di Reinhold C. Mueller
Riprendiamo alcune pagine da un saggio di Reinhold C. Mueller, autore noto ai lettori e alle lettrici di storiamestre.it. Alla scoperta della presenza ebraica a Mestre, tra Quattrocento e inizio Cinquecento: una lettura per l’estate e un invito a leggere il saggio per intero (vedi nota finale).
Introduzione
Nel suo Itinerario per la terraferma del 1483 il giovane patrizio Marin Sanudo scrive della città murata o «castelo» di Mestre: «Qui sta molti zudei et à una bella sinagoga; et quivi se impegna [cioè, si presta denaro su pegno], perché venitiani non vol hebrei stagi a Veniexia». Giusto un decennio più tardi lo stesso Sanudo scrive che l’ufficio dei Sopraconsoli dei Mercanti
se impazza […] in vender li pegni al publico incanto a Rialto delli zudei che imprestano a Mestre danari a christiani et qui vendeno, traze il cavedal e l’usura, et il resto salva per colui di chi è il pegno. Et nota una eccellente cosa di Venetia che niun zudio, sotto grandissime pene, puol tegnir banco d’imprestar danari qui a Venezia, ma ben a Mestre.
Forse un altro decennio più in là ma comunque prima della guerra di Cambrai, un trattato francese su Venezia, descrivendo i compiti dello stesso ufficio riporta: «Gli ebrei non abitano in Venezia ma piuttosto in una cittadina che dista circa quattro leghe da Venezia, che si chiama Mestre; è qui dove gli ebrei tengono i banchi e prestano soldi ad usura, ad un tasso del 15%; non possono prendere come garanzia case e terreni ma solo beni mobili». Riassumiamo queste scarne informazioni: gli «zudei» di Mestre erano molti; avevano una sinagoga, giudicata «bella» dal giovane Sanudo (era una «chaxa» di proprietà della famiglia Tron, data in affitto agli ebrei); i banchi di prestito si tenevano a Mestre, dove i gestori potevano chiedere l’interesse del 15% per prestiti su pegno; gli ebrei – o meglio i banchieri ebraici – non dovevano abitare a Venezia1.
Nel primo Trecento, quando Venezia contava circa 100.000 abitanti, Mestre ne avrà avuti forse da 2.000 a 3.000; dopo la peste nera la popolazione di entrambe calò fortemente, ma nei primi anni del Cinquecento ambedue avevano riguadagnato e forse superato i livelli demografici pre-peste. La metropoli di Venezia, una delle più grandi città d’Europa, distava 10 miglia (secondo Marin Sanudo) o 4 leghe (secondo l’osservatore francese) da Mestre, che era praticamente un suo sobborgo. Il Sanudo precisa il percorso partendo da Mestre in questi termini: «Mestre è uno castelo mia diece luntan di Veniexia, zoè per aqua cinque fino ala torre di Margera, poi do a San Zulian, et tre fino a Veniexia», intendendo S. Giobbe in Cannaregio. Il tempo di percorso dipendeva da tante cose ma occorrevano al massimo tre ore in barca2. Gli abitanti sia di Venezia che di Mestre avevano esigenze pressanti di fonti di credito al consumo, gli abbienti per vivere meglio, i poveri per sopravvivere; ma era Mestre che serviva i bisogni creditizi sia della quasi-città sia della popolosa Venezia.
Solo ragionando così si riesce a capire concretamente come l’insediamento ebraico della cittadina di Mestre sia diventato nel corso del Quattrocento una delle più grandi comunità del nordest: essa seguiva Treviso con i suoi 150 membri circa ed era alla pari di Padova con forse 100 membri secondo una stima recente di Ariel Toaff; tutte e tre avevano inoltre tribunali rabbinici nel Quattrocento3. Siamo di fronte insomma a una comunità con molti componenti e con una sinagoga, istituzione proibita allora a Venezia, dove pure abitavano tanti ebrei. La ragione principale di ciò è innanzi tutto documentaria: sono andati in gran parte persi gli archivi pubblici e privati per il medioevo di questa podesteria minore sottoposta a quella di Treviso; secondariamente, una realtà mestrina medievale non ha mai avuto per i ricercatori l’attrazione, lo scintillio, di quella di Venezia. Invece, la comunità ebraica mestrina nel tardo medioevo merita davvero uno studio approfondito su tutti i fronti. Le sue vicende alterne lungo più di un secolo, le sue forze, come le sue debolezze, erano determinate dalla posizione intermedia tra Treviso, Padova e Venezia. Prima di entrare nel campo economico, infatti, vorrei proporre qualche spunto di natura culturale.
Cenni sulla cultura ebraica a Mestre
Mestre fu indubbiamente un centro di produzione e diffusione della cultura ashkenazita. Ci sono più riferimenti a opere sopravvissute – in lingua ebraica come in yiddish, di natura sia devozionale che medica – che sono state copiate a Mestre. Un primo Mahzor, o libro di preghiere per le feste, è firmato a Mestre nel 1449 da tale Joel ben Simon, «scriptor», noto anche come Joel «da Bonn» o «da Cologna». Il rabbino Chaim Rapp, della famiglia originaria di Norimberga, copiò o fece copiare nel 1467, sempre a Mestre, una Takkarot o raccolta di testi giuridici del secolo XIII4. Nel 1474 fu copiato a Mestre, nella casa di Moshé ben Seligman Ulma, il più antico manoscritto yiddish datato d’origine italiana; trattasi di un libro di medicamenti, una farmacopea intesa per dilettanti o comunque per non-medici. Secondo la scheda del catalogo di una recente mostra sullo Yiddish in Italia, il manoscritto, che non è ancora stato studiato, riportava 260 ricette tra mediche e cosmetiche e altro, come i filtri d’amore5. Il copista non si è firmato, ma potrebbe anche essere stato quell’«Amadio zudio, scritor», che conosciamo dai libri contabili dell’Ospedale di S. Maria dei Battuti di Mestre come affittuario di una sua casa negli anni che vanno dal 1471 al 14856. Se in questo manoscritto mancano svariati pezzi che secondo l’indice una volta c’erano, proprio questi elementi della farmacologia vengono ripresi in un altro manoscritto simile, datato 1508, prodotto verosimilmente a Mestre alla vigilia dell’invasione della Terraferma veneta da parte delle truppe della lega di Cambrai7.
Viveva a Mestre il noto giurista Yoseph Colon quando fu chiamato a presiedere una riunione a Piove di Sacco, ospitato dal banchiere Salomone, di tutti i rabbini ashkenaziti dell’alta Italia nel 1468-1469, nell’imminenza – sottolinea Toaff – della visita dell’Imperatore Federico III a Venezia8.
Un altro personaggio della cultura ebraica che possiamo conoscere attraverso i testi yiddish è Menahem (Mendelin, Mandolino) Oldendorf, autore, poeta e copista, nato a Francoforte sul Meno nel 1450, conversante con varie città del nordest d’Italia, tra cui Venezia, Mestre e Padova, nelle quali ha soggiornato a lungo tra il 1474 e il 1517. Se una sua raccolta di canti in ebraico e in yiddish è datata Padova 1516, una sua omelia, Pensieri sulla morte, acclusa a un Frauenbikhlen, ossia libricino di precetti per donne, in versi, fu copiata ancora nel 1504 a Mestre, forse dallo stesso autore, che allora risiedeva proprio a Mestre. Nel maggio dello stesso 1504, sempre a Mestre, Oldendorf scrisse alcune Selihot o preghiere in preparazione per le feste di Rosh Hashanah per una donna dal nome Haennelein (Giovannina), probabilmente una promessa sposa9. Infine, Iacob Levitico, figlio di Anselmo Levi Meshullam, faceva copiare a Mestre nell’anno 1500 un libro di preghiere per la sua sposa, Ester, figlia del banchiere padovano Hirsch (Cervo) Wertheim, probabilmente come dono matrimoniale10.
Uno dei presenti alla summenzionata riunione dei rabbini a Piove di Sacco era verosimilmente il rabbino Chaim Rapp. L’8 giugno 1467 il Rat – ossia il consiglio cittadino – di Norimberga aveva inoltrato al Doge Cristoforo Moro un appello di intervenire per sbloccare la dote spettante a Rabbi Veifs, abitante di Norimberga («nostre Nurembergensis civitatis inquilinus»), per una somma di 100 ducati, più «lucrum et commodum», depositata appunto presso «Rabbi Haym Rappe hebreus in Maysters», cioè Chaim Rapp, figlio di Henndlin, in Mestre. Ci manca la risposta alla supplica ma sappiamo che la somma spettava a Rachele, moglie in seconde nozze di Rabbi Veifs, che non le era stata restituita dopo la morte del primo marito (Rabbi Iacob di Krems in Moravia). La famiglia Rapp era una grandissima, ramificata famiglia di ashkenaziti, “pendolari” tra la Germania e la penisola italiana, particolarmente importante tra Treviso e Mestre. Comunque, questa piccola finestra incompleta sui rapporti tra ebrei tedeschi e i loro parenti in Italia dimostra come questa volta la fitta ed efficiente rete internazionale di rapporti tra banchieri ebraici non ha funzionato forse perché la somma era sotto fedecommesso; allora, per sbloccare una dote relativamente modesta – 100 ducati più gli interessi maturati in otto anni – occorreva che il creditore ebraico si rivolgesse alle autorità cristiane di Norimberga e che queste facessero propria la supplica privata per poi agire per via diplomatica con Venezia11.
Una cosa è il confine a nord, altra cosa è il tratto Mestre-Venezia, dove dobbiamo immaginarci un via vai continuo di ebrei. Per più di un secolo, la sinagoga – di rito tedesco – era a Mestre, non a Venezia; a Venezia, tecnicamente, agli ebrei fu permesso di incontrarsi solo per la recita dei Salmi, in gruppi di non più di dieci persone (un “minian”); la delibera del Collegio al riguardo, del 1464, insisteva che non si potevano tenere a Venezia servizi completi, sinagogali; a suffragio di ciò citava una bolla di Pio II Piccolomini, appena deceduto e succeduto dal Papa veneziano Paolo II (Pietro Barbo)12. Anche la circoncisione poteva essere eseguita solo a Mestre, fino al 1483, data in cui fu permesso farla anche a Venezia con un ragionamento curioso: era inverno e portare un neonato a Mestre poteva mettere a rischio l’incolumità del pargolo – così doveva aver ragionato il padre Marcuzzo nella sua supplica; e i membri del Collegio avevano tirato fuori una bella citazione da Ezechiele adattandola agli ebrei: non vogliamo la morte del peccatore, cioè del pargolo ebreo, ma la sua conversione, quindi diamo a Marcuzzo e a tutti gli ebrei residenti a Venezia licenza di circoncidere i loro figli, nati o nascituri, a Venezia, senza più l’obbligo di portarli per questo a Mestre, visto che non occorreva per il rito la «congregatio» di dieci uomini o la sinagoga, per la quale rimaneva in effetto il divieto13. Inoltre, la comunità ebraica di Mestre aveva il proprio cimitero; oggi è praticamente impossibile sapere quanto spesso fosse stato utilizzato invece il cimitero del Lido, inaugurato nel 1386 durante il soggiorno di una consistente comunità ebraica a Venezia; se rimane una sola lapide del tardo Trecento, ce ne sono otto del Quattrocento, datate tra il 1440 e il 1498 (di cui due della famiglia Rapp)14. Sappiamo però, dalla condotta del 1503 dei tre banchi mestrini, che doveva per lo più riaffermare capitoli già in vigore, che si poteva pregare a Venezia e fare le orazioni funebri «per seppellir morti al Lio». Oltre alla sinagoga, a Mestre restava la scuola o yeshiva, dove poteva venire a studiare chiunque avesse voluto15. Per le feste principali gli ebrei abitanti a Venezia avranno dovuto recarsi a Mestre, dove avrebbero trovato accoglienza sia presso parenti sia in ospizi appositi. Viceversa gli ebrei mestrini operanti nel settore creditizio («hebrei banchum tenentes in Mestre») avevano così spesso motivo per ragioni finanziarie e fiscali di apparire di persona a Venezia che tenevano case in affitto nella città lagunare, a mo’ di «hospitia hebreorum». Per il soggiorno veniva concesso loro – secondo la condotta – fino a un totale di 20 giorni a testa l’anno sia per pagare le tasse dovute, sia per riscuotere i prestiti, generalmente forzosi, già concordati con il governo della repubblica e arrivati a scadenza (è la stessa delibera del Collegio del 1464 a richiamare i relativi capitoli della condotta in vigore e ad assicurare agli ebrei mestrini la natura esentasse dei soggiorni)16. Inoltre, almeno un rappresentante per ciascuno dei tre banchi di Mestre doveva seguire a Rialto le aste pubbliche dei pegni non riscossi da parte dei debitori veneziani, sotto la supervisione dei Mercanti; anche questi agenti delle compagnie probabilmente non facevano l’andata e ritorno in una sola giornata; i pegni non riscossi di mestrini ed eventualmente di forestieri venivano messi all’incanto a Mestre stessa, sotto la supervisione del podestà.
Un cenno finale potrebbe essere dedicato ai segni distintivi. Come si sa, l’obbligo di portare la “O” gialla sul petto o il berretto giallo in testa si poteva contrattare in sede di rinnovo di condotta. Ma gli ebrei abitanti a Venezia non erano sotto condotta, in quanto formalmente i banchieri non risiedevano in città, e a tale obbligo erano dunque sottoposti a meno che non venisse sospeso in casi singoli, alcuni dei quali messi in rilievo da Ariel Toaff. Uno di questi casi ci riporta di nuovo in zona di confine: la norma che obbligava gli ebrei stanti a Venezia a portare il distintivo era talmente conosciuta che Massimiliano, re dei Romani (non ancora Imperatore essendo ancora in vita suo padre Federico III, ospite egli stesso a Venezia per ben tre volte in precedenza), nel 1491 fece precedere l’arrivo nella città lagunare del suo agente commerciale, Samuel de Marele «hebreus», con la richiesta che questi fosse esonerato da tale obbligo, in quanto avrebbe significato per lui «un manifesto pericolo di morte e di rapina e un danno per Sua Maestà». In risposta, è il Consiglio dei Dieci stesso a decidere di accogliere la richiesta e a dare all’ebreo inoltre un porto d’armi valevole entro i confini dei domini veneti, per facilitarlo nell’incarico di acquistare a Venezia i preziosi drappi auro-serici desiderati dal suo padrone17.
Mestre: dal credito cristiano al credito ebraico
A questo punto facciamo due passi indietro per vedere come si è arrivati a costituire Mestre come piazza “veneziana” per il credito “manifesto”, credito al consumo ma non solo, molto prima dell’arrivo degli ebrei banchieri.
Prima però bisogna fare un passo “laterale” per anticipare l’eventuale domanda sul ruolo dell’isola veneziana nota col nome di «Giudecca». La risposta in verità è facile: non c’è mai stato un insediamento ebraico alla Giudecca, che prima dell’inizio del Duecento si chiamava Spinalunga, e probabilmente non si è mai visto nel medioevo un ebreo neanche a passeggiare alla Giudecca. E allora, da dove salta fuori il toponimo, visto che è pur vero che gli ebrei in tante parti, per esempio nelle città della Creta veneziana, come anche a Corfù, abitavano in Ebraiché, Iudaiche, Giudecche? Ci vengono in aiuto i filologi. Il lemma volgare «Zueca», che deriva ovviamente da Giudecca, è diventato in varie città il toponimo per “luogo della concia”; Zueche senza «Zudei» le troviamo per esempio a Ferrara, a Feltre, a Pirano in Istria, oltre che a Venezia. L’origine del toponimo ci porterebbe fuori tema ora; basti dire che deriva dal rapporto stretto nel mondo bizantino tra ebrei e industria conciaria, dopodiché il termine ha subito una biforcazione in termini filologici18.
Nel 1254 il Maggior Consiglio proibì l’usura manifesta, cioè pubblica, dentro o fuori la città di Venezia da parte di veneziani. Il risultato è che il prestito su pegno poteva svilupparsi solo nelle mani di forestieri e all’“estero”, cioè a Mestre, allora infatti facente parte dello stato veronese e sotto la diretta giurisdizione di un Podestà di Treviso19. Nel nordest dell’Italia i prestatori cristiani di professione, noti come «lombardi» nel resto dell’Europa, venivano chiamati «tuschi» o toscani ed erano spesso Fiorentini: essi erano operativi a Mestre almeno a partire dal 1281, quando si cercò di proibire ai veneziani di recarsi a Mestre in cerca di credito su pegno. Solo a conclusione della guerra veneto-scaligera, nel 1339, Treviso, e quindi Mestre, passarono sotto Venezia per costituire il primo nucleo di uno Stato di Terraferma. A cavallo di questo passaggio abbiamo svariate notizie dell’attività di prestatori cristiani a Mestre, dal 1301 al 1370, e nessuna menzione di prestatori ebrei. Dopo la costosa terza guerra con Genova (1350-1355) il Maggior Consiglio considerò l’opzione di legittimare il prestito “manifesto” e i proponenti di un disegno di legge osservarono che a Venezia vigevano tassi usurari del 25-40%, mentre «in aliis terris circumvicinis datur ad usuram ad X vel XII pro centenario ad plus»20. Potevano aver avuto in mente come termini di confronto solo Treviso e Mestre, ma i tassi limite che proponevano non sono riscontrabili a quella data. Anzi, sappiamo che a Treviso i tassi massimi per il prestito “manifesto” e legalizzato erano nel 1352 del 20% su pegno, del 25% su obbligazione scritta («super cartam»), tassi che vigevano contemporaneamente, come vedremo, anche nella podesteria di Mestre sottoposta a Treviso21.
Nel decennio successivo i prestatori operanti nella piazza di Mestre devono aver costituito addirittura un problema di ordine pubblico. Nel 1363 il Collegio scriveva al Podestà di Mestre ordinandogli di censire gli «usurai», notando condizione, numero e qualità, anche dei loro «molti familiari e agenti»; insisteva altresì che i membri della famiglia fiorentina de Lisca e i loro consimili non dovevano avere accesso alla fortezza del borgo di Mestre («fortilicia burgi Mestre»). Nel 1365 – per riportare a mo’ d’esempio un caso che coinvolgeva un tedesco – Johannes Roliger, ex-governatore del monastero veneziano dei Cavalieri Teutonici, aveva depredato la propria chiesa, portando preziosi arredi sacri dal «fenerator» fiorentino Bartolo Falcucci a Mestre come pegni per un prestito; impegnava altri oggetti a Ravenna, questa volta presso un ebreo. L’anno successivo la falsa accusa diretta contro lo stesso prestatore, e cioè che avesse fatto un prestito usurario al 25% d’interesse, si rivolse contro gli accusatori, quattro dei quali suoi conterranei22.
Sempre nel 1366, sulla base della summenzionata informativa del Podestà veneziano di Mestre, il Maggior Consiglio autorizzò il Rettore a negoziare un accordo quinquennale in quattro capitoli con due, al massimo tre «feneratores» che offrivano di concedere prestiti al 20% invece che al 25%. Trattasi di un documento noto anche perché è stato spesso considerato come la prima condotta di prestatori ebraici vicino a Venezia, anzi, certe volte come un vero e proprio invito a ebrei a prestare a Venezia. Certamente l’autorizzazione di negoziare data al Podestà riguardava solo Mestre e non Venezia e menzionava solo «feneratores» e non ebrei. D’altra parte, sembra pur vero che i prestatori cristiani, i «tuschi», fossero piuttosto dei cani sciolti invece che grossi finanziatori organizzati in compagnie e comunque dei tipi che era difficile mettere d’accordo; c’è da dubitare altresì che tre di loro fossero in grado di racimolare insieme la bellezza di 40.500 ducati d’oro di capitale liquido che il Podestà doveva richiedere alla sua controparte23. Similmente, solo tre anni più tardi, nel 1369, abbiamo la prima notizia di una società di prestatori ebraici nella vicina Padova, benché fossero ebrei italiani e non ashkenaziti. Ma più in là non si può andare; un accordo risulta esser stato concluso, ma esattamente con chi non è dato sapere. Non c’è alcuna menzione di eventuali operatori ebrei neanche nel 1370 quando il Senato, riferendosi alla delibera del 1366, ingiungeva al Podestà di Mestre di applicare la prevista multa del 50% «de tota summa», cioè sia sul capitale che sugli interessi, «pro terrore usurariorum» per infrazioni commesse contro l’accordo stipulato24. Siamo in un breve arco di anni in cui i toscani e altri legittimi prestatori cristiani scompaiono dalla documentazione, in parte sotto la pressione dei vescovi: l’usura infatti stava diventando un peccato dal quale era sempre più difficile liberarsi25. Allo stesso tempo non siamo in grado di avvalorare l’affermazione di Ariel Toaff che l’invito a dei «feneratores» di prestare «ad usuram» a Venezia nel 1382, a conclusione della disastrosa guerra di Chioggia, riguardava un semplice spostamento verso Venezia di ebrei già insediati a Mestre: manca il documento clou26.
Alla fine del quindicennio della presenza di prestatori ebrei a Venezia, 1382-139727, c’erano di sicuro dei banchieri ebraici a Mestre. Poco prima che fosse dato nel 1394 l’ordine di espulsione da Venezia degli ebrei tutti, non solo dei banchieri, da eseguire alla fine della condotta nei primi del 1397, un tale «Ber iudeus Lupi [cioè figlio di Wolf], habitator in Mestre» già prestava denaro, almeno sin dai primi anni Novanta del Trecento, quando troviamo una vera e propria condotta stipulata tra le autorità mestrine (il Podestà di Mestre e il consiglio cittadino) e l’ebreo Moisé (comunque prima del settembre 1393). Anche se acefalo, il documento è assai interessante. Al terzo punto veniamo a sapere che Moisé doveva essere trattato come se fosse un cittadino («tractetur pro cive») per facilitargli l’acquisto dei beni di cui avesse bisogno, limitatamente – va da sé – alla durata della condotta. Tra le solite clausole di una condotta qualsiasi, come il diritto di procurarsi la carne kasher, ne spiccano due o tre. Egli chiede, innanzi tutto, di poter acquistare due terreni, uno per allestire una sinagoga a proprie spese, l’altro per seppellire i «suoi» morti. Chiede inoltre il diritto di monopolio del mestiere di prestatore, in modo che le autorità di Mestre non stipulino alcuna altra licenza di fenerare ad «alcun’altra persona, cristiano o ebreo», con l’eccezione del già presente Ber («preter antedictum Beri nunc banchum habentem et mutuantem in Mestre»); il tetto massimo dell’interesse per prestiti su pegno era fissato a 15%. Infine, gli fu concesso di gestire un ospizio dove ricevere ospiti, sia gratis che a pagamento. Va detto che la mancanza allora di una sinagoga e di un cimitero già in situ, anche se in questo caso quelli richiesti vengono presentati come «propri» di Moisé, non testimonia a favore dell’esistenza di un eventuale insediamento ebraico mestrino preesistente di una qualche importanza28.
Con l’avvicinarsi dell’espulsione degli ebrei da Venezia che divenne esecutiva nel febbraio del 1397, i banchieri (parecchi, anche se non sappiamo quanti) dovettero spostare le loro operazioni in Terraferma. Mestre costituì la piazza dove la domanda di credito dei veneziani poteva essere soddisfatta più facilmente; a parte il Trevigiano, le altre città vennero a far parte dello stato solo tra il 1404 e il 1428, ma praticamente ogni documento di contorno alle dedizioni confermava gli accordi in vigore tra autorità locale e prestatore ebraico. Presto i banchi mestrini divennero tre; nei casi in cui un prestito fosse stato accordato a Venezia, il pegno doveva essere trasportato a Mestre e il calcolo dell’interesse poteva iniziare solo dal momento in cui l’accordo fosse stato registrato nei libri contabili del banco a Mestre. I tassi massimali permessi erano 15% su pegno, 20% su chirografo (cioè con garanzia scritta)29. Gli ebrei operanti a Mestre investivano per condotta somme seconde solo a quelle di Treviso a fine Trecento; già nel 1417, quando si trattava di imporre dei prestiti forzosi, venivano chiamati «multum divites». Alcuni prestiti a privati erano davvero grandi: il futuro maxi-bancarottiere Bartolomeo Zorzi nel 1463 prese 5.500 ducati in prestito dall’ebreo Moisè (fu maestro Bonaventura) «trahens banchum in Mestre» su «res, iocalia et bona» descritti in un inventario30.
Poco si sa degli ebrei mestrini e di quando passarono da mero insediamento a comunità vera e propria. Certo è che la forza dei prestatori era costituita dalla vicinanza di Venezia e della domanda per credito della sua grande popolazione. Mestre stava inoltre in una posizione geografica mediana tra le grosse comunità ebraiche di Treviso e di Padova, con le quali aveva stretti rapporti. Quando le autorità locali di Treviso entrarono in conflitto con la loro grossa comunità negli anni 1438-1442, alla fine dei quali si vietò agli ebrei il prestito tout court nel quindicennio 1442-1467, fu Mestre che ne approfittò per attrarre innanzi tutto gli operatori del credito e poi alcuni elementi di spicco del mondo culturale. Angela Möschter ha visto come momento significativo di questo passaggio l’indire, da parte del Doge Francesco Foscari, per il 16 giugno 1442 a Mestre e non più a Treviso la riunione dei rappresentanti degli ebrei di Padova, Treviso e Mestre per la suddivisione degli oneri fiscali imposti da Venezia sull’insieme degli ebrei di questi centri31. A partire dal 5 novembre 1442 Treviso si limitò a fare solo qualche sporadico accordo con operatori individuali, come quello del 1446 con il banchiere Aberlino; anche se la comunità ebraica come tale poteva restare, i suoi operatori finanziari emigrarono. Si potrebbe riportare come indicativo l’andamento dei prestiti su pegno dichiarati nelle polizze d’estimo dei contribuenti di Treviso studiati da Matthieu Scherman: sono ben 342 nell’estimo del 1434, 78 nel 1441, 75 nel 1447-1451; dei prestiti dichiarati nell’estimo del 1462, 19 indicano che i pegni avevano preso la strada per Mestre, specialmente per il banco di Frizel Rapp, egli stesso spostatosi da Treviso a Mestre prima del 1460. Möschter descrive come fosse adottato a Treviso lo stesso “sistema Mestre” che vigeva per Venezia: intermediari sulla piazza organizzavano il trasporto dei pegni ai banchi di Mestre, o l’interessato li portava egli stesso per evitare il costo aggiuntivo per cui gli ebrei venivano sempre criticati, e l’interesse partiva dalla data della registrazione del debito nei loro libri contabili a Mestre. Se la polizza o ricevuta del pegno doveva essere riconosciuta come valida e veritiera, il costo aggiuntivo del trasporto, la definizione del cliente come «forestiero» – quindi obbligato a pagare un tasso d’interesse più alto – e in generale la possibilità, con il “sistema Mestre”, di aggirare i divieti del prestito ebraico vigenti sia a Treviso che a Venezia, portò a svariati tentativi di limitare, di vietare o anche di permettere il trasporto dei pegni verso i banchi mestrini. Negli anni 1480 i banchieri di Mestre si rivolsero al Doge stesso chiedendo la legalizzazione del trasporto dei pegni e un relativo diritto: reclamavano 4 soldi da e per Treviso, mentre fu riconosciuto loro un diritto di soli 2 soldi32.
Ulteriori fonti per la comunità mestrina note finora sono poche. Dalla contabilità dell’Ospedale dei Battuti di Mestre, già menzionata, conosciamo i nomi di 28 ebrei, uomini e donne, che affittavano case dall’ente tra il 1466 e il 1507. Gli estremi cronologici sembra corrispondano, forse per caso, all’acme della presenza ebraica a Mestre33. Abbiamo già incontrato uno «scriptor» mentre pochi altri affittuari sono indicati per il mestiere che esercitavano; c’erano un tintore-berrettaio, un tessitore, un orefice e un medico che veniva chiamato a volte a curare i malati dell’Ospedale.
Il 14 maggio 1509 le truppe veneziane venivano sconfitte clamorosamente ad Agnadello e le ripercussioni della débȃcle rapidamente si facevano sentire sulle comunità ebraiche in Terraferma, che venivano prese di mira prima dai vicini di casa che dall’invasore. Il predicatore francescano fra Ruffino Lovato di Padova, più di un mese prima della sconfitta, in un sermone tenuto a Venezia durante la Settimana Santa aveva già giustificato il saccheggio delle case degli ebrei. L’unica soluzione era la fuga verso Venezia di cui racconta Marin Sanudo. Le case degli ebrei di Verona venivano messe a sacco il 31 maggio, quelle degli ebrei di Treviso nella notte tra il 2 e il 3 giugno, in quest’ultimo caso, però, gli assaltatori, loro compaesani, trovarono poco perché gli ebrei, banchieri e non, avevano già provveduto a spedire le loro cose di valore a Venezia. Lo stesso 3 giugno Sanudo annota: «Mestre è in fuga»; i suoi cittadini, come «li zudei», raggiunti da quelli di Padova, fuggivano a Venezia con licenza del Consiglio dei Dieci, con le loro cose. E poco dopo il diarista riferisce, sempre ai primi di giugno, che le guardie del Consiglio dei Dieci erano arrivate a Mestre in barche e portavano i pegni dei banchi, per lo più proprietà di debitori veneziani, al sicuro in depositi dislocati in giro per la città di Venezia, evitando così il rischio del saccheggio. Allo stesso tempo informava che le autorità veneziane non volevano che gli ebrei, oltre alle loro cose, restassero in città, citando il problema del peso degli sfollati sull’approvvigionamento alimentare. Era un po’ tardi, però, per convincere le persone a tornare a Mestre o a Padova o in altre città minacciate ora dalle truppe nemiche. Tentativi furono fatti di proteggere gli ebrei altrove, con minacce di procedere contro eventuali saccheggiatori, come rivela una disposizione del 5 giugno, emanata a Bassano, dopo che già a maggio la casa di un Mandolino era stata saccheggiata. Le autorità di Treviso, pressate da precisi settori della popolazione, specie dell’arte dei sarti e «strazzaroli», che ovviamente vedevano gli ebrei come concorrenti, chiedevano la completa estromissione degli ebrei che ancora si trovavano in città, richiesta accolta il 22 giugno dal Consiglio dei Dieci in seguito all’opzione di Treviso di restare fedele a «San Marco». L’effetto di ciò era il rapido congiungimento degli ebrei trevigiani con i loro correligionari e con i banchieri di Mestre in precipitosa fuga verso Venezia34.
Era passato appena un mese dalla sconfitta di Agnadello. Venezia accolse gli ebrei sia per proteggere i pegni dei propri cittadini sia per assicurarsi fonti di credito in un momento tra la vita e la morte per la città lagunare. Lo spostamento dei tre banchi mestrini a Venezia e l’apertura del Ghetto nel 1516 segnarono il drastico ridimensionamento di Mestre per la storia degli ebrei. Per ciò che avvenne in seguito conosciamo per ora solo riferimenti a una condotta per Mestre del 1566 e il testo completo di una condotta stipulata tra il Consiglio cittadino di Mestre e i fratelli Vivian con Iacob fu Michiel di Sacerdoti nel 1573, dopo il rientro della decisione veneziana di espellere gli ebrei in celebrazione della vittoria a Lepanto; riappare qualche contratto d’affitto da parte della Scuola dei Battuti di Mestre, dalla cui contabilità emerge un tale Leone ebreo, affittuario dal 1575 al 1584. A Venezia da quel momento diventavano operativi i famosi «banchi dei poveri», con un tasso d’interesse massimo del 5%, mentre il nuovo banco di Mestre, secondo i termini della condotta, poteva prestare al 10%35.
[…]
Conclusione
Questa breve storia ha voluto raccontare la lunga vita dei banchi ebraici di Mestre; attorno ai banchi, legittimati dalle condotte, fioriva una comunità grande per queste parti, con la sua sinagoga, il suo cimitero, il suo tribunale rabbinico, la sua yeshiva, nonché delle botteghe di «scriptores» e miniatori che producevano e copiavano manoscritti in yiddish e in ebraico. Anche se c’era contemporaneamente un insediamento ebraico considerevole e vivace nella stessa Venezia, esso rimaneva informale, più fragile, costretto a orientarsi verso Mestre, a tre ore di voga, per una parte importante della vita comunitaria.
Non si conoscono studi dedicati alla bancarotta di imprese ebraiche, ma le insolvenze qui considerate potrebbero riflettere quanto i banchi ebraici erano coinvolti nelle economie locali, regionali e inter-regionali. Iacob fu Moisé di Mestre fallì nello stesso anno di Meir di Lodi e, mentre liquidavano le loro imprese, nel 1491 i gestori dell’importante banco realtino della famiglia patrizia dei Soranzo si lasciavano convincere, a causa della congiuntura negativa, di liquidare prima di essere costretti a farlo. Le bancarotte fraudolente non sono sconosciute; Toaff racconta la frode perpetrata dal solito Salomoncino di Piove di Sacco quando nel 1481 costringeva il banchiere di Soave nel veronese a trasferire al suo banco i risparmi e gli investimenti di ebrei padovani con il risultato scontato del fallimento del banco di Soave seguito dalla condanna dei pesci piccoli e da un tentato omicidio. Nel 1497, non molto dopo il nostro caso, un rigattiere («Hemanuel qd. Isach el Rosso, hebreo straçaruol») fallì a Padova con debiti stimati in 5.500 ducati36.
Non va sottovalutato il fatto che i Sopraconsoli dei Mercanti trattarono il caso di Iacob come un normale fallimento. La procedura era uguale, dal salvacondotto all’elezione dei liquidatori. Ma il mero fatto che un’impresa bancaria ebraica poteva fallire può riflettere il fatto che investiva come un banco cristiano o per lo meno che non tutti i prestiti erano garantiti da pegni.
Il numero considerevole di creditori coinvolti nel fallimento di Iacob fu Moisé dà un’idea di come funzionavano i banchi mestrini: alcuni grandi investitori o soci, anche distanti, come Ventura di Pavia, molti piccoli investitori e depositanti. Forse il banco di Iacob può essere paragonato a quello dello svizzero-tedesco Aaron del fu Iacob a Padova vent’anni prima, quando dichiarava davanti al fisco che lui stesso aveva investito nel proprio banco solo £800 di piccoli e che operava veramente con gli averi di altri: «io trafego robe de diversi zodii»37. Mentre si può sempre sospettare di dichiarazioni rese al fisco, questa sembra significare solo che il banchiere operava come i banchieri cristiani: con soldi altrui. Sarebbe una risposta al quesito, in parte retorico, di Toaff quando, in uno dei suoi contributi negli Annali della Storia d’Italia chiedeva nel titolo: Banchieri cristiani e prestatori ebraici?
Il piccolo gruzzolo di procure notarili connesse con il fallimento di Iacob di Moisé e le delibere del Collegio indicano quanto assiduamente banchieri e investitori ebrei frequentassero gli organi di governo, gli uffici e le magistrature di Venezia quando tecnicamente le loro operazioni erano limitate a Mestre, a tre ore di distanza. Nel 1496 il Senato cercò di regolamentare la permanenza di questi outsiders e limitò a soli 15 giorni l’anno, in modo draconiano sembrava, la possibilità di un ebreo qualsiasi di soggiornare a Venezia. Se dal testo della delibera si passa invece a leggere cosa scriveva Marin Sanudo della decisione, si apprende che il provvedimento era in sé un fallimento: i banchieri ebraici venivano subito esentati dal rigore della legge, perché avevano sempre a che fare con l’ufficio dei Sopraconsoli per faccende di pegni non riscattati: «Tamen» scrive Sanudo «non molto di poi, fo conzà che quelli teneva banco potesse starvi, perché continue accadevano qualcossa a li Soraconsoli»38. Questo senso di realismo caratterizzava le trattative per i rinnovi delle condotte mestrine nel tardo Quattrocento, del primo Cinquecento tra Mestre e Venezia.
Da ultimo, si è voluto indagare sulle vicende della vendita all’asta degli affitti, prima dei tre banchi mestrini nel 1483, durante la guerra di Ferrara, poi dell’onere imposto ai banchi padovani, durante la guerra della Lega di Cambrai. L’alienazione di pubbliche entrate nella forma di censi venduti come rendite a colleghi patrizi di rango legava le mani dei legislatori nei confronti dei banchi di prestito degli ebrei, condizionava le opzioni, in quanto erano i titolari ebrei delle condotte che dovevano garantire il pagamento ai privati, generazione dopo generazione, delle rendite di quei censi. Le condizioni delle condotte dei banchi mestrini si ammorbidivano di conseguenza e, dopo la fuga da Mestre con l’avvicinarsi delle truppe imperiali nel 1509, si legalizzavano le operazioni degli stessi tre banchi mestrini, tanto necessari per lo Stato veneziano in guerra, prima a Rialto e poi definitivamente al Ghetto.
Nota. Riprendiamo queste pagine dal volume Reinhold C. Mueller, Venezia nel tardo medioevo. Economia e società/Late Medieval Venice. Economy and Society, a cura di/ed. by Luca Molà, Michael Knapton, Luciano Pezzolo, Viella, Roma 2021, pp. 367-393; del saggio presentiamo i paragrafi 1-3 e 7 («Conclusione»), pp. 367-380 e 391-393. Il testo è uscito per la prima volta nel 2010 nel volume «Interstizi». Culture ebraico-cristiane a Venezia e nei suoi domini dal medioevo all’età moderna, a cura di U. Israel, R. Juette, R.C. Mueller, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010, pp. 103-132.
- Per l’Itinerario sanudiano vedi ora Itinerario per la Terraferma veneziana, ed. critica e commento a cura di G.M. Varanini, Roma 2014, p. 384. Nel trattato francese si legge, nel contesto della giurisdizione dei Sopraconsoli sugli ebrei: «lesquelz juifz ne demeurent pas à Venise mais ilz demeurent en une petite ville qui est pres Venise environ quatre lieues nommees Mestre, ou ilz tiennent des banques et baillent à usure et prouffit de XV pour cent pour chascun an et ne peuent prendre en gaige fors seullement des biens meubles et non pas biens immeubles», ora in Descripcion ou traicté du gouvernement et régime de la cité et seigneurie de Venise. Venezia vista dalla Francia ai primi del Cinquecento, a cura di Ph. Braunstein e R.C. Mueller, Venezia e Paris 2015, p. 158. Infine, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero La città di Venetia (1493-1530), a cura di A. Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 136 (nella rist. Venezia 2011, p. 128). Nel 1515 gli ebrei banchieri prestavano a Venezia e non più a Mestre; Sanudo quindi aggiorna la sua descrizione scrivendo che un ufficiale tra i quattro Sopraconsoli «atende a vender pegni di banchi di hebrei in Rialto al publico incanto et vadagnano di ditti pegni vendeno a raxon di [tot %, lasciato in bianco]; […] Ancora, sonno zudexi di deferentie si ha con li hebrei banchieri sopra li pegni et farli dar al hebreo il resto di danari l’ha trati di pegno, ‹da›poi cavato il cavedal, l’uxura et le spexe di l’oficio»; ivi, pp. 265-266 (nella rist., pp. 286-287). La «bella sinagoga», proprietà di un ramo della famiglia Tron, fu distrutta nel 1509 e incendiata dall’esercito della lega di Cambrai, come specificano Luca, Marco e Marietta Tron, fu Antonio, nella loro condizione di Decima del 1514: «Sinagoga de’ Zudei in Mestre pagava di fitto ducati 50; quando el campo nostro allozò a Mestre avanti che si recuperasse Padoa fu ruinada, dapoi bruxada per inimixi. Al presente terren vacuo et non si traze de fitto nulla». ASVe [Archivio di Stato, Venezia], Dieci Savi alle Decime, Redecima 1514, b. 57, San Paternian, n. 24. Nel 1538 Luca e Marco Tron scrivono: «Item se ritrovemo aver in Mestre una chaxa che era la sinagoga de’ Zudei; ne soleva pagar ducati cinquanta, ma per la guera pasata furno bruxata dita chaxa, né dapoi è sta’ fabrichata et per alguni ani non abiamo auto algun fito, ma abiamo fato dificultà ché loro non puol aver sinagoga in altro luogo cha in Mestre. Oferendoni redur la chaxa como l’era prima, i qual Zudei pro nu‹n›c hano promeso pagarne el fito, ma ogn’ora i non ne pagase el dito fito, che i ne metese dificultà le Signorie Vostre ne averà a tracer da conto il dito fitto como è iusto» (l’ultimo «como» è ripetuto). Ivi, Redecima 1538, sestiere di S. Polo, b. 99, n. 33 (ringrazio Susan Connell per la segnalazione, Paola Benussi per l’aiuto). Nel 1514 i Tron hanno pur dovuto pagare una minima tassa su quella proprietà distrutta, nel 1538 no. [↩]
- Itinerario, come citato nella nota precedente. Rotta parziale in De origine, pp. 26, 175 (nella rist. pp. 24, 167). La distanza è all’incirca tra 9 e 10 km (per il percorso e la stima del tempo che si impiega a remi ringrazio Stefano Piasentini e Giovanni Caniato, archivista e gondoliere). La distanza reale sembra essere giusto la metà della stima del trattato francese (4 leghe = 20,2 km), e assai meno delle 10 miglia veneziane del Sanudo (10 miglia = 17,4 km); cfr. A. Martini, Manuale di metrologia, Torino 1883, alle voci Parigi, Venezia. [↩]
- A. Toaff, Gli insediamenti askenaziti nell’Italia settentrionale, in Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, Storia d’Italia, Annali 11, I, Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, Torino 1996, pp. 166-168. Per quanto riguarda la storia di Mestre, un breve paragrafo è stato dedicato ai Documenti sulla presenza degli ebrei a Mestre da Adriana Gusso in Mestre: le radici, identità di una città, Padova 1986 (pp. n.n.). La comunità mestrina dava anche il cognome a ebrei operanti altrove. Per esempio, J. Peršič ha individuato operazioni di prestito nella podesteria di Pirano in Istria di tale Moisé di Mestre nel 1401 e 1405 e di Samuel di Mestre a partire dal 1409; vedi Židje in kreditno poslovanje v srednjeveškem Piranu, Ljubljana 1999, pp. 62, 70, 85-90 e le tabelle a partire da p. 100; è un lavoro basato in buona parte su una documentazione nutrita di prima mano, con riferimenti ai tassi d’interesse e ai pegni lasciati. [↩]
- Germania Judaica, III/1, a cura di A. Maimon, Tübingen 1987-2003, p. 137, n. 9, e III/2, p. 828, n. 505 (ringrazio Angela Möschter per queste indicazioni). Ci sono notizie sulla presenza del dotto Moisé ben Iacob a Treviso nel 1453, a Mestre nel 1474; ivi, p. 1519, n. 243. [↩]
- Yiddish in Italia. Manoscritti e libri a stampa in yiddish dei secoli XV-XVII, a cura di E. Timm e C. Turniansky, Milano 2003, p. 142 (fonte gentilmente passatami da Vittorio Levis). [↩]
- A. Checchin, La scuola e l’ospedale di S. Maria dei Battuti di Mestre dalle origini al 1520, in «Quaderno di studi e notizie», n.s., 6 (1996), pp. 59, 100. [↩]
- I due manoscritti hanno avuto attraverso i secoli una storia parallela di possesso e si trovano oggi nella biblioteca regionale del Baden-Württemberg a Stoccarda; Yiddish in Italia, p. 146. [↩]
- A. Toaff, Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali, Bologna 2008, p. 32, riferendosi a D. Carpi, L’individuo e la collettività. Saggi di storia degli ebrei a Padova e nel Veneto nell’età del Rinascimento, Firenze 2002, pp. 44-45. Colon era a Mestre nel 1467 quando dirimette una lite tra il banchiere mestrino Frizel Rapp e lo stampatore di Piove di Sacco Meshullam Cusi, riguardante il divorzio dei loro figli (stampò nel 1475 il primo libro in ebraico del mondo). D. Nissim, Famiglie Rapa e Rapaport nell’Italia settentrionale (secc. XV-XVI), in «Rassegna mensile d’Israel», 67 (2001), pp. 183, 188-189. Anche il rabbino Isaak Levi di Ingelheim si trovava a Mestre nel 1469, probabilmente nella circostanza della riunione a Piove di Sacco; vedi Germania Judaica, III/1, pp. 581-582. [↩]
- Yiddish in Italia, p. 20. Su questa figura vedi anche D. Nissim, Un “minian” di ebrei ashkenaziti a Venezia negli anni 1465-1480, in «Italia. Studi e ricerche sulla storia, la cultura e la letteratura degli ebrei d’Italia», 16 (2004), p. 45, dove apprendiamo che dev’essere stato a Venezia nel 1483, in quanto cita data e conseguenze dell’incendio di quell’anno al Palazzo Ducale. [↩]
- D. Jacoby, New Evidence on Jewish Bankers in Venice and the Venetian Terraferma (c. 1450-1550), in The Mediterranean and the Jews, 1, Banking, Finance and International Trade, XVI-XVIII Centuries, Ramat Gan 1989, p. 165; il libro è ora presso lo Hebrew Union College, Cincinnati. [↩]
- H. Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die Deutsch-Venetianischen Handelsbeziehungen, 2 voll., Stuttgart 1887, II, doc. 64, p. 324, e A. Möschter, Juden im venezianischen Treviso (1389-1509), Hannover 2008, scheda 60, pp. 311-312 e l’albero genealogico a p. 351. [↩]
- ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 10, c. 113r (27 novembre 1464); sul provvedimento vedi l’analisi di E. Ashtor, Gli inizi della comunità ebraica a Venezia, «Rassegna mensile d’Israel», 44 (1978), pp. 700-701. Che la situazione fosse fluida si può desumere dall’arresto di «multi ebrei» e dalla multa comminata dai Capi dei sestieri perché «fecerunt officium iudaicum Venetiis sub die 8 martii»; gli ebrei appellarono la condanna il giorno successivo davanti agli Avogadori di Comun e vinsero il caso; ASVe, Avogaria di Comun, reg. 3650/I, c. 60v (9 marzo 1453). I Capi dei sestieri probabilmente si erano basati sulla legge del 3 novembre 1426 che vietò agli ebrei di tenere servizi sinagogali nelle case che affittavano dai cristiani, pena da 6 a 12 mesi di carcere e da £300 a £1.000 di multa; ASVe, Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 22 (Ursa), c. 67v. [↩]
- «Quoniam iudei Venetiis commorantes portant eorum filios Mestre ut circumcidantur et aliquando tempore hiemali cum maximo eorum periculo, et omnipotens Deus noster dicat: “Nolo mortem peccatoris sed ut potius convertatur et vivat” et in hac circumcisione non sit necessarium congregatio decem virorum nec facere sinagogam, ut in aliis suis sacrificiis fieri solet. Infrascripti domini consiliarii dederunt et liberam licentiam concesserunt Marcutio hebreo quondam *** habitatori Venetiarum et aliis hebreis Venetiis commorantibus quod possint impune eorum filios natos et nascituros Venetiis in eorum domibus circumcidere iuxta consuetudines et ordines legis et fidei sue. Consiliarii: ser Antonius Venerio, ser Marinus de Garzonibus, ser Nicolaus Leono, ser Thomas Lipomano» [banchiere a Rialto]. ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 13, c. 41v (44v in matita), gentilmente passatomi da Stefano Piasentini. Il famoso passo biblico suona nella Vulgata: «Vivo ego, dicit Dominus Deus, nolo mortem impii, sed magis ut convertatur impius a via sua, et vivat» (Ezechiele, XXXIII, 11). Il frate Francesco Surian avrebbe raccontato una storia al riguardo nel suo diario di viaggio in Terrasanta, riportata da Toaff, il quale ha voluto dare un nome al padre e una data molto diversi da ciò che risulta dal testo qui riportato; comunque sia, non si può che condividere la sua conclusione: «sembra un fatto che verso la fine del Quattrocento fossero ormai numerose le donne ebree che partorivano a Venezia»; Pasque di sangue, pp. 57-58 e 263-264, nota 36. È da notare che anche con la segregazione degli ebrei nel Ghetto nel 1516 era sempre proibito costituire una sinagoga a Venezia; quella di Mestre restava l’unica consentita; B.S. Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice, Oxford 1971, p. 488, e cfr. supra, nota 1. [↩]
- La comunità ebraica di Venezia e il suo antico cimitero, a cura di A. Luzzatto, 2 voll., Milano 2000, e Nissim, Un “minian”, pp. 45-46. [↩]
- Il capitolo suona così: si potevano «tenir suoi maestri a far studiar le sue leze et tenir tutti li suoi libri come hanno fatto in fin al presente senza contradizion […], et possino far vegnir quanti giudei a loro parerà ad habitar et studiar in Mestre»; ASVe, Sopraconsoli dei Mercanti, b. 1, Capitolare, c. 70v. [↩]
- ASVe, Collegio, Notatorio, reg. 10, c. 114r (28 novembre 1464); il testo della condotta stessa non è stato trovato. [↩]
- Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig, II, pp. 331-332, doc. 88. L’anno successivo l’ebreo Paxe, famiglio sempre di Federico III, in viaggio verso Venezia col compito di acquistare seterie e zafferano, si lagnò di essere stato maltrattato a Milano ma non altrove; vedi The Jews in the Duchy of Milan, a cura di S. Simonsohn, 2, 1477-1566, Gerusalemme 1982, n. 2197, p. 909. [↩]
- C.M. Sanfilippo, Fra lingua e storia: note per una Giudecca non giudaica, in «Rivista Italiana di Onomastica», 4 (1998), pp. 7-19. [↩]
- Deliberazioni del Maggior consiglio di Venezia, a cura di R. Cessi, 3 voll., Bologna 1931-1950, II, p. 222. Giusto un decennio prima si proibì il prestito usurario a Chioggia e si ordinò in seguito al Podestà di Chioggia di allinearsi alle direttive degli «officiales Venetiis costituti super usuris»; vedi ivi, III, p. 219 (21 settembre 1288) e ASVe, Secreta, Commissioni – Formulari, reg. 1, c. 28r-v, cap. 33-36 (gentilmente portati alla mia attenzione da Ermanno Orlando). [↩]
- Problemi monetari veneziani, a cura di R. Cessi, Padova 1937, doc. 122 (1 dicembre 1361); cfr. R.C. Mueller, The Procuratori di San Marco and the Venetian Credit Market: A Study of the Development of Credit and Banking in the Trecento, New York 1977 [1969], pp. 270-272. [↩]
- Vedi il bando, letto dal precone a Treviso «in plathea cambii […] et super plathea piscariarum» il 10 giugno 1352, in Treviso, Biblioteca Capitolare, Actorum 1351-1352, scatola 2 (gentilmente fattomi conoscere da Paolo Cagnin). [↩]
- Per l’ordine del 1363 vedi ASVe, Secreta, Collegio, Secreti, reg. 1363-66, c. 6r (11 giugno). Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig, II, p. 304, doc. 31. Cfr. R.C. Mueller, Les prêteurs juifs de Venise au Moyen Âge, in «Annales. ESC», 30 (1975), 6, pp. 1277-1302, ora in questo volume [Venezia nel tardo medioevo. Economia e società/Late medieval Venice. Economy and society, a cura di/ed. by L. Molà, M. Knapton, L. Pezzolo, Roma 2021]. Negli atti di un «notarius de Mestre» troviamo menzionati i seguenti operatori, ciascuno definito «de Florentia et nunc moratur Mestre»: Iacopo Grasso qd. Gaini, Iacopo de Lisca e Nicolò Bati; in ASTv [Archivio di Stato, Treviso], Notarile I, b. 3, notaio Frescobaldo fu Giovanni – verosimilmente fiorentino pure lui – marzo-luglio 1346 (cc. n.n.). L’accusa, risultata falsa, di usura contro Bartolo Falcucci per un grosso prestito di 1.000 ducati concesso a Enginolfa de Lisca, cioè per aver chiesto il 25% quando, come a Treviso, i tassi massimi erano 20% su pegno, 25% su obbligazione scritta, era sostenuta da Tommaso Nerli di Firenze, Piero qd. Bandino de Lisca, Francesco qd. Piero di Firenze e Nannino da Siena, tutti condannati al bando «in perpetuo»; vedi ASVe, Avogaria di Comun, reg. 3643, c. 87r-v (18 luglio 1366). Un Simeone de Lisca, «civis et mercator Florentinus» abitante a Venezia a S. Polo, aveva invitato a casa sua per la festa detta della Sensa Iacopo, suo parente, «habitator Tarvisio» ma prestatore a Mestre, ignorante del fatto «quod nullus Tuscus usurarius in Mestre non possit nec debeat modo aliquo venire Veneciis», né un suo «famulus», né si poteva dare ospitalità ad un tale usuraio; i due erano stati denunciati al Piovego; vedi ASVe, Grazie, reg. 11, c. 28r (10 luglio 1345). Sulla potente famiglia de Lisca, di cui un Iacopo (impossibile sapere se lo stesso menzionato sopra) era banchiere a Rialto negli anni 1355-1357, vedi G.M. Varanini, Tra Firenze e Verona. La famiglia da Lisca nel Tre e Quattrocento, in Domus illorum de Lisca. Una famiglia e un palazzo del Rinascimento a Verona, Verona 2002, pp. 23-24. [↩]
- ASVe, Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 19 (Novella), c. 102v (28 giugno 1366); cfr. Mueller, Les prêteurs juifs de Venise au Moyen‑Âge. Le autorità veneziane sembrano aver avuto a cuore in particolare i veneziani bisognosi di credito e l’accordo era richiesto «ut pauperes persone non desertentur». Allo stesso tempo, ci sono decine di appelli nelle Grazie del Maggior consiglio contro condanne comminate dall’officio del Piovego sulla base della legge del 1289 a persone che erano andate a Mestre in cerca di credito su pegno; vedi Mueller, The Procuratori di San Marco, pp. 280-318. [↩]
- ASVe, Senato, Misti, reg. 33, c. 51v (10 aprile 1370). [↩]
- Vedi al riguardo l’analisi di Michele Luzzati, che data il rafforzamento della critica all’usura cristiana all’arrivo della peste nera, in Banchi e insediamenti ebraici nell’Italia centrosettentrionale fra tardo Medioevo e inizi dell’Età moderna, in Gli ebrei in Italia, specie alle pp. 180-183. [↩]
- Toaff, Gli insediamenti askenaziti, p. 166. [↩]
- Mueller, Les prêteurs juifs de Venise au Moyen‑Âge. [↩]
- ASVe, Cancelleria Inferiore, Notai, b. 96, notaio Petrus de Gualfinis, il quale rogava a Verona, 1390-1393, prima di spostarsi a Mestre. Questo Mosé potrebbe essere quel «Moses iudeus filius Salomonis qui moratur Mestre» che Angela Möschter ha trovato in un documento del 16 luglio 1394 (vedi ASTv, Notarile I, b. 219, Q. 1390-1397 e il suo Juden im venezianischen Treviso, p. 84). La studiosa ha scoperto inoltre in una lettera ducale di quattro anni più tardi che la stessa residenza del Podestà a Mestre era abitata da ebrei (Treviso, Biblioteca Capitolare, Ducali, scatola 5a, n. 1986 [31 maggio 1398]). Chi sia Ber, dato come già presente a Mestre con un banco, non ci è dato sapere. Un «Ber de Norimbergo» stipulava con Venezia un accordo fuori condotta nel 1389; un Ber di Seligman faceva un contratto «cum cartis» a Venezia nel 1386; e c’è un Ber che nel 1397, all’età di 70 anni, abitava una casa a Treviso presa in affitto da un «tuschano», Lodovico del fu Luca «de Florencia», verosimilmente un prestatore cristiano ora disoccupato. Vedi Mueller, Les prêteurs juifs de Venise au Moyen‑Âge e Möschter, Juden im venezianischen Treviso, p. 358. Nel 1404 nel Senato si deliberava che i pegni lasciati presso gli «iudei» di Mestre da veneziani dovevano essere portati a Venezia e messi all’asta dai Sopraconsoli per evitare che venissero venduti «pro vili precio»; ASVe, Senato, Misti, reg. 46, c. 134r. [↩]
- Di solito si dà per scontato che i tassi chiesti fossero sempre quelli massimali, ma in un caso dibattuto in tribunale l’accusato ripassava la contabilità di vari prestiti fatti presso i «zudei» di Mestre su pegni di valore ma anche di uno per 100 ducati che aveva avuto al 10%; vedi ASVe, Giudici di Petizion, Sentenze a giustizia, reg. 133, cc. 138r-147r (25 settembre 1461). [↩]
- Möschter, Juden im venezianischen Treviso, lettera del Podestà di Treviso del 1398, pp. 264, 361-363; ASVe, Senato, Misti, reg. 52, c. 2v; ASVe, Avogaria di Comun, reg. 3651/II, cc. 81v- 82r (7 dicembre 1464). [↩]
- Möschter, Juden im venezianischen Treviso, pp. 267-272. In questo contesto si può notare il caso di un ebreo convertito, certo «Petrus olim iudeus», che nel 1441 sovrintendeva alla Camera dei pegni di Treviso, mettendo a frutto la sua expertise, ora per l’amministrazione pubblica; vedi D. D’Andrea, Civic Christianity in Renaissance Italy: The Hospital of Treviso, 1400-1530, Rochester NY 2007, p. 55 e nota 97. [↩]
- Möschter, Juden im venezianischen Treviso, pp. 166-167, 179-187, 250-257, 278, 311. Molte fonti trevigiane citate da Angela Möschter riguardano Mestre e andrebbero studiate ulteriormente anche da quest’ultimo punto di vista; per es., il trasporto di pegni da Treviso a Mestre fu vietato nel 1446, permesso con concessioni ad hoc negli anni 1466-1467, 1472-1473, 1483-1484 e 1487, come risulta dalla banca dati fornitami generosamente dall’autrice. Per le polizze d’estimo ringrazio Matthieu Scherman per avermi estratto dalla sua banca dati tutte le menzioni di prestiti su pegno. [↩]
- Checchin, La scuola e l’ospedale, p. 100. Anche il priorato di S. Giovanni di Malta aveva una casa a Mestre «per mezzo la casa del podestà» che veniva affittata a un Iacob giudeo prima del 1489; vedi ASVe, Ospedali e luoghi pii diversi, b. 551, fasc. 1 (20 luglio 1489). [↩]
- Vedi in generale Pullan, Rich and Poor, pp. 477-479; sul francescano, p. 484. Su Treviso, Möschter, Juden im venezianischen Treviso, pp. 193-196. Ecco i commenti di Marin Sanudo, I diarii, a cura di R. Fulin et al., 58 voll., Venezia 1879-1903, VII: a Treviso, che già aveva un Monte di Pietà, i saccheggiatori «non trovano molta roba di haver, perchè il bon e mior haveano fato portar in questa terra, etc. Noto. Mestre è in fuga, li citadini hanno mandà le sue robe qui; e li zudei, con destreza, il bon e mior, con licentia di la Signoria e cai di X, li fenno portar in questa terra, e molti zudei di Padoa e Mestre veneno a star qui» (col. 340). Sul sacco a Verona, vedi ivi, col. 344. Ai primi di giugno il diarista scrive: «Noto. Erano in questa terra molti zudei schampati; e li fo comandato andaseno via, a Padoa et altrove, per leviar la terra di le vituarie. Item, le barche dil consejo di X stevano atorno le case di zudei, banchieri, di Mestre; et li pegni portono in varij lochi securi, per la terra, per dubio di novità; e poi li fo fato comandamento si partisse e ritornasse via le persone, volendo» (ivi, coll. 355-356). Infine sull’ordinanza bassanese, tardiva, vedi ivi, col. 376. Da notare che tra i fuggitivi da Padova verso Venezia a fine maggio c’erano Elia Capsali e i suoi famigliari (vedi gli studi di Giacomo Corazzol). [↩]
- Ringrazio Annamaria Pozzan per avermi passato la notizia sull’affitto di una casa della Scuola dei Battuti, tratta dai libri contabili di quell’istituto. La condotta del 1573, che menziona in più punti quella del 1566 e parla, nel contesto della vendita dei pegni, de «li termini et obblighi soliti e consueti» da osservare, è stata pubblicata da B. Barcella, Notizie storiche del castello di Mestre, Venezia 1839 (rist. anast. Mestre 1966), Appendice, doc. XXXIV (senza data ma appena dopo il 29 novembre 1573). Il 19 luglio del 1573 venivano eletti a Venezia quattro deputati per contrattare con ebrei disponibili ad imprestare «ai poveri di Mestre» al 10%; tutto l’iter e la condotta stessa trovasi in Archivio Podestarile, Mestre, b. 66, Parti del Consiglio, 1573-1583 (Lib. D.5), cc. 4v-16r. Per il contesto veneziano vedi B. Ravid, The Socioeconomic Background of the Expulsion and Readmission of the Venetian Jews, 1571-1573, in Essays in Modern Jewish History. A Tribute to Ben Halpern, a cura di F. Malino e P. Cohen Albert, London-Toronto 1982, specie alle pp. 48-49. [↩]
- Toaff, Pasque di sangue, p. 44; riguardo ai creditori del rigattiere, vedi ASVe, Senato, Terra, reg. 13, c. 20r (11 ottobre 1497). [↩]
- Toaff, Pasque di sangue, p. 254, nota 33. [↩]
- Sanudo, I diarii, I, col. 81. Si aggiunge in ultima istanza, grazie alla segnalazione di Elena Svalduz, che il gruppo di studio coordinato da Wladimiro Dorigo identificò una «chasa […] che abita i Zudei che tegniva lo bancho novo» nelle vicinanze della «tore de le Zigogne» nel castello nuovo di Mestre negli anni 1490, citando ASVe, Ufficiali alle Rason Vecchie, reg. 6, c. 186r. Vedi Mestre Medioevale, prima in «Venezia Arti» del 1991, ristampato in Storia di Mestre, a cura di R. Stevanato, Venezia-Mestre 1999, pp. 39 e 41 (alla nota 92, dove peraltro si scambiano gli usurai toscani d’epoca precedente per ebrei). La «chasa» viene localizzata nella ricostruzione della mappa del castello nuovo (p. 34). [↩]