Riceviamo e pubblichiamo il diario della visita al mA-museo africano di Verona, scritto da Anna Maria Mazzucco e una trascrizione, a cura di Maria Giovanna Lazzarin, di quanto registrato durante il gioco della valigia che si è svolto in quel museo.
Questa visita – a cui ha partecipato il gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre – rientra nel metodo dell’associazione di fare ricerca storica contemporanea “andando a vedere” e rappresenta un contributo alla conoscenza delle trasformazioni urbane che stiamo vivendo: attraverso la mediazione degli oggetti esposti e del gioco fatto insieme, si possono sperimentare differenze e assonanze tra le culture oggi chiamate a convivere e interagire nei nostri territori e si può riflettere non tanto su cosa vedere ma sul modo di vedere. Quanto resta dell’impostazione colonialista nel mA-museo africano di Verona?
Vi invitiamo a prestare attenzione anche a due delle note che trovate alla fine dei due testi. La prima sintetizza la presentazione – fatta dal mA-museo africano di Verona – dei cambiamenti avvenuti nel modo di pensarlo rispetto a quando è nato nel 1938. Nel 1936 era stato proclamato l'Impero dell’Africa Italiana e le collezioni del museo coloniale di Roma avevano avuto il nuovo nome di museo dell'Africa Italiana. Questo museo è chiuso da tempo e negli ultimi anni si sta ripensando a come presentare le collezioni.
La seconda introduce il quartiere Veronetta in cui il museo sorge, a lungo zona degradata e considerata il “Bronks” di Verona per la presenza di molti migranti, ora in grande cambiamento per la presenza di spazi universitari e abitazioni di studenti.
Anna Maria Mazzucco
Diario di un’esperienza
In gruppo a Verona!
Ci si ritrova in gruppo, domenica mattina 30 aprile 2023, alla stazione di Mestre per prendere il treno diretti a Verona dove visiteremo il mA-museo africano fondato e gestito dai padri Comboniani1. Siamo circa in venti, alcuni sono componenti del gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre, altri della casa di Amadou di Marghera.
Il gruppo è vario per età, provenienza, genere, lingua e colore. Anche se l’italiano funge tra tutti da lingua strumentale, tra i componenti risuonano lingue diverse. Un bel gruppo, che rappresenta la pluralità e la varietà degli abitanti di Marghera, Mestre, Venezia.
Molti sono i giovani, ridenti, allegri, chiacchieroni (soprattutto i maschi), aperti a un’esperienza che ci si attende feconda di nuove conoscenze e relazioni. Alcuni sono più avanti con gli anni, io credo di essere la più vecchia, ma non mi sento a disagio in mezzo a così “tanta vita”. Sono curiosa, fiduciosa, penso che la giornata sarà un’occasione da non perdere, mi offrirà nuovi punti di vista sia di riflessione e conoscenza, sia di modalità di relazione con persone così eterogenee.
Scesi dal treno a Verona, una tranquilla passeggiata lungo il quartiere Veronetta2, nella parte della città ad est dell’Adige, ci porta alla sede del museo, dove siamo attesi.
La giornata promette di essere serena e tiepida, nonostante il timore di brutto tempo sorto al mattino al momento della partenza. Vista l’ora, sistemiamo sedie e tavoli nel giardino per il pranzo comune e ci apprestiamo a condividere cibi e bevande. Come sempre, quando ciascuno porta qualcosa, c’è tanto, anche troppo. Ci sono pietanze colorate, diverse; cibi africani e cibi locali si affiancano. Il pranzo diventa, come il più delle volte succede, un’esperienza di confronti e scambi. Mangiando si moltiplicano le chiacchiere, più o meno leggere, si parla del piacere del palato, dell’olfatto e della vista. Si assaggiano cibi insoliti, almeno per me, si assaporano bevande dolci che ammorbidiscono l’animo.
Si mangia e si parla, si scambiano i nomi, i sorrisi, i commenti sul cibo e le ricette, le provenienze, le professionalità, poi alcuni discorsi si fanno più seri e intensi soffermandosi sulle differenze culturali tra i mondi di provenienza. Ai ragazzi e alle ragazze africane il nostro mondo occidentale appare chiuso, individualista, assoggettato ai ritmi assillanti del lavoro e degli impegni, agli orari segnati imperiosamente dagli orologi, composto da famiglie nucleari nelle quali non trovano posto la cura e il rispetto per i nonni, gli anziani. Lo confrontano, con orgoglio e a me pare anche con un po’ di nostalgia, con il loro mondo, le tradizioni dei loro paesi di provenienza – Mali, Uganda, Senegal, Sierra Leone, Pakistan, Eritrea, Somalia -, in cui il tempo non corre a precipizio e il rapporto umano è al centro del senso della vita, basato sul rispetto, la convivenza e l’attenzione per gli anziani.
I discorsi a un certo punto, si interrompono, è ora di andare a visitare il museo. Così alle 14.30 si lascia il giardino per iniziare la visita.
Perché visitare un museo africano? Perché andarci con un gruppo “misto”?
Prima di raccontare la visita al museo, vorrei soffermarmi sul perché e come è nata questa iniziativa.
Nel gruppo Voci fuori luogo ci si era posti come obiettivo la ricerca di modalità di conoscenza della nostra città, che sta vivendo profonde trasformazioni legate in particolare alla presenza sempre più forte di comunità straniere. E la modalità che ci è parsa irrinunciabile è che non si può lavorare sulla conoscenza del nuovo, che vive accanto a noi, assieme a noi, negli stessi spazi, se non creando occasioni di incontro e confronto, al fine di intrecciare nodi di connessione con i nuovi cittadini. Come conoscerci reciprocamente se non si cercano e concretizzano momenti di vita comune, in cui sia possibile parlarsi, ascoltarsi, far convivere una pluralità di sguardi?
Così fin dalla nascita del gruppo, si è data vita ad alcune “esperienze-incontri comuni” tra cittadini italiani/mestrini e cittadini di comunità straniere. Ricordo per esempio gli incontri con la comunità moldava, che si ritrova nella parrocchia della Natività della Santissima Madre di Dio di Mestre, con l’Associazione di donne bengalesi Liber-alo che, grazie all’azione tenace di Hasna, promuove un laboratorio di cucito, con la confraternita Murid. Il gruppo ha aperto un dialogo con l’Associazione art. 19 e la Casa di Amadou. Ha partecipato ai seminari dell’IUAV sui luoghi di culto delle comunità straniere e al laboratorio translanguaging della mostra Oggetti migranti organizzata dal museo Peggy Guggenheim di Venezia.
E ora questa esperienza-visita al mA-museo africano, proposta da Gianfranco Bonesso, che è riuscito a coinvolgere, oltre a componenti del gruppo Voci fuori luogo di storiAmestre, anche diversi ragazzi stranieri e non della Casa di Amadou.
Visitare insieme un museo che espone oggetti di arte/artigianato/vita africana raccolti dai missionari Comboniani ci è parso coerente con l’obiettivo del gruppo Voci fuori luogo, quello del confronto con altre culture e con persone di altra provenienza.
Va detto però che già in seguito alla visita alla mostra Oggetti Migranti al Peggy Guggenheim, ci eravamo posti di fronte al problema di quale identità culturale i musei e le mostre etnografiche /antropologiche rappresentino, dato che “la loro radice coloniale” evidenzia i nostri schemi culturali, la nostra appropriazione degli oggetti “stranieri” raccolti ed esposti ed un evidente diseguale rapporto di potere con la loro cultura di origine. Oggetti che nel museo vengono decontestualizzati, portati via dal loro ambiente socioculturale e relazionale, esposti alla “curiosità e allo stupore” del visitatore e nel migliore dei casi all’apprezzamento artistico. E perciò privati della loro linfa vitale, congelati in una dimensione atemporale, “incarcerati” dal nostro sguardo coloniale, come scrive Giulia Grechi3, in attesa di essere “liberati”. Oggetti per i quali, suggerisce sempre Giulia Grechi, ci si deve impegnare a immaginare nuove pratiche di esposizione. Tra quelle possibili, la studiosa ne cita a mo’ di esempio alcune, come l’attivazione di rapporti con gli eredi delle popolazioni che nel museo sono rappresentate, per ascoltare le loro narrazioni e confrontarsi col loro sguardo, “in un processo di rilettura e ridefinizione” degli oggetti stessi, o come la ricerca di interventi finalizzati a “riconoscere la centralità del momento coloniale” grazie alla promozione di “tematiche correlate al colonialismo e alle sue conseguenze sul piano sociale e ambientale4”.
E infatti ci eravamo chiesti, discutendone a lungo negli incontri del gruppo, che senso avesse prelevare dal loro ambiente oggetti “migranti” per esporli in un museo occidentale privandoli così del loro legame con i momenti significativi del ciclo della vita, dei riti, delle danze, delle cerimonie religiose, della storia, anche coloniale, di quel paese. Nel silenzio e nell’isolamento di una vetrina gli oggetti diventano muti e quindi impossibilitati a stabilire un dialogo con il visitatore ed essere così messaggeri della conflittuale storia coloniale che li ha fatti arrivare in un museo europeo.
Questa riflessione mi è tornata alla mente quando Gianfranco ha avanzato la sua proposta di visita al mA-museo africano, ma la presenza, nel gruppo che si era costituito per la “gita a Verona”, di diversi giovani africani ha stimolato in me il desiderio di capire come proprio quei ragazzi avrebbero reagito di fronte a manufatti legati al loro mondo e di come avrei reagito io. Mi domandavo cosa avrebbero detto. Sarebbero riusciti a rendere parlanti quegli oggetti con i loro ricordi e conoscenze, con le loro emozioni nel ritrovare “parti di casa”? E ancora una domanda mi girava nella testa: “Saremmo riusciti a mettere insieme i nostri sguardi diversi?”.
Nelle stanze del museo
Appena entrata, il museo mi è parso in tutto simile ai tanti altri musei visitati: una collezione di oggetti, in questo caso provenienti dall’Africa, raccolti dai missionari Comboniani, nel corso degli anni, nelle loro missioni africane, esposti ordinatamente in vetrine, divisi in varie sezioni (il ciclo della vita, i mestieri, le maschere, la musica, le religioni). Ma prima che noi tutti ci disperdessimo nelle diverse sale, ci è stato proposto di sostare per un’attività che ci ha obbligati ad un approccio diverso.
L’atmosfera che avvolgeva tutti era di ascolto, di curiosità e attesa. E di inter-esse, ci eravamo davvero calati nel mezzo di un’attività che promuoveva relazione tra i componenti del gruppo e con gli oggetti.
Si trattava di un’attività animativa a me familiare, alla quale il MCE5 mi aveva nei diversi anni di scuola abituata e di cui avevo più volte sperimentato in classe, con i miei alunni, le potenzialità nel far emergere pensieri, emozioni e cooperazione; perciò è stato facile ed immediato lasciarmi guidare, ascoltare, partecipare. E mi è parso sia stato così anche per gli altri componenti del gruppo.
Nel cerchio, l’animazione ha favorito – non credo solo in me – uno spostamento nel modo di considerare e guardare i diversi manufatti. La presenza dei ragazzi e delle ragazze africane, che hanno immediatamente riconosciuto i vari oggetti nella loro funzione e nel loro legame con la comunità di appartenenza, ha provocato una pluralità di punti di vista, facendo emergere proprietà e significati inattesi e permettendo al nostro sguardo occidentale di vedere oltre. Gli oggetti, grazie ai racconti dei giovani, si sono vivificati, riempiti di memorie ed emozioni, di legami alla comunità di origine, ed anche del piacere di riappropriazione. Si sono spogliati della loro veste museale e del loro mutismo, per acquisire vitalità, parole, suoni. Ed energia emotiva, come si può notare dalla trascrizione di alcuni interventi che trovate alla fine di questo diario.
Si è fatta gradualmente strada una diversa forma di conoscenza in cui gli oggetti si sono aperti alla relazione invitandoci ad ascoltarli.
E così, con questo nuovo atteggiamento mentale ed emotivo, ci siamo poi dispersi nelle diverse sale del museo cercando di cogliere negli strumenti di lavoro e della vita quotidiana gesti, azioni e manipolazioni, nelle maschere il soffio degli antenati o degli spiriti e negli strumenti musicali, la cui voce alla fine abbiamo liberato tutti insieme in un animato concerto, i suoni evocativi di iniziazioni, danze, conversazioni con gli spiriti.
Un’ultima riflessione: quegli oggetti, visti nella loro dimensione reale, incorporata alla vita delle comunità cui appartengono, sono apparsi carichi di un passato, che nei racconti dei ragazzi e delle ragazze africani veniva presentato con amore, orgoglio e nostalgia, un passato portatore di un’identità ancora viva nel presente. Si sono inoltre rivelati in grado di far intravvedere, sia pure in modo non lineare, anche il soffio di vita che pervade le relazioni future tra comunità diverse. Credo che quegli oggetti, accompagnati dalla voce dei giovani, abbiano mostrato di avere il potere di aprire un varco di dialogo e cambiamento.
Simbolicamente questo passaggio dal passato al presente e al futuro lo abbiamo rappresentato alla fine del percorso di visita indossando ognuno di noi una maschera, di cui il museo presenta una vasta gamma di tipologie, per una foto ricordo collettiva. Coprendo il nostro volto ed esponendone agli altri uno nuovo, abbiamo in qualche modo donato respiro alla maschera indossata che, a sua volta, prendendo vita, ci ha fatto intravvedere la possibilità di interrogarci sulle nostre identità.
A me è parsa una prova, uno dei tanti possibili giochi che l’immaginazione ci spinge a fare alla ricerca di strade che conducano al superamento della contrapposizione noi- loro.
Il viaggio di ritorno
Il viaggio di ritorno è stato un momento di riflessione: stanca, ma con la testa piena di pensieri e immagini, ho cercato di ripercorrere le tappe della giornata e di mettere a fuoco, soprattutto, il significato e il valore dell’esperienza fatta in un gruppo “misto”, composto da persone appartenenti a comunità culturali diverse. Ho ripensato a tre momenti particolari nel corso della visita al museo:
L’animazione con la valigia
Il concerto con gli strumenti musicali
L’atto di indossare la maschera in gruppo
Il gruppo nella sua composizione “mista” ha reso possibile vivere le tre semplici animazioni in un modo fecondo, oltre che piacevole e leggero, dando vita e voce agli oggetti museali, facendoli parlare negli interventi del gruppo riunito in cerchio, risuonare nell’insieme orchestrale improvvisato, agire tra le nostre mani mentre li manipolavamo e respirare nell’atto di indossarli.
Non so se questi tre momenti possono essere considerati abbozzi di piccole e modeste prove di “decolonizzazione” di un museo etnografico. Decolonizzare un museo è certamente un processo complicato che implica molteplici interventi, molto più elaborati ed impegnativi (come quelli – per esempio – definiti “pratiche virtuose” da Giulia Grechi nell’articolo prima citato), eppure… mi pare di aver intravvisto e vissuto, nell’esperienza fatta a Verona, qualcosa di diverso da una semplice visita a una collezione di oggetti etnografici. Qualcosa che ha trovato origine nella condivisione di sguardi diversi grazie alla quale si son potute vedere più cose da più punti di vista, provare altre emozioni, sentire nascere altri pensieri. E non è poco.
Il gioco della valigia: parole, immagini, proverbi
Trascrizione a cura di Maria Giovanna Lazzarin
Al gioco della valigia di cui parla Anna Maria Mazzucco hanno partecipato 21 persone di varia provenienza: Mali, Uganda, Senegal, Sierra Leone, Pakistan, Eritrea, Somalia, Argentina, Italia. Io avevo fatto una registrazione del gioco per uso personale, come ausilio alla mia scarsa memoria. Quando Anna ha fatto girare il suo diario della visita nel gruppo Voci fuori luogo l’ho riascoltata. Non è una buona registrazione, non sempre si riconosce chi sta parlando, alle volte è troppo lontano da chi registra, ma è interessante osservare quali oggetti vengono scelti a seconda delle provenienze e che narrazione ne viene fatta.
Ho trascritto le parti più chiare, per motivi di privacy non ho messo i nomi, solo le provenienze, il sesso e a volte l’iniziale del nome. Ho sintetizzato alcune parti. Alla fine della trascrizione ho inserito le foto di alcuni proverbi africani. Poi capirete il perché.
L’unico nome completo è quello di Alessandra, che lavora al museo e ha introdotto e condotto il gioco della valigia.
Chiede a ciascuno di noi di scegliere un oggetto.
F.(f. Niger) sceglie una bambolina: “ Quando ero piccola giocavamo con questa, andavamo fuori a cercare le erbe per farla”.
E. (f. Italia) prende la foto di una mamma col bambino sulla schiena: “Noi lo usiamo ma lo portiamo davanti per tenerlo sotto controllo, mentre il bambino sulla schiena è controllato dal gruppo e lascia la mamma libera di fare qualcosa. Il bambino sente il respiro della mamma e sta tranquillo”.
E.(m. Italia) sceglie la zucca: “ Quando ero in Africa la usavano per bere, anche come biberon per i bambini, veniva tagliata la parte stretta”.
G. (f. Italia) ha scelto un’altra zucca, ma pensata come strumento musicale.
L. (m. Uganda) mostra uno strumento musicale molto usato in Uganda col nome di Likembe6. Prova a suonarlo.
G (f. Italia) “ da noi lo chiamano Kalimba, è diventato uno strumento new age, per rilassare”.
D. (m. Senegal) “E’ africano, da noi si usa col Bongo. Adesso va di moda insieme ai tamburi”.
S. (m. Eritrea) prende uno strumento usato in Eritrea per dare il ritmo e intona su questo un canto e una piccola danza.
D. (m. Senegal) presenta una maschera della Casamance che vuole omaggiare la mamma e la sacralità della maternità.
A. (f. Italia) sceglie una specie di bastone, ma non sa a cosa serve, si volta verso D. perché glielo ha indicato lui.
D. (m. Senegal): “E’ un segno di potere e saggezza, quella che hanno le persone anziane in Africa. Mi sembrava fosse adatto”.
( m. provenienza africana) sceglie un bastone cerimoniale per il matrimonio: “Il testimone dello sposo usa il bastone nella settimana del consumo e fa la guardia fuori dalla porta per augurare fortuna”.
M. (m. Somalia) prende la maschera di un antenato.
C.(f. Sierra Leone) sceglie la maschera di un’antilope: “ Si usa durante le feste, è simbolo di saggezza per gli uomini , la indossano. Per le donne la usano senza le orecchie”.
Alessandra ci racconta che quando suo marito è venuto la prima volta al museo e ha visto le maschere in una vetrina ha chiesto:“Cosa fanno lì dentro le maschere? Le maschere vanno indossate, fanno parte della festa!”
Ci mostra il grande coccodrillo che si trova sulla parete di fronte, anch’esso è una maschera, del Burkina Faso. Il danzatore la indossa con l’appoggio delle mani. E’ simbolo della fertilità.
Interviene A. (m. Mali): “A me sembra un’altra cosa, mi sembra la madre che canalizza, che porta il suo bimbo al futuro, tiene il bambino sul dorso e gli indica la strada, tutto il dorso è come una strada per facilitargli la vita”.
Alessandra prova a spiegare la simbologia della maschera: “La coda del coccodrillo ricorda una mezzaluna, assomiglia all’utero materno e la luna segue il ciclo della donna e le fasi lunari dell’agricoltura. Il cerchio simbolizza la vita che continua e si rigenera. I triangoli, l’armonia e e l’equilibrio tra uomo e animali, uomo e terra, terra e cielo. I disegni a zig zag rappresentano il fulmine che scarica a terra l’energia. Il rosso è colore del sangue, il nero, colore della terra quando è bagnata e fertile, il bianco colore della morte, ma attenzione, è un continuo, c’è la concezione che la vita continua anche dopo”.
A. (m. Mali) riprende a parlare e mostra la collana che ha scelto: “In francese si dice cauri, in wolof petau, serve per leggere il futuro, ma è anche segno di virilità e fertilità. Per questo li ho scelti”.
D. (m. Senegal): “Sono conchiglie, servono per leggere il futuro”.
A. (m. Mali) : “ Questo è stato fatto come una collana, ma lo usano anche per leggere il futuro . Le buttano su una cosa fatta di bambu e vedono come cadono i pezzi, se sono accoppiati, se sono separati, se sono girati”. Li lancia per terra per far vedere.
Alessandra spiega che nell’antichità erano usate anche come moneta di scambio. Mostra in una vetrina una fascia che viene regalata alla sposa, che la mette in casa come segno di fertilità per la sua famiglia.
“Noi europei – dice- siamo abituati a vederle come collane, braccialetti. Sono diventati supermoda in Italia 3-4 anni fa perché Chiara Ferragni aveva deciso di portare una cavigliera con i cauri”.
G. (m. Italia) ricorda che alla Biennale di Venezia del 2022 c’era la grande statua nera dell’artista americana Simone Leigh, che aveva addosso queste conchiglie, chiamate cri-cri, anche a chiudere le treccine, ed erano portafortuna, per la fertilità.
Poi mostra l’oggetto che ha scelto: “ In Ghana vuol dire benvenuto per il bambino, la mamma la impugna per lasciare il dolore”.
(A. f, Italia) prende lo sgabello, in Gambia gliene davano uno uguale al momento del pasto:
“In Gambia, in villaggio da me, si mangia tutti dallo stesso piatto, quando sono arrivata come ospite mangiavo molto lentamente, loro in 5 minuti finivano. Dico sempre: voi cucinate in due ore e mangiate in 5 minuti, noi cuciniamo in 5 minuti e mangiamo in due ore!”
Alessandra ci racconta che non è stato facile per lei capire il senso forte del gruppo familiare in Senegal:
“ Io pensavo che la mia famiglia era mamma, papà, figli, poi ci sono i cugini, zii, nonni, ma quelli che sono più miei sono il marito e i figli. Invece in Senegal siamo tutti un gruppo. Per dire, le scarpe si mettono fuori, la mattina uscivo e non c’erano più le mie scarpe, vedevo la cognata con le mie scarpe! Ho imparato che è tutto nostro…L’ospite viene sempre messo davanti e gli si dà la parte più buona. Anche quando si ha poco da condividere. Anche quelli di passaggio: vieni, siediti!”
D. (m. Senegal): “Dopo tanti anni qua l’ho perso. Vado giù e non apro più la porta come una volta, ma apro e chiedo: Chi è? Mi guardano male”.
A. (f. Italia) ricorda che era così anche in Veneto una volta, si accoglievano di più le persone.
G. (f. Italia): “Non c’era la chiave sulla porta a casa mia.”
E. (f. Italia) “Io ricordo che abitavamo in campagna, se arrivavano i viandanti, magari aiutavano nella stalla, poi avevi il piatto per loro, venivano dentro e dormivano. C’era questa accoglienza”.
G. (m. Italia) “In campagna da noi la nonna aveva un tavolo lungo lungo con un cassetto, apriva il cassetto e metteva delle cose che aveva fatto e avanzato e quando veniva qualcuno si apriva il cassetto e si davano queste cose”.
D. (m. Senegal): “Anche da noi, a casa di Amadou, c’è un posto libero se arriva qualcuno. Alcuni si comportano bene, alcuni fanno brutta figura”.
Queste sono le ultime parole di una registrazione che somiglia un po' ai fogli nella bottiglia de l figli del capitano Grant: qualcosa si è capito, molto è andato perduto, forse riascoltando meglio viene fuori un’altra storia…
Finito il gioco Alessandra ci ha portato in una stanza dove suo figlio ci ha insegnato a giocare il mancala, l’antico gioco da tavola africano della semina.
Sulla parete della stanza erano disegnati alcuni proverbi africani, forse in omaggio alla mostra: Afriche, volti e proverbi, ospitata al museo nel 2019 con fotografie di Marco Aime che la presentava così:
«Una sorta di passeggiata tra voci d’Africa che raccontano di un sapere talvolta scomparso, talvolta più che mai vivo e che ci mettono di fronte a un pensiero con il quale confrontarci, anche con “l’occhio dello straniero” che vede solo ciò che già conosce, perché come ci ha detto lo scrittore ed etnologo maliano Hampate Ba: «Un racconto è uno specchio in cui ciascuno può scoprire la propria immagine».
Visto che sul finale della registrazione c’è stato un tentativo di rispecchiamento tra i presenti basato su riti e saperi forse scomparsi, appartenenti a mondi contadini tradizionali, ho pensato di chiudere con alcune foto dei proverbi disegnati sulla parete.
NOTE
1 Il MA-Museo africano dei missionari Comboniani, è nato da un’intuizione del vescovo Francesco Sogaro, primo successore di San Daniele Comboni, primo vescovo dell’Africa Centrale. I primi oggetti inviati a Verona dai missionari furono messi in mostra in una stanza del grande edificio della ‘Casa Madre’ dell’Istituto. Si dovette aspettare il 1938, per decidere di istituire il museo africano di Verona. L’iniziativa aveva un carattere prettamente missionario: offrire una vetrina delle attività dei missionari comboniani in Africa. Nei primi anni Settanta si decise di renderlo uno spazio aperto e strumento didattico per chi desiderasse conoscere l’Africa. In pochi anni, il museo si trasformò in luogo di studio etno-antropologico sull’Africa, anche per mezzo della Biblioteca di Nigrizia (ricca di circa 20.000 volumi). Studenti di ogni grado ebbero modo di svolgere ricerche e preparare tesi di laurea su tematiche d’interesse etno-antropologico. Gli anni successivi hanno visto un importante coinvolgimento di antropologi, ricercatori ed esperti di culture africane. Pur disponibile a ogni tipo di visitatore, il museo si aprì sempre più al mondo scolastico e universitario. Nel 1996 vi fu un ulteriore rinnovamento per rispondere a nuove sensibilità e a nuovi modi di porsi di fronte all’Africa. Da allora, pur continuando a essere una ‘vetrina etnografica’ per la conoscenza dell’Africa, il museo ha acquistato vitalità nuova, per radicarsi sul territorio e diventare strumento di dialogo interculturale. Internamente ristrutturato, ha offerto ai visitatori percorsi multimediali, integrandoli con attività collaterali ‘vive’, quali l’allestimento di mostre e l’organizzazione di laboratori didattici in cui gli studenti potessero esprimere la propria creatività nell’incontro con culture altre. Tratto da: museoafricano.org.
2 Veronetta è un quartiere di Verona, collocato sulla riva sinistra dell'Adige rispetto al centro storico. Dopo l'inondazione del 1882 cadde in miseria, e finì per essere un quartiere povero. Gli anziani raccontano che negli anni ’50 era il luogo dove si raccoglievano i braccianti arrivati dal centro e dal sud Italia, perché accettavano di vivere in una zona della città che aveva fognature a cielo aperto. Dagli anni ’80 confluiscono nel quartiere i flussi migratori dall’Africa, portando persone disposte a vivere in appartamenti non ristrutturati, affittati a poco. Con la nascita dell’Università di Verona nel 1982 in quest’area sono stati inseriti molti percorsi di studio e residenze di studenti, rendendola un quartiere molto vivo. In Veronetta vi è un numero incredibilmente alto di associazioni umanitarie. Qualche esempio: Casa di Ramìa, "luogo d’incontro per donne migranti e italiane"; il sito di documentazione dei fenomeni migratori Cestim; il cartello "Nella mia città nessuno è straniero"; il centro missionario dei padri Comboniani. Per un approfondimento si veda il blog: Loris Mag.Libri, fotografie, storie.
3 Si veda Giulia Grechi, Fantasmi coloniali e Memorie trans-culturali, Nigrizia n. 5 maggio 2023, pp. 10-12.
4 Ibidem, p.12.
5 Si tratta del Movimento di Cooperazione Educativa, costituito da insegnanti, pedagogisti, operatori della formazione che si ispirano e condividono la metodologia della Pedagogia Popolare di Célestin Freinet, insegnante francese, introdotta nella metà del XX secolo.
6 Su una tavoletta di legno, sono disposte una serie di lamelle metalliche, di canna o di giunco fermate ad una estremità da una barretta trasversale e sollevate rispetto alla cassa armonica da un ponticello. Lo strumento, accordabile spostando le lamelle rispetto al ponticello, si suona pizzicando le lamelle con i pollici. Questo strumento si sta ora diffondendo col nome di Kalimba.
NOTE DELLA REDAZIONE
La foto del gruppo con la maschera è di Anna Maria Mazzucco.
La foto del particolare della statua di Simone Leigh alla Biennale di Venezia 2022 è di Gianfranco Bonesso.
Tutte le altre foto sono di Maria Giovanna Lazzarin.