A ricordo del bombardamento del 28 marzo 1944 riceviamo dalla nostra socia Sandra Savogin una descrizione dei bombardamenti avvenuti a Mestre e Marghera durante la seconda guerra mondiale e una riflessione sulla strategia della guerra totale, sperimentata nelle guerre coloniali e usata contro i civili da allora fino alle guerre a cui stiamo assistendo.
Sandra Savogin
I primi bombardamenti
Le strategie utilizzate per la guerra aerea da ambedue gli schieramenti ebbero un ruolo fondamentale nel trasformare la seconda guerra mondiale in una guerra totale, in cui fu massimo il coinvolgimento dei civili, ed estesero quindi all’Europa un sistema usato fino a quel momento soprattutto nelle guerre coloniali. Infatti, malgrado che anche all’interno delle gerarchie militari vi fossero dubbi e discussioni, le incursioni aeree attuate da entrambe le parti miravano non solo ad attaccare il nemico al di là della linea del fronte nel cuore del suo territorio, ma puntavano a indurre il nemico al collasso morale. Dopo gli attacchi aerei cui la Germania sottopose Londra e il bombardamento a tappeto che rase al suolo la città di Coventry, anche l’Inghilterra adottò la stessa strategia.
Inizialmente si puntava a colpire con bombardamenti di precisione obiettivi strategici delimitati come stabilimenti industriali, strade, ferrovie, raffinerie, depositi di carburante e stazioni elettriche, tutte strutture e infrastrutture necessarie a sostenere la guerra. Successivamente si affermò l’idea che fosse utile bombardare un territorio più ampio, in cui si trovavano nella più alta concentrazione possibile installazioni industriali. In quell’area potevano esserci anche abitazioni, negozi, servizi e naturalmente abitanti. Questa strategia, denominata “area bombing”, venne adottata dopo il 1942 e ovviamente provocava un numero molto più alto di vittime civili; lo scopo principale di questo bombardamento era infatti quello di piegare lo spirito del nemico terrorizzando i civili.
All’entrata dell’Italia in guerra le incursioni aeree della RAF avevano l’obiettivo di distruggere le industrie aereonautiche e le principali raffinerie e depositi di petrolio, mentre attacchi notturni più pesanti sarebbero stati limitati alle città industriali più importanti, cioè Torino, Milano e Genova. A questa prima campagna di bombardamenti appartenevano i due attacchi del 13 giugno 1940 su Marghera al porto dei petroli e allo stabilimento della Liquigas, effettuati dai francesi, e l’incursione della notte tra il 12 e il 13 gennaio 1941, sempre alle raffinerie di Porto Marghera come segnalato nel testo di Barizza e Resini: Mestre 1944. Parole e bombe1. Il Gazzettino diede notizia della seconda incursione solo in modo indiretto, in un articolo sui funerali dell’agente Dino Fiorot “deceduto in seguito a lesioni riportate per ragioni di servizio” nel corso del bombardamento.
L’evidente impreparazione militare dell’Italia fascista, considerata il ventre molle dell’Asse, rendeva l’obiettivo appetibile e vennero pertanto dirottate forze dal fronte tedesco sull’Italia allo scopo di indurre il governo fascista ad abbandonare la guerra. Comunque, in base alle informazioni dell’Intelligence inglese, Mestre e Marghera erano al quarto posto nella lista degli obiettivi da bombardare. Dal dicembre 1942 iniziarono le incursioni aeree anche da parte degli americani; il loro intervento fu caratterizzato da bombardamenti di precisione prevalentemente diurni. Di fatto questo intervento comportò il raddoppio degli attacchi anche se gli americani colpivano i centri vitali del sistema socioeconomico con una riduzione della vittime civili. A partire dalla primavera del 1943 in Italia si verificò un effettivo tracollo militare e del fronte interno causato anche dall’estrema difficoltà incontrata dalla popolazione nel reperire generi alimentari anche al mercato nero.
La figura del capo fabbricato a protezione dalle incursioni
Sul piano militare esisteva uno squilibrio totale tra la dotazione della Regia Aereonautica e l’aviazione alleata, poiché gli aerei italiani avevano prestazioni modeste e l’organizzazione industriale era poco efficiente, incapace di realizzare una produzione in serie. A questo aspetto si univano l’inconsistenza della contraerea ed il gap tecnologico, mai colmato, relativo ai sistemi di avvistamento. Inoltre, l’azione dei caccia veniva affidata all’abilità del singolo pilota, con una visione eroica e totalmente individualistica, anziché all’azione coordinata e all’uso sistematico in difesa e in offesa della radio e dei radar. Già nel novembre 1940 l’aviazione inglese riportò il primo grande successo con il bombardamento della flotta italiana nel porto di Taranto. La difesa antiaerea attiva di contrasto all’azione nemica attraverso l’avvistamento e le batterie contraeree era praticamente inesistente e assolutamente risibile. Le risorse messe in campo in Italia per garantire a terra una protezione dalle devastazioni delle incursioni erano del tutto inadeguate: si puntava principalmente sul disciplinato comportamento della popolazione nell’accedere ai rifugi antiaerei al suono della sirena e nel seguire le norme dell’UNPA, l’Unione Nazionale Protezione Antiaerea. A questo scopo venne creata la figura del capo fabbricato, che Il Gazzettino, voce del regime, presentò come “la prima e più immediata difesa contro i focolai d’incendio causati da offesa nemica”. Il capo fabbricato aveva il compito principale di assicurare l’oscuramento, garantire l’apertura dei portoni durante gli allarmi, dotare ogni appartamento di un adeguato quantitativo di sacchetti di sabbia. Doveva inoltre “curare la sistemazione in ogni casa di un rifugio antischegge ed antincendi”, provvedimento difensivo palesemente insufficiente nel caso in cui il fabbricato fosse stato colpito. Doveva infine al suono dell’allarme “controllare personalmente” che gli abitanti del palazzo fossero scesi nei ricoveri e avessero chiuso gli interruttori del gas e della luce. I rifugi a Mestre erano una sessantina, distribuiti per lo più nel centro, a Carpenedo e a Marghera, ma solo una decina erano classificati come anticrollo: infatti era proibito l’uso del cemento armato perciò erano costituiti da una doppia volta in muratura. La popolazione non doveva nutrire eccessiva fiducia sulla loro tenuta, se in un successivo articolo il quotidiano ripeteva insistentemente l’invito a tutta la popolazione ad accorrere nei ricoveri a causa “dell’incrudire delle incursioni della RAF nelle nostre città”, accusata di malvagità nel perseguire scopi terroristici e vandalici ma dotata di moderni mezzi di guerra, capace di “una continua sinistra evoluzione della tecnica dell’offesa e della distruzione”. Queste ammissioni, accanto alla pochezza degli interventi realizzati per una efficace protezione della popolazione civile, non potevano che deprimerne ulteriormente il morale già provato dalle restrizioni alimentari e dal prolungarsi di una guerra che avrebbe dovuto essere breve. In realtà le invettive della stampa di regime non erano in grado di accrescere il sentimento antibritannico, dal momento che l’ascolto di trasmissioni radio in italiano della BBC crebbe fin dalla guerra di Grecia e dall’estate del 1941 anche l’URSS iniziò delle trasmissioni radio curate da Togliatti. Anche questi canali d’informazione rompevano il monopolio detenuto in questo campo dal regime, screditandolo ulteriormente. Ma la censura venne rotta anche dai racconti dei soldati che tornavano a casa in licenza dai vari fronti, soprattutto dalla Grecia e Jugoslavia; da queste narrazioni sembrava emergere il vero volto del regime, che aveva mandato i suoi soldati allo sbaraglio senza armi ed un equipaggiamento inadeguato. La crescita dell’impopolarità era “proporzionale al senso d’insicurezza causato dall’incombenza delle aggressioni dal cielo e dall’ansia per la sorte dei soldati lontani, in un paese che si sentiva ingannato e oppresso da governanti irresponsabili.”
I bombardamenti dopo l’armistizio
Le incursioni aeree che provocarono gravi danni ad interi quartieri ed alla zona industriale furono compiute a Mestre dagli alleati soprattutto dopo l’occupazione tedesca, anche se la città non fu sottoposta a bombardamenti a tappeto come altre città italiane. Il 6 ottobre 1943 a partire dalle 11.40, poco dopo il suono replicato dell’allarme aereo, vennero sganciate sul centro bombe ad alta quota da una formazione di bombardieri angloamericani; dopo quindici minuti una seconda ondata di apparecchi, che volavano a bassa quota, colpirono la stessa zona. L’obiettivo era presumibilmente la stazione, uno snodo importante per le comunicazioni ferroviarie, ma gli ordigni esplosivi caddero anche in un’area tra Catene e Chirignago. Secondo il cronista de Il Gazzettino, la popolazione, dopo tanti allarmi a vuoto, non aveva lasciato le case per recarsi nei rifugi e molte furono le vittime della seconda incursione poiché le persone, credendo terminato l’attacco, si erano avvicinate alle abitazioni per portare aiuto.
Le bombe sganciate furono 300 e distrussero il Deposito ferroviario e ampi tratti di binari. I soccorsi furono portati dai Vigili urbani e del fuoco, dall’UNPA e da alcuni volontari tra la popolazione civile di Chirignago; ma l’8 ottobre erano solo 26 le salme riconosciute, mentre secondo La Gazzetta di Venezia i morti furono 80.
L’attacco aveva colto impreparata non solo la popolazione ma anche molti enti a cui erano affidate le operazioni soccorso, come si apprende da una comunicazione del Commissario Prefettizio al Capo della provincia. Nel resoconto si denunciava una “qualche manchevolezza causata dalla mancanza di unicità di direttive e soprattutto insufficienze dei mezzi occorrenti” fatto di cui, ovviamente, non si faceva menzione sulla stampa: per affrontare il problema furono convocati dal Commissario tutti gli organismi interessati all’espletamento del soccorso. In realtà dalla lettura si evincono carenze molto gravi nell’organizzazione complessiva: in primo luogo la mancata apertura di alcuni rifugi per carenze nella custodia, che venne affidata alla Milizia, e l’assenza di impianti di segnalazione acustica per l’allarme nelle frazioni di Chirignago, Zelarino e Favaro a cui si intendeva sopperire con sirene a mano. Ma soprattutto la Prefettura e il Genio Civile risultavano mancanti di un automezzo adeguato al trasporto dei cadaveri e dei feretri e lo stesso Ospedale Civile era a corto di autolettighe, una delle quali era stata requisita dalle autorità Germaniche. Infine il Commissario denunciava la difficoltà nel reperire materiali di prima necessità come calce, cloro, garze, alcool denaturato, cotone idrofilo di cui “si sa che alcuni magazzini sono ampiamente dotati”. In una successiva comunicazione il Commissario rispondeva punto su punto ad un esposto del Segretario Federale del 13 ottobre, nel quale si lamentavano alcune gravi inadempienze nelle operazioni di soccorso, ricordando tutti i provvedimenti presi e ribadendo le carenze organizzative già denunciate; infine chiamava in campo la stessa responsabilità del prefetto stabilita dal Ministero dell’Interno in ambito di coordinamento dei servizi antiaerei.
Per tentare di ovviare alla mancanza di radar la Marina adottò degli aerofoni, grandi apparecchi girevoli alti più di due metri e collegati alle cuffie di un addetto, che captavano suoni il più lontano possibile. Il problema della mancanza di sirene di allarme per le frazioni fu risolto stabilendo che si sarebbe comunicato l’allarme per via telefonica agli impiegati dei rispettivi uffici comunali, anche fuori orario di servizio al telefono privato, e questi ultimi avrebbero informato i parroci di provvedere a far suonare “le campane a stormo in caso di allarme, e a martello in caso di chiamate delle squadre di soccorso”.
Il nuovo capo della Provincia Dino Cagetti, esponente della vecchia guardia del partito, nominato il 2 dicembre 1943 in sostituzione di Celso Luciano, considerato dai falchi del partito troppo moderato, affrontò presto il problema dell’organizzazione del soccorso, ma evidentemente senza poter disporre di nuovi mezzi. Il 3 gennaio Il Gazzettino diede la notizia che erano state organizzate in tutto il territorio comunale, su impulso del Prefetto, 24 nuove squadre volontarie di soccorso nel caso di attacco aereo. Il provvedimento non poteva che essere poco rassicurante se i volontari al segnale convenuto dovevano presentarsi con propri attrezzi per scavare, cioè picconi, badili, corde, carriole che poi “sarebbero stati restituiti”. Giuseppe Checchin, che abitava a Campalto e all’epoca aveva dieci anni, ricorda bene la dinamica di quegli attacchi:
Gli aerei venivano dal mare e passavano sopra Campalto e parevano delle nuvole di uccelli, degli stormi grandi di uccelli: una, due, tre volte, prima gli uni dopo gli altri. Si sentiva il rombo dieci minuti prima e quando erano sopra Campalto cominciavano a sganciare queste bombe: sembravano dei grappoli d’uva che venivano giù. Si sentiva un fischio ed andavano a finire sugli stabilimenti. Le bombe erano granate grandi che avevano una specie di elica: c’era un perno messo in moto dall’elica, poi mediante l’innesco l’ordigno diventava esplosivo. Noi dopo i bombardamenti andavamo sui campi a raccogliere gli inneschi. Prima dei bombardamenti passavano i caccia per tracciare, per segnare con segni bianchi il cielo dove avrebbero dovuto sganciare le bombe e liberavano dei fiocchi di stagnola, un’infinità. Visti dall’alto parevano dei coriandoli, ma tanti, un’infinità; si spargevano sui campi e noi andavamo a raccoglierli2.
A partire dal marzo 1944 le aviazioni inglesi e britanniche vennero incaricate di rompere il blocco in cui si trovava l’avanzata delle truppe alleate in Italia lungo la linea Gustav. In questo quadro si colloca la violenta offensiva aerea che colpì Mestre e Marghera tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile e causò i danni peggiori di tutta la guerra.
Il 28 marzo 1944
28 marzo 1944 stazione di Mestre rasa al suolo
Il più devastante attacco aereo alleato si abbatté su Mestre il 28 marzo 1944, con le medesime modalità del precedente, cioè due ondate successive di bombardieri. Le zone di Mestre più duramente colpite furono la stazione ferroviaria, via Piave e le vie adiacenti, Piazza XXVII Ottobre, via Mestrina e via Ca’ Marcello, via Aleardi, via Cappuccina; a Marghera furono investiti la zona urbana e gli stabilimenti situati lungo la via fratelli Bandiera, la strada Marghera -Chirignago e le località Catene e Villabona. Gli edifici comunali colpiti furono le scuole C. Battisti e Grimani, la scuola elementare di Villabona, la caserma Giacomuzzi e alcuni locali dell’acquedotto di Marghera. Secondo Il Gazzettino era stato colpito anche il cimitero di Oriago. Le bombe avevano distrutto abitazioni private per un totale di 211 numeri civici, cioè circa 400 appartamenti, e gli appartamenti danneggiati gravemente erano circa 490 provocando la perdita dell’alloggio per circa 4.000 civili. Una parte dei sinistrati vennero ospitati in caserme e scuole, mentre mense vennero allestite alla Casa di ricovero di Mestre e nella scuola De Amicis. Furono impegnati nelle operazioni di soccorso oltre ai vigili urbani e del fuoco, l’UNPA e le squadre civiche di soccorso.
Il disseppellimento delle salme si protrasse per quattro giorni. Il funerale delle vittime venne celebrato in forma solenne il 31 marzo nella cattedrale di San Lorenzo. Il 4 aprile i morti erano 164 ma il numero era destinato a crescere, perché alcuni feriti gravi morirono in ospedale. Fu senza dubbio l’attacco più devastante della terraferma veneziana per il numero di vittime, anche se le incursioni su Mestre continuarono con una certa intensità nei mesi seguenti.
Wally Moressa aveva undici anni e ricorda bene quel bombardamento:
«Eravamo tutte fuori, era una giornata bellissima e guardavamo sto cielo, meraviglioso, un sole che scaldava. A un certo punto suona l’allarme. Erano così piccoli gli aeroplani.
«Varda che bei, argentini!»
Allora mia mamma fa:
«Speta, speta, è meglio che entriamo».
Non abbiamo fatto in tempo a entrare da mia zia, a chiudere, a nasconderci sotto il tavolo, vicino alle porte. Hanno cominciato a bombardare. Mamma che roba… Mio nonno Marco, finito il bombardamento, pensava che fossimo con loro, è corso al rifugio di Piazza Barche, quando è stato davanti ha visto due uscire mezze morte. È diventato… Aveva paura che fossimo noi due. Invece non eravamo là3».
Vengono colpiti anche l’ospedale, l’asilo, l’acquedotto, la chiesa
“Nuovo selvaggio attacco aereo compiuto dai terroristi anglo americani” titolava Il Gazzettino nel dare notizia di un bombardamento avvenuto il 7 aprile 1944, festività del Venerdì Santo, lo stesso giorno del terribile bombardamento di Treviso; l’area colpita si trovava nella zona urbana di Marghera ma il numero delle vittime risultò contenuto. Fu invece danneggiato l’acquedotto con conseguenze per Venezia, dove furono attivati 18 impianti artesiani distribuiti nei diversi quartieri e fu fissata una razione giornaliera di sei litri a persona.
Il successivo bombardamento del 20 aprile provocò nella zona del quartiere Piave il crollo della chiesa della Beata Vergine di Lourdes ed alcuni incendi domati dai vigili del fuoco prontamente intervenuti. Anche in questo caso fu contenuto il numero delle vittime poiché molti mestrini al suono dell’allarme avevano “trovato riparo nella campagna adiacente”. Accanto ai molti privati che affiancarono gli organi istituzionali nell’offrire aiuto anche economico ai sinistrati, non mancarono atti di saccheggio delle case e spoliazione dei cadaveri, che costrinsero il Prefetto a prendere severi provvedimenti, cioè la fucilazione sul posto da parte degli Organi di Polizia di chi fosse stato sorpreso a compiere azioni di sciacallaggio.
Nel mese di maggio si ebbero quattro incursioni mirate soprattutto a colpire la zona industriale e gli impianti ferroviari. Domenica 14 maggio vi furono due attacchi: nel corso del primo, avvenuto attorno alle 13, furono sganciate bombe dirompenti ed incendiarie che colpirono la Breda e l’Ilva e cinque abitazioni di Marghera. Il secondo bombardamento, avvenuto di notte, fu preceduto dalla caduta di razzi illuminanti e colpì la Vetro Koke, il Dopolavoro della Montecatini e la Raffineria. La relazione dei Vigili Urbani non segnalava vittime, poiché la zona colpita era nell’area già sinistrata ed era già stata abbandonata dagli abitanti, ma evidenziava la particolare pericolosità delle bombe incendiarie, di cui solo una parte erano esplose.
I due successivi bombardamenti del 19 e 25 maggio furono limitati solo ad una parte della zona di Marghera.
Nel primo risultarono gravemente danneggiati la Liquigas, la Raffineria dell’AGIP, la Vetro Koke ed altri stabilimenti di dimensioni inferiori. Alcuni ordigni caddero sul Ponte Littorio, recando danni alla linea ferroviaria, filoviaria e alla conduttura del gas. I caduti furono in totale ventisette, tra i quali alcuni operai che solitamente si riparavano in un rifugio antiaereo distrutto dalle bombe.
Obiettivi del secondo attacco, che non causò vittime, furono nuovamente la Vetro Koke, e gli stabilimenti A.G.I.P., Italo Americana Petrolio e Sirma, mentre alcune bombe caddero nuovamente sulla ferrovia e sul ponte Littorio.
Nel mese di giugno le formazioni alleate attaccarono per due giorni consecutivi, il 9 e il 10. La prima incursione colpì la stessa area della zona industriale danneggiando, oltre agli stabilimenti già citati, la Sirma, la ditta Gaslini e uno dei fabbricati dell’Istituto Autonomo Case Popolari. I bombardamenti in realtà solo raramente si concentrarono sulla zona industriale poiché l’attacco aereo del 10 aprile investì anche alcune vie del centro di Mestre, provocando gravi crolli in alcuni padiglioni dell’Ospedale Civile. Furono colpite la zona del Quadrivio dei Quattro cantoni, la via Circonvallazione e le relative arterie laterali; subirono danni, tra l’altro, un Asilo, una sede della GNR e le condutture dell’acquedotto per cui Venezia e Mestre rimasero senza acqua. Il bilancio non definito delle vittime era di 28 morti ma vi erano 28 feriti gravi. Il Gazzettino nel riportare la notizia del bombardamento del giorno 9 si soffermò in particolare sul mitragliamento di un treno viaggiatori, effettuato da alcuni apparecchi che si staccarono dal gruppo per colpire a bassa quota.
Altri mitragliamenti a bassa quota vennero segnalati nei mesi successivi, in genere colpendo linee o mezzi ferroviari: il 15 settembre fu colpito con bombe e mitragliamenti il parco ferroviario di Mestre, senza causare vittime ma danneggiando il materiale rotabile. Il 23 settembre fu colpito un treno militare a forte Dese e il 21 gennaio 1945 alcune bombe colpirono la linea ferroviaria Mestre – Trieste, interrompendo il traffico ferroviario e danneggiando linee telegrafiche e telefoniche.
Dopo settembre non vennero più segnalate incursioni ad ampio raggio su Mestre, ma furono colpiti alcuni centri della provincia. In particolare, il 10 ottobre a San Donà di Piave fu raso al suolo l’Ospedale civile, obiettivo certamente non militare in cui vi furono molte vittime. Questi episodi, che offrivano facile spunto alla propaganda fascista per definire gli alleati “terroristi e pirati dell’aria”, rispondevano alla logica della guerra totale del ventesimo secolo, che impose nei fatti una equiparazione tra popolazione civile e militari e la guerra diventò anche guerra ai civili.
Gli allarmi aerei scandirono la vita dei civili con una frequenza ossessiva, al punto che si auspicò da parte de Il Gazzettino la chiusura delle prime classi delle scuole elementari i cui alunni, spesso sprovvisti di libri, erano costretti a trascorrere lunghe ore nei poco confortevoli rifugi.
Nella memoria degli abitanti di Mestre, che hanno vissuto da bambini o da giovanissimi l’esperienza della guerra, il ricordo degli allarmi aerei rimane come il più ossessivo ed angosciante, più della fame patita, poiché riportava di continuo alla mente la consapevolezza di un rischio di morte sempre presente. Benché infatti, in base al calcolo del numero complessivo dei morti, il numero dei civili caduti fosse contenuto, tutti sapevano che la modalità con cui le incursioni venivano fatte non “rispondeva ad uno stretto rapporto di necessità e alla preoccupazione di non causare inutili perdite”. Ricorda Dino De Bei, che all’epoca aveva 15 anni:
Io confesso che avevo gran paura dei rifugi. Quando suonavano gli allarmi per i bombardamenti tutti andavano in rifugio, ma io non sono mai andato perché ero un gran pauroso e avevo paura di restare sepolto. Gli allarmi erano frequenti, anche due volte al giorno ma c’erano due tipi di allarmi: uno per il mitragliamento e uno per i bombardamenti4.
NOTE
1 Sergio Barizza, Daniele Resini ( a cura di), Mestre 1944. Parole e bombe. Immagini e voci di un anno tra propaganda fascista, bombardamenti alleati, occupazione tedesca e resistenza. Catalogo della mostra 1994.
2 Sandra Savogin, Intervista a Giuseppe Checchin, (inedita).
3 M. Giovanna Lazzarin, Mario Tonello, È così chiaro. Ogni sfruttamento dovrà sparire. Leone Moressa: calzolaio, antifascista, comunista, Cierre ed. 2022
4 Sandra Savogin, Intervista a Dino De Bei, (inedita).
Daniele Zuccato dice
In quanto figlio di mestrini che hanno vissuto in prima persona quei tragici momenti e appassionato fin da giovane di Storia dell’Aviazione, mi ha molto interessato l’articolo pubblicato in occasione dell’ottantesimo anniversario del tragico bombardamento aereo del 28 Marzo 1944, come pure la conferenza di Sandra Savogin e Umberto Zane su quell’evento, a cui ho assistito il 27 marzo 2024 presso la Sala polivalente del Patronato di S.M. Lourdes di Mestre.
Vorrei fare due riflessioni.
La prima sul fatto che non esistono guerre brevi o interventi di “Chirurgia bellica mirata”, in quanto ogni intervento militare lascia sempre e comunque nei civili sopravvissuti lesioni psicologiche e traumi così profondi che persistono per decenni come ferite profonde che spesso modificano comportamenti, abitudini e relazioni per il resto della loro vita. Ricordo che mio papà era intervenuto alla rimozione delle macerie dell’Asilo di Marghera, e da allora non riusciva a vedere i gamberetti sgusciati in ricordo delle povere dita dei bambini che erano purtroppo rimasti colpiti dagli ordigni.
La seconda è relativa ai tempi che stiamo vivendo, nei quali da più parti si sta quasi accogliendo l’idea che un conflitto limitato e breve, circoscritto in determinate aree, sia se non accettabile, almeno possibile o ipotizzabile nella logica degli eventi. Questo tipo di pensiero non solo è orribile in sé ma è profondamente errato sul piano stesso degli insegnamenti che ci vengono dalla Storia e dei quali dobbiamo fare memoria. Non si è capito infatti che i conflitti attuali sono profondamente diversi da quelli passati e sottendono allo sterminio incontrollato della popolazione. Non esistono bombe più o meno intelligenti ma solo e sempre bombe, con il loro carico di dolore e di sofferenza. Se nel 1944 necessitavano 100- 150 – 1000 bombardieri per radere al suolo una città, oggi un paio di aeroplani militari sono in grado di creare un’uguale devastazione pur con armamento convenzionale. Quello che sta accadendo a Gaza ne è un esempio.
Lo sviluppo dell’arma aereonautica e missilistica ci ha resi tutti più fragili, insicuri e deboli, ma da questa fragilità noi dobbiamo trovare la forza nel pretendere che si segua sempre, comunque e solo qualsiasi via che possa portare alla pace, attraverso mediazioni e compromessi, consapevoli che esiste un solo un grande Crimine di Guerra ed è la Guerra stessa.
Concludo con una nota di speranza. A causa del bombardamento del 28 Marzo una bambina piccola perse ambedue i genitori (che riposano, come le altre vittime di quel terribile giorno, nel Sacello della Chiesa di S.M di Lourdes) e venne presa in cura dai vicini. Alcuni anni dopo la giovinetta si ammalò di SLA e dopo molti ricoveri e una prospettiva di vita di due o tre anni, giunse all’Ospedale del Lido dove conobbe un barelliere. I due si innamorarono e si sposarono e lui si licenziò per poterla assistere in ogni momento della giornata, vivendo del lavoro da pittore dilettante. Lei non solo ritrovò la gioia nella vita ma sconfisse le nefaste previsioni dei medici e oggi, ottantaseienne, abita vicino a Mestre col marito. Queste sono le storie che si dovrebbero raccontare, storie nate dall’Amore e non dall’Odio.