di Giulio Vallese
Una nuova cronaca del nostro inviato nel mondo della scuola, ora insegnante vincitore di concorso straordinario, ma ancora non in ruolo. Questa volta un caso singolare di “classe capovolta”, per parafrasare una delle espressioni del gergo scolastico di oggi. A proposito, mentre i giornali riferiscono le ultime idee del Governo in carica in termini di innovazione della pedagogia e dei contenuti disciplinari, ecco alcuni spunti per pensare alla figura dell’insegnante “tutor”.
Ho una supplenza. Che rogna, è in una sede diversa da quella in cui sarei dovuto andare per il resto della giornata, il che mi obbliga a fare molta più strada nel traffico del mattino per poi dovermi spostare nell’altra sede dove non si trova mai parcheggio. Preso dal fastidio, mi accorgo solo dopo della singolare dicitura in corsivo vicino al nome del collega da sostituire: «classe in presenza, docente in DAD». Che significa? Se non ricordo male, le nuove regole prevedono che se un insegnante si trova in quarantena fiduciaria è tenuto a fare lezione collegandosi da casa. Una specie di DAD capovolta con gli studenti a scuola e il professore a casa? E io, come sostituto, che devo fare? In teoria il collega è presente, quindi chi sostituisco? Di solito le supplenze consistono nel fare sorveglianza alla classe in modo che non succeda niente di pericoloso e i ragazzi facciano qualcosa di sensato, studino, ripassino, facciano esercizi… al limite si riesce pure a fare due parole, ma in questo caso, che devo fare?
Al dunque chiedo ai bidelli. Spero che siano più preparati di me, forse per loro non è la prima volta. Solite discussioni, ma poi uno si decide e mi accompagna in classe. Sostanzialmente, bisogna accendere il pc, la tv-monitor e far partire col proprio account docente la videochiamata in modo che il prof da casa possa collegarsi. In altre parole, sostituisco il braccio del mio collega. Giro la webcam verso i ragazzi, lascio aperto il microfono. Lui nemmeno si cura di me, non capisco neanche se ha capito che sono lì in classe. Dopo aver girato la webcam sono nel cono d’ombra dell’inquadratura. Ho l’impressione di essere una spia o un secondino, lì in disparte a sorvegliare quel colloquio tra studenti e professore, una sorta di vigilante del patto formativo (sarà una nuova figura professionale?).
Il prof comincia con l’appello. Collegato da casa appare anche uno studente. Gli altri commentano ridacchiando: «Si è appena svegliato». Dice che ha fatto il tampone, che è negativo, ma pare che sia in attesa che il SISP (Servizio Igiene e Sanità Pubblica) comunichi alla scuola la negatività del tampone. Intanto, sta a casa…
Trovo qualcos’altro da fare. Mentre il collega compila il registro elettronico, io compilo quello cartaceo. Ogni giorno dobbiamo compilare scrupolosamente due registri, quello elettronico e quello cartaceo. Oggi, quell’inutile e perversa pratica burocratica trova il suo senso: due registri, due persone. Perfetto, la macchina gira. È l’unica scuola in anni d’insegnamento che ha ancora il cartaceo. All’inizio pensavo che fosse un errore o una di quelle cose che sono lì solo perché nessuno ha il coraggio di toglierle ma che nessuno utilizza, tipo le carte geografiche appese qua e là. In realtà, mi hanno spiegato che sono le altre scuole a essere in fallo perché il registro elettronico non è un documento legale!? In ogni caso, ci dev’essere qualche strana fascinazione per il doppio, perché non è la sola cosa doppia che abbiamo. Almeno da quando c’è la pandemia le circolari vengono mandate un po’ via mail un po’ via registro elettronico. A che serve tutto ciò? A far esaurire i docenti? A dimostrare che l’informatica invece di sgravare il lavoro lo rende più gravoso? Intanto, io rimpiango il raccoglitore delle circolari in aula insegnanti: bastava dare un sguardo appena arrivati a scuola e via. Ora invece, è tutta una notifica.
Il professore comincia con gli esercizi di matematica che proietta allo schermo. I ragazzi mi fanno cenno di ingrandire. Certo: ingrandisco a schermo intero, alzo il volume. Sono il braccio del mio collega.
Intanto recupero le mie cose e mi prendo avanti col lavoro, preparo le lezioni. Di tanto in tanto alzo lo sguardo: i più mi sembra che seguano, altri invece li vedo colti da un implacabile torpore che mi risulta contagioso.
A un tratto il collega fa riferimento a un esercizio svolto la settimana scorsa e dice: «sì, dai, coraggio, vi ricordate, quando eravamo in DAD». Ah! Come? Sono in stati tutti in DAD di recente. Nessuno mi ha informato, ovviamente per questioni di privacy, va così.
A meno cinque dal suono della campanella il collega si ferma e mi chiama per nome. Ma allora sapeva! Non perdo il mio contegno di estensione corporea. Mi chiede gentilmente di chiudere il collegamento e mi saluta. Lo saluto e chiudo la chiamata sfumando i saluti dei ragazzi. Ecco la conferma definitiva: sono il braccio teleguidato del mio collega.