso. Invece è arrivato M9, che significa “Museo del ‘900” e nella cui esposizione ben poco c’è della nostra città.
Concentriamoci sull’iconografia, che è la forma di espressione con un’immediatezza e potenza comunicative maggiori: consideriamo la rappresentazione visiva di Mestre.
Mi limito a due sue manifestazioni fra le altre: murales e fotografie. Dei primi ce ne sono vari in giro per la città, alcuni davvero pregevoli. Mi colpivano specialmente quelli che offrivano una visione d’insieme della città: uno in corte Legrenzi, un altro sui tavolati del cantiere del porticato dell’ex emeroteca (2015). E notavo che, pur entrambi molto recenti, restituivano un’immagine non più attuale, con le grandi fabbriche e le ciminiere di Porto Marghera, che ora non ci sono più, in grande evidenza; era interessante il secondo, perché vi figurava anche Venezia, con il cordone ombelicale del ponte della Libertà a significare simbolicamente il legame strettissimo fra le due città. Disgraziatamente sono stati cancellati o asportati – per fortuna del secondo abbiamo la documentazione fotografica – e al di là delle ragioni pratiche, contingenti, della loro rimozione, mi vien fatto di pensare che queste sparizioni siano emblematiche di una ancora radicata resistenza mestrina all’idea di concepire questa città interessante e degna di conservazione e trasmissione la sua raffigurazione.
D’altra parte il caso di questi murales mostra che quando si prova a darne una rappresentazione dall’interno, facilmente ne esce un’immagine che suona stonata. Vedono meglio, potendo porre una distanza psicologica, emotiva, e osservando dal di fuori, i foresti, come il grande fotografo milanese Gabriele Basilico, venuto in più momenti a riprendere la terraferma veneziana, che ha saputo vedere nel volto della Mestre contemporanea e fissare sulla pellicola le sembianze della moderna “città media”, indifferenziata e anonima, uguale a se stessa ovunque; o come il trevigiano Mario Vidor, che nel suo reportage fotografico in mostra al Candiani nel 2015 ha saputo far emergere l’itinerario di una città che recupera e valorizza il proprio passato ma ridisegna con nuovi tratti il proprio presente.
Personalmente ho lavorato sulle cartoline, e anche qui ho potuto constatare quanto sia complicato fornire un’immagine attendibile dal di dentro. L’ho fatto analizzando una serie recente, commissionata da Confesercenti a un fotografo mestrino in occasione della manifestazione “La Piazza dei Sapori” del 2007.
Cosa vediamo nelle sei cartoline in questione? Il palazzo Da Re in Piazza Ferretto. L’edificio della Provvederia in Via Palazzo. Il Municipio di Mestre. La Torre dell’Orologio. Una panoramica di Piazza Ferretto dall’alto della torre medesima. La fontana della piazza e sullo sfondo il duomo. Sono i luoghi esclusivi della città, dunque, che appartengono soltanto ad essa; e si va dal Medioevo all’Ottocento. La fontana con il “Nudo di donna” di Viani nell’ultima foto, a guardare bene, non è il vero soggetto; vero soggetto è la neve che turbinando nel vento vela con un candido merletto, in un’immagine molto glamour, il duomo e i vecchi palazzi in fondo alla piazza.
Ora, volendo, nuove opere degne di nota ed esclusivamente mestrine allora non sarebbero mancate: avrebbero potuto fotografare, che so, il Centro Culturale Candiani, il Vega, il Nuovo Ospedale di Mestre ormai quasi ultimato, La Porta Rossa di San Giuliano, l’hotel Laguna Palace, i ponti strallati. Ma no: è ciò che è antico che fa Mestre, Mestre è bella solo in ciò che è antico.
E Mestre in queste cartoline appare effettivamente bella. Immagini di quelle che si vedono nelle guide turistiche, queste foto, cartoline di luoghi storici in centri urbani di antica genesi e conformazione. Se ogni rappresentazione è interpretazione e contiene dunque una dose di soggettività e parzialità, la libertà creatrice attinge qui all’arbitrio e all’inverosimiglianza, genera illusione ottica. Montagnana, Cittadella, Castelfranco Veneto, Noale: la si potrebbe tranquillamente scambiare con una di queste cittadine, invece è Mestre. Mestre come città d’arte. Ciò che nella realtà essa è molto lontana dall’essere. Una città immaginaria.
Di più. In queste inquadrature, negli istanti fissati per sempre sulla pellicola, questi luoghi sono luoghi deserti: rari i passanti, ripresi in campo lungo e quasi invisibili; la piazza quasi vuota, di fatto non c‘è nessuno. Non ci si mostrano luoghi delle relazioni sociali, della vita di relazione, ma spazi oggettualizzati e transiti da percorrere e osservare passando di là.
Traspare un’idea antiquaria della città. Peggio: un’idea museale. Tanto la Mestre reale è animata e vitale, tanto questa è senza vita, una città morta, una ghost town. Se, come già detto, nessuna rappresentazione è mai totalmente e assolutamente autentica, queste del 2007 sono le belle immagini di una città mai esistita o che non esiste più da un pezzo, nel bene e nel male definitivamente tramontata.
Nei primi anni Ottanta l’associazione storiAmestre organizzò un convegno su Mestre intitolandolo “La città invisibile”: rimossa, obliterata, negata, prima di tutto ai e dai suoi stessi abitanti. Molto è stato fatto per farla emergere e mostrarla nella sua realtà, ma siamo sicuri che quell’affermazione così secca, così impietosa, non abbia ancora un briciolo di fondamento?