di sAm voci fuori luogo, a cura di Maria Giovanna Lazzarin
Nel corso del 2021 all’interno di storiAmestre si è costituito un nuovo gruppo di lavoro, che si è denominato voci fuori luogo, con l’interesse di esplorare i cambiamenti del territorio legati alla presenza di cittadine e cittadini provenienti da altri luoghi. Riceviamo e pubblichiamo la relazione che il gruppo ha steso dopo aver partecipato al laboratorio “Oggetti migranti”, organizzata nell’ambito della mostra Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim, presso il museo Peggy Guggenheim di Venezia.
Museo
[…] C’è il ventaglio – e i rossori?
C’è la spada – dov’è l’ira?
E il liuto, non un suono all’imbrunire. […]
Wistawa Szimborska
Dal 6 ottobre 2021 al 10 gennaio 2022 presso il museo Peggy Guggenheim è rimasta aperta la mostra Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim. Sono state esposte trentacinque opere acquistate da Peggy Guggenheim tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento presso il gallerista Julius Carlebach di New York e lo scultore-mercante-esploratore Franco Monti di Milano. L’allestimento le metteva a confronto con opere di artisti europei del primo Novecento che si sono interessati e ispirati alle arti non occidentali, quali Picasso e Marx Ernst.
Al nostro gruppo sAm voci fuori luogo interessava il titolo della mostra, ma in particolare eravamo attirati dal laboratorio di translanguaging1 che Michela Perrotta proponeva a partire da quegli oggetti. Ci sembrava un’occasione per contattare alcune “voci fuori luogo”, capire se qualcuno o qualcuna era interessata all’iniziativa e provare a lavorare insieme.
Michela ci ha dato un’unica data, sabato 8 gennaio ore 9. Noi eravamo in quattro – Anna, Gianfranco, Giovanna, Maria –, il laboratorio poteva ospitare fino a 15 partecipanti, così abbiamo provato a contattare persone provenienti da altri stati o continenti, ma niente, nessuno sembrava interessato.
Poco prima di Natale alla domanda sul perché non ci fossero iscritti al laboratorio, Rosanna Marcato, ex responsabile del Servizio Richiedenti Asilo e Rifugiati del Comune di Venezia, ci rispondeva: “si son rotti, si son rotti di fare i testimoni, si son rotti di perdere il loro tempo senza avere niente in cambio”.
Giusto.
Ai primi di gennaio si iscrivono Olia, una giovane ucraina che lavora e frequenta il serale all’istituto Gritti, la sua amica Fernanda che l’ha informata e l’accompagna, Solomon, un giovane etiope qui per un master IUAV di ingegneria ambientale e Amadou Dia, senegalese, in Italia da molti anni, che per partecipare prende un permesso, non riuscirà poi a venire perché chiamato al lavoro all’ultimo minuto. Gianfranco conosce entrambi.
Tre giorni prima del laboratorio arriva la richiesta di un gruppo numeroso del coro voci dal mondo, informato tramite il Tavolo Comunità accoglienti, una rete di associazioni locali. Siamo contenti perché conosciamo il coro, ci piace andarlo a sentire, è sorprendente la capacità loro e della maestra, Beppa Casarin di far cantare insieme persone e musiche di diverse culture e aree del mondo. Ma a questo punto ci sono troppi iscritti, siamo costretti a chiedere di sceglierne solo 8. Alla fine verranno Prince e Ernest, due giovani nigeriani, Nadia col figlio adolescente e la figlia Amira di 8 anni, originari del Marocco, una giovane messicana di nome Pil e due loro compagne di coro, Silvana e Gisa. Del nostro gruppo sAm voci fuori luogo Maria e Anna devono rinunciare causa covid.
Giovanna comincia a chiedersi con un po’ d’ansia come sarà l’incontro tra persone che non si conoscono già, ma quando ci incontriamo al ponte di Calatrava per andare insieme al museo scopre di conoscere bene Silvana e Gisa e che gran parte dei partecipanti ha legami di amicizia attraverso il coro, Olia attraverso Fernanda, Giovanna e Gianfranco attraverso Fernanda, Gisa, Silvana.
Dunque all’invito hanno risposto non individui singoli ma collegati, chi più chi meno, a un gruppo già formato, un coro che lavora sulle differenze culturali e le diverse provenienze.
Questa sintonia ha creato l’interesse e spinto persone diverse per età, provenienza, genere, esperienze, lavori a partecipare al laboratorio pensato da Michela Perrotta. Potenza della musica, si potrebbe dire.
Partire dal giardino
Michela Perrotta segue una giovane partecipante del laboratorio nel tracciare il suo percorso sulla mappa
La prima tappa del laboratorio si è svolta nel giardino del museo.
Michela ha portato una mappa del mondo, ha narrato brevemente e tracciato sulla carta i viaggi di Peggy Guggenheim tra New York e l’Europa, i suoi tra Napoli e Venezia, e ha chiesto a ciascuno di noi di fare altrettanto.
Cartellone con i percorsi dei partecipanti al laboratorio e le firme di Michela e Amira
Nadia ha raccontato il viaggio dal Marocco alla Libia, dove si è fermata 10 anni con la famiglia – lì sono nati i due figli che erano con lei – per poi giungere in Italia via mare. Anche Ernest e Prince hanno fatto una lunga risalita dalla Nigeria alla Libia per arrivare in Italia via mare. Solomon dall’Eritrea ha preso l’aereo perché fa parte di un corridoio universitario, Pil una nave dal Messico, Olia una corriera dall’Ucraina. Giovanna ha raccontato di essere emigrata in Brasile con la famiglia quando era piccola, andata e ritorno in nave. Gisa, Fernanda, Gianfranco, Silvana avevano percorsi interni alla regione o al comune.
Questa prima attività è servita a facilitare la relazione tra tutti noi.
Siamo poi entrati nella mostra e ci siamo fermati a lungo su due oggetti “migranti” esposti.
La foto rende parzialmente l’emozione provata nel vedere l’oggetto dal vero. È alto 142 cm, largo 40, lungo 75. Legno e bullette di ottone. Imponente e maestoso.
Giovanna ha pensato a una statua, le sembrava pesante, con uno sguardo inquietante. Ernest, Prince, Nadia hanno subito riconosciuto una maschera che portano a spalla i danzatori durante le cerimonie e sono andati a cercare i buchi per gli occhi che si trovano nell’incavo tra le due parti borchiate del busto.
Improvvisamente l’oggetto ha preso vita, fatto immaginare musiche, danze, leggerezza. Ernst e Prince hanno cercato in internet e ci hanno mostrato le feste dei loro paesi dove le maschere hanno un ruolo importante.
Nel catalogo della mostra si spiega che il governo coloniale francese della Guinea, da dove questa maschera proviene, a inizio Novecento aveva proibito queste danze mascherate e alla metà degli anni Cinquanta la predicazione di due missionari musulmani aveva portato alla quasi scomparsa di questi oggetti rituali2.
Ma Nadia ci racconta che in Libia ha potuto vedere una danza con queste maschere. I danzatori erano maschi, quasi nudi, l’identità nascosta dalla maschera.
L’allestimento della sala era studiato per far dialogare la maschera D’mba con il busto di uomo in maglia a righe, guazzo su carta di Pablo Picasso, che si trovava nella parete a fianco. Michela prova a farci notare la deformazione del viso che sembra collegare i due busti, ma la maschera si è imposta all’attenzione e all’immaginario di tutto il gruppo, svincolandosi dal legame col primitivismo pensato dall’artista cubista e recuperando alcuni indizi della sua storia e dei suoi significati rituali.
Qualcuno di noi ricorda altre feste e cerimonie e Michela chiede a ognuno di raccontare e scrivere in un cartellone le parole che usiamo nella lingua materna per festa e cerimonia.
Il cartellone che si vede sopra raccoglie la complessità delle lingue presenti.
Per esempio Prince e Ernest, che si erano presentati come nigeriani, ci hanno spiegato che parlano due lingue diverse, pur essendo di territori non troppo lontani. Nella zona centrale del cartellone a sinistra si possono leggere le parole odun (festa) e eyo (cerimonia) scritte da Prince, che è yoruba, nella riga sotto gli stessi concetti sono scritti da Ernest, che è edo3. Le due parole si ritrovano scritte in arabo, eritreo, spagnolo, ucraino e italiano.
È stato questo un momento di translanguaging, in cui ognuno faceva risuonare la propria lingua originaria e cercava di presentare agli altri in italiano o in inglese quello che aveva in mente.
Vista la provenienza di alcuni presenti, Michela ha scelto di farci visitare un’altra sala con oggetti “migranti” africani. Quando siamo entrati Ernest ha quasi gridato, rivolto a Prince: «Guarda, questa è Yoruba, sei tu!».
Poi, chiedendo ogni tanto in inglese conferma a Prince, che non aveva la stessa scioltezza in italiano, ha continuato:
«Il re siede sopra, il bambino [che ha in braccio, ndr] è un figlio, un futuro re, nessun altro può sedere lì. Il re è seduto, sotto c’è un serpente e sotto le decorazioni, una scimmia. Quello è uomo che suona, questo […] è uno strumento che se tu non vuoi ballare ti fa ballare per forza. Quando inizia a suonare quelle due donne che hanno qualcosa in testa, arrivano, il re è contento».
Prince: «Lui suona e tutti gli altri lo seguono, è come una cerimonia».
Maschera copricapo Egungun, particolare col suonatore e una donna
Chiediamo a Ernest come ha fatto a capire che era una maschera yoruba.
«I segni4: tre sopra, sulla fronte, tre sotto sul viso sono segni yoruba. Gli yoruba sono molto importanti e anche il re è importante, quando tu vedevi un yoruba non potevi attaccarlo, non potevi fargli del male».
«E cosa significano?»
«Una volta c’era una guerra e fanno questi tagli per sapere da dove vieni, per dire chi sei, così quando arrivano sappiamo che sono yoruba. Noi edo ne abbiamo due. Gli uomini fanno in faccia, le donne anche nel corpo».
Guarda Prince e continua: «Ma noi non vogliamo questa cosa, i nostri padri, 50 anni, 30 anni, ancora hanno questa cosa, ma adesso noi di 25 anni siamo tutti uguali, non vogliamo più farci queste cose in faccia».
Guarda la maschera e conclude: «L’Oba dell’Edostate5 ha accettato la restituzione degli oggetti da parte di Londra, dopo che il governo nigeriano ha fatto l’accordo»6.
Tutto il gruppo in cerchio ascolta. Circola un’emozione forte nell’immaginare il mondo di incontri, scontri, cerimonie, suoni, regalità che la maschera sembra rappresentare, i cambiamenti che stanno avvenendo nel passaggio dalla generazione dei padri a quella dei figli, quasi come dal re al figlio del re, l’affermazione di eguaglianza che emerge.
Scarcerare gli oggetti. Ancora sulla maschera copricapo Egungun
Solo quando ci siamo incontrati come gruppo sAm voci fuori luogo per ragionare insieme sul laboratorio abbiamo realizzato quanto potente fosse in quel contesto l’ultima frase di Ernest.
Probabilmente si riferiva a un evento di due mesi prima, quando sono stati restituiti alla Nigeria due rilievi del XVI secolo e una testa del XIV secolo, in bronzo, provenienti dal regno del Benin e sequestrati dai britannici durante l’occupazione del 18977.
Ma portava a domande più generali: perché possedere un oggetto di un’altra cultura? come è arrivato in quel luogo? quali storie, trascurate e conflittuali, rappresenta? e infine, chi ha diritto di parlarne?
Peggy Guggenheim aveva acquistato da galleristi tutti gli oggetti “migranti” in mostra. Il suo era un approccio estetico, legato al primitivismo modernista degli artisti a lei cari e alla moda dell’arte africana nell’arredamento di interni degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso8. Non sembrava interessata a funzioni, significati, storie di questi oggetti.
L’allestimento della mostra vuole documentare la mitologia primitivista che ha ispirato l’arte cubista e surrealista dei primi anni del Novecento e il gusto di Peggy Guggenheim nell’accostare questi artisti agli oggetti “migranti” da lei acquistati. A dialogare con la maschera copricapo Egungun c’era nella stessa sala L’Habitué (1920), di Louis Marcoussis.
Ma – come scrive Ellen McBreen nel catalogo – non si sarebbe potuto acquistare questi oggetti “senza la storia imperialista del commercio coloniale e delle spedizioni etnografiche che li rese disponibili”9. I curatori della mostra sembrano consapevoli dei conflitti in corso sulle opere africane e di altri continenti esposte. In preparazione dell’allestimento è stata fatta una ricerca accurata sulla loro provenienza, storia e significato.
Tra tutte solo per la maschera copricapo Egungun si è potuti risalire all’autore. Viene attribuita all’atelier di Oniyide Adugbologe operante a Abeokuta, Nigeria, una bottega a conduzione familiare di scultori yoruba descritta da Christa Clarke, studiosa dell’arte africana, in un intervento nel sito del museo: “all’inizio del Novecento si erano specializzati a fare copricapo Egungun. Tali copricapo erano usati come maschere durante cerimonie in onore degli antenati e dei morti. In questi riti venivano indossati da uomini la cui identità veniva nascosta ai presenti anche grazie a costumi. La bottega aveva ampliato la clientela, ma una commissione locale definì le loro sculture inaccettabili [per motivi artistici, tecnici e anche spirituali ]. Così [a metà secolo] si aprì il mercato a turisti e espatriati. L’opera è stata fatta in questo periodo di transizione”10.
Christa Clarke ritiene che il personaggio principale di questa maschera rappresenti una sacerdotessa, forse di Shango, il dio del tuono11.
L’interpretazione data da Ernest e Prince è diversa, ma diverso, soprattutto, è lo sguardo che parte dal presente, fa emergere una storia di espropri e cambiamenti nel tempo, rivendica il diritto e la necessità che a parlarne siano gli eredi di quella cultura.
L’esperienza di laboratorio sugli oggetti migranti proposta da Michela Perrotta ha dato spazio alla narrazione di chi della cultura di quegli oggetti ha ancora esperienza. Attraverso le loro parole gli oggetti intorno a cui abbiamo sostato sono stati sottratti alla fascinazione esotizzante di una mitologia primitivista e hanno acquisito una vita comunitaria e una dimensione storica. Se la presenza di questa proposta in mostra aveva lo scopo di aprire a uno sguardo diverso sulle opere e sull’allestimento, in questo caso sembra esserci riuscita.
Ma c’è un dibattito in corso sui musei etnografici, nati in Europa nel periodo della massima espansione imperialista e mercantile quando le nazioni coloniali costruiscono la propria identità egemonizzante sulle altre.
L’antropologa Giulia Grechi nella sua ampia ricerca dal titolo Decolonizzare il museo12 spiega come il museo sia uno specchio che riflette e in cui una collettività si rispecchia, racconta la nascita di questi musei fatta per organizzare l’identità immaginata della nazione, costruendo insieme l’identità degli oggetti e delle persone che guardano, incarcerando le opere nella narrazione dominante e rendendo invisibile la violenza di quel dominio. È giunto il momento, dice l’antropologa, di decolonizzarli, scarcerare gli oggetti esposti e liberare anche il nostro sguardo, rendere visibile il processo violento di cambiamento avvenuto nel contatto con l’occidente.
Anche a partire dalle parole. Ci ha colpito il titolo della mostra esposta alla Guggenheim, Oggetti migranti, tanto più se messo a confronto con un’altra mostra dallo stesso titolo che nel 2017 presentava il primo nucleo della collezione restaurata degli oggetti appartenuti ai migranti e ritrovati a Lampedusa, in vista della realizzazione di un museo delle migrazioni in quell’isola13.
Quale immagine di migrante voleva restituire la mostra della Guggenheim? Cosa voleva smuovere nella testa di chi andava a visitarla? Quali dubbi, incertezze, curiosità?
Pensiamo non sia possibile rimuovere dalla parola migrante la storia di conflitti, dominio coloniale e commerciale, disperazione e sofferenza. La voce di chi nella propria storia e genealogia ha vissuto quelle esperienze le rende visibili e concrete. Spetta a tutti noi accogliere il disagio che provocano e modificare i nostri schemi.
- Il translanguaging è una pratica linguistica in cui, con gruppi di diversa provenienza linguistica, viene incoraggiato l’uso della propria lingua madre per favorire la conoscenza e lo scambio culturale. Il laboratorio translanguaging Oggetti migranti nasce da una collaborazione tra la Collezione Peggy Guggenheim e il MILE (Museums and Innovation in Language Education) progetto di ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. [↩]
- Christa Clarke, Peggy Guggenheim e l’arte africana negli anni Cinquanta, in Migrating objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe nella Collezione Peggy Guggenheim, a cura di Vivien Greene, Marsilio, Venezia 2020, p. 41. [↩]
- Gli yoruba costituiscono il 30 % della popolazione nigeriana, risiedono nella zona sud del paese, vicino al delta. Lo Stato Edo è uno Stato della federazione nigeriana, anch’esso nella zona sud del paese, la capitale è Benin City: è l’erede dell’antico e importante regno del Benin, distrutto durante il periodo coloniale inglese. [↩]
- Scarificazioni. Gli antropologi occidentali chiamano scarificazione le incisioni fatte sulla pelle con un oggetto acuminato o affilato, sollevando la cute e inserendo oggetti, colori o altre sostanze e lasciando poi che la ferita guarisca. [↩]
- L’Oba è il re tradizionale di Edostate, la federazione Edo della repubblica federale nigeriana, non è una carica formale, ha ancora delle funzioni ed è il discendente dei regni tradizionali precoloniali che stavano al sud, più precisamente il regno del Benin. [↩]
- Trascrizione della registrazione a cura di Maria Giovanna Lazzarin. [↩]
- Nel novembre 2021 il Metropolitan Museum di New York ha ufficialmente restituito alla Nigeria tre opere d’arte rubate dai britannici nel XIX secolo: si tratta di due rilievi del XVI secolo e di una testa del XIV secolo, in bronzo, provenienti dal Regno del Benin e sequestrati dai britannici durante l’occupazione del 1897, quindi trasferiti al British Museum. I tre oggetti rimasero in Inghilterra fino al 1950, quando il Regno Unito li restituì alla Nigeria: furono esposti per qualche tempo al Museo Nazionale di Lagos dopodiché tornarono sul mercato in circostanze poco chiare e furono acquistati da un collezionista privato di New York che nel 1991 li donò al Metropolitan, dove sono rimasti per anni. [↩]
- Si veda: Clarke, Peggy Guggenheim e l’arte africana negli anni Cinquanta cit., pp. 36-39. [↩]
- Ellen McBreen, Dall’artefice al museo, in Migrating Objects cit., p. 20. [↩]
- Christa Clarke, “Migrating Objects” – La mostra in pillole#5, video accessibile dalla pagina https://www.guggenheim-venice.it/it/mostre-eventi/mostre/migrating-objects/. Traduzione di Fernanda Doriguzzi. [↩]
- “L’opera combina vari temi. Quello centrale mostra una sacerdotessa e la particolare collana denota il suo ruolo. Nella mano destra tiene un bastone del comando, porta un berretto maschile e tiene in grembo un uomo. Secondo gli Yoruba l’armonia e l’equilibrio di forze maschili e femminili sono necessari per la leadership, anche spirituale. Forse è una sacerdotessa di Shango, il potente dio del tuono […] Però buona parte dell’opera non si riesce a spiegare, rimane un mistero”, Christa Clarke, “Migrating Objects” – La mostra in pillole#5 cit. Michela Perrotta, in una mail del 21 gennaio 2022, ci dà ulteriori informazioni: “Christa Clarke fa parte del comitato scientifico che ha curato la mostra ed è un’esperta di arte africana. Su questa maschera yoruba sono stati fatti diversi studi, alcuni dei quali hanno portato alla scoperta dell’atelier in cui la scultura fu realizzata lo scorso secolo. Per questo, in generale, quello che la studiosa dice credo corrisponda al vero. Ma bisogna tener conto del fatto che questa maschera fu realizzata appositamente per il mercato e in risposta alle richieste degli acquirenti. Nel libro Ethnopassion. La Collezione d’arte etnica di Peggy Guggenheim (catalogo della mostra tenuta a Milano presso la Fondazione Mazzotta, nel 2008-2009) si legge che “nel volto stesso della maschera sono presenti tutti gli stilemi che vanno a creare una generica rappresentazione umana con l’uso di forme e stilemi stereotipati: l’ampio naso, le scarificazioni, gli occhi dilatati”. Forse è per il suo essere una “generica rappresentazione umana” che la maschera può divenire oggetto di più interpretazioni”. [↩]
- Giulia Grechi, Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati, Mimesis, Milano-Udine 2021 [↩]
- La mostra Oggetti migranti. Dalla Traccia alla voce si è tenuta nel marzo-aprile 2017 presso il Mlac-Museo laboratorio di Arte contemporanea della Sapienza; il “museo Archeologico e delle migrazioni” è stato aperto a Lampedusa nel 2019. Su storiamestre.it ne ha parlato di recente Enrico Trevisiol. [↩]