di Victor Hugo, a cura della redazione di storiamestre.it
Oggi è un anniversario più o meno tondo: centosettant’anni fa, il 2 dicembre 1851, Luigi Napoleone Bonaparte, presidente della Repubblica francese nata nel corso del 1848, compiva un colpo di Stato. Per ricordarlo, riprendiamo alcune pagine con cui Victor Hugo, dall’esilio, denunciava quelle vicende all’opinione pubblica liberale europea. Sono brani dedicati all’invettiva, annunciata sin dal titolo del pamphlet – Napoléon le Petit –, con cui Hugo (che restava sempre affezionato al mito del primo Bonaparte) distingueva sarcasticamente Luigi Napoleone dallo zio. E in conclusione un elogio del 1848, con un’apertura di credito alla storia e all’avvenire.
Luigi Bonaparte è un uomo di media statura, freddo, pallido, lento, che ha l’aria di non essere completamente desto. […] Cavalca bene. La sua parola è strascicata con lieve accento tedesco.
[…] Ha i baffi folti che gli coprono il sorriso, come il duca d’Alba e l’occhio spento, come Carlo IX.
Giudicandolo all’infuori di ciò che egli chiama i suoi atti necessari o i suoi grandi atti, è un personaggio puerile, volgare, teatrale, vano.
[…] Gli piace la gloriola, il pennacchio, il passamano, il ricamo, le pagliette e i cordoncini, le grande parole, i grandi titoli, tutto ciò che rimbomba, tutto ciò che scintilla, tutte le cortesie del potere. Nella sua qualità di parente della battaglia di Austerlitz, si veste da generale.
Poco gli importa di essere sprezzato, si accontenta della parvenza del rispetto. Quest’uomo appannerebbe lo sfondo della storia. Ne insozza il primo piano. […] Vi è adesso in Europa, in fondo a tutte le intelligenze, anche all’estero, uno stupore profondo e come il sentimento di un affronto personale, poiché il continente europeo, lo voglia o meno, è solidale con la Francia e ciò che abbassa la Francia umilia l’Europa. […]
I suoi partigiani – ne ha – lo paragonano volentieri a suo zio, il primo Bonaparte. Essi dicono: – L’uno ha fatto il 18 brumaio, l’altro il 2 dicembre; sono due ambiziosi.
Il primo Bonaparte voleva riedificare l’impero d’occidente, per l’Europa vassalla, dominare il continente con la propria potenza e meravigliarlo con la propria grandezza, prendere una poltrona e dare ai re degli sgabelli; far dire allo storia: Nemrod, Ciro, Alessandro, Annibale, Cesare, Carlomagno, Napoleone; essere un padrone del mondo.
Lo è stato. È per questo che ha fatto il 18 brumaio [riferimento al colpo di Stato che Napoleone Bonaparte fece nel novembre 1799]. Quest’altro vuole aver dei cavalli e delle sgualdrine, essere chiamato monsignore e viver bene; è per questo che ha fatto il 2 dicembre. Sono due ambiziosi, il paragone è giusto.
Aggiungiamo che, come il primo, anche questo vuole essere imperatore. Ma ciò che calma un po’ i paragoni è che esiste della differenza tra il conquistare un impero e il rubacchiarlo.
Quel che è certo e che nulla può velare, neppur quell’abbagliante drappeggiamento di gloria e di sciagure su cui si legge: Arcole, Lodi, le Piramidi, Eylau, Friedland, Sant’Elena, quel che è certo si è che il 18 brumaio è un delitto di cui il 2 dicembre ha allargato la macchia sulla memoria di Napoleone. […]
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In certe epoche della storia, si hanno delle pleiadi di grandi uomini; in altre epoche, si hanno delle pleiadi di cialtroni.
Però non va confusa l’epoca, il minuto di Luigi Bonaparte col diciannovesimo secolo; il fungo venefico cresce i piedi della quercia, ma non è la quercia. Il signor Luigi Bonaparte è riuscito. Ormai ha dalla sua il danaro, l’aggio, la Banca, la Borsa, l’ufficio, la cassaforte e tutti quegli uomini che passano tanto facilmente da una riva all’altra, quando non vi sia da scavalcare che della vergogna. […] Alla zecca si conia una medaglietta, detta medaglia del 2 dicembre, in onore del modo con cui rispetta i suoi giuramenti. La fregata La Costituzione è stata sbattezzata e si chiama la fregata L’Eliseo.
Può, quando voglia, farsi consacrare dal signor Sibour [l’arcivescovo di Parigi, Marie Dominique Auguste Sibour (1792-1857)] e scambiare la branda contro il letto delle Tuileries.
In attesa, da sette mesi si mette in mostra; ha arringato, dato dei balli, ballato, regnato, fatto la parata e la ruota, si è mostrato in tutta la completa sua bruttura, in un palco all’Opera, si è fatto chiamare principe-presidente, ha distribuito delle bandiere all’esercito e delle croci d’onore ai commissari di polizia. Quando si è trattato di scegliersi un simbolo si è squagliato e ha scelto l’aquila; modestia da sparviero.
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Gesuitismo e caporalismo, ecco il regime tutto intero. Tutto l’espediente politico del signor Bonaparte si compone di due ipocrisie; ipocrisia soldatesca verso l’esercito, ipocrisia cattolica rivolta verso il clero. […]
Il dittatore puzza di incenso? Puzza di tabacco? Cercate. Egli puzza di tabacco e di incenso. Oh Francia, che governo.
Gli speroni passano sotto la sottana. Il colpo di Stato va a messa, picchia i borghesi, legge il breviario, abbraccia Catin [con questo termine, che significa “donna di facili costumi”, Hugo alludeva a Eugène Rouher (1814-1884), un fedelissimo di Luigi Napoleone, che avrebbe svolto un ruolo di primo piano nel ventennio del Secondo impero], dice il rosario, vuota i vasi e si comunica. Il colpo di stato afferma, il che è dubbio, che noi siamo tornati all’epoca delle jacqueries; quel che è certo è che esso ci riconduce al tempo delle crociate. Cesare si fa crociato per il papa: Diex el volt. L’Eliseo ha la fede del Templaro e ne ha anche la sete.
Ripetiamolo: godere, viver bene e mangiare il bilancio; non creder nulla, sfruttar tutto; compromettere in pari tempo due cose sante: l’onore militare e la fede religiosa; macchiar l’altare col sangue e la bandiera con l’aspersorio; rendere il soldato ridicolo e il prete un tantino feroce; mischiare a quella grande trufferia politica che egli chiama il suo potere, la chiesa e la nazione, le coscienze cattoliche e le coscienze patriottiche: ecco il procedimento di Bonaparte il Piccolo.
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Senza dubbio bisogna ridestare codesta nazione, bisogna prenderle il braccio, farla riscuotere, bisogna parlarle, bisogna percorrere i campi, entrare nei villaggi, entrare nelle caserme, parlare al contadino che tiene una incisione dell’imperatore nella sua capanna e che vota tutto ciò che si vuole a causa di ciò; bisogna toglier loro il raggiante fantasma che hanno davanti agli occhi; tutta codesta situazione non è altro che un immenso e fatale qui pro quo; bisogna rischiarare questo qui pro quo, andare al fondo, disingannare il popolo delle campagne, sopra tutto, smuoverlo, agitarlo, commuoverlo, smuover le case vuote, mostrargli le fosse aperte, fargli toccar col dito tutto l’orrore di codesto regime.
Questo popolo è buono e onesto. Esso comprenderà.
Sì, contadino, essi son due: il grande e il piccolo, l’illustre e l’infame, Napoleone e Naboleone! [Nell’originale Naboléon, contrazione per Nabot-Léon (nabot significa persona di piccola taglia): una traduzione possibile sarebbe Nano-leone.]
Riassumiamo questo governo:
Chi è all’Eliseo e alle Tuileries? Il delitto.
Chi siede al Lussemburgo? La bassezza.
Chi siede al Palazzo Borbone? L’imbecillità. Chi siede a Palazzo d’Orsay? La corruzione. Chi siede al Palazzo di giustizia? La prevaricazione.
E chi è nelle prigioni, nelle fortezze, nelle celle, nelle casematte, nei pontoni, a Lambessa, a Cayenna, in esilio? La legge, l’onore, l’intelligenza, la libertà, il diritto.
Proscritti, di che cosa vi lagnate? La miglior parte è la vostra!
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Da cinquant’anni, la repubblica e l’impero riempivano le immaginazioni, l’una col suo riflesso di terrori, l’altra col suo riflesso di gloria.
Della repubblica non si vedeva che il 1793, vale a dire le formidabili necessità rivoluzionarie, la fornace; dell’impero di vedeva solamente Austerlitz.
Da ciò, un pregiudizio contro la repubblica e un prestigio per l’impero.
Ora, qual è l’avvenire per la Francia? È l’impero? No. È la repubblica.
Bisognava rovesciare una tale situazione, sopprimere il prestigio per ciò che non può rivivere e sopprimere il pregiudizio contro ciò che deve essere: ciò ha fatto la Provvidenza. Essa ha distrutto quei due miraggi. Venne febbraio e ha tolto alla repubblica il terrore; venne Luigi Bonaparte e tolse il prestigio all’impero.
Ormai, il 1848, la fratellanza, si sovrappone al 1793, il terrore; Napoleone il Piccolo si sovrappone a Napoleone il Grande. Le due grandi cose di cui l’una spaventava e l’altra abbagliava, arretrano d’un piano. Non si scorge più il 1793 se non attraverso la sua giustificazione e Napoleone se non attraverso la sua caricatura; la folle paura della ghigliottina si dissipa, la vana popolarità imperiale svanisce.
Grazie al 1848, la repubblica non spaventa più; grazie a Luigi Bonaparte, l’impero non affascina più. L’avvenire è diventato possibile.
Nota. Brani tratti da Victor Hugo, Napoleone il piccolo, Bietti, Milano 1934, pp. 22-24, 27-28, 60-61, 68-69, 197-198. L’originale uscì nel corso del 1852, prima che Luigi Napoleone perfezionasse il colpo di Stato proclamandosi “imperatore dei francesi” il 2 dicembre 1852 (sfruttando ancora una volta la data feticcio del bonapartismo, essendo quella dell’incoronazione imperiale di Napoleone I, nel 1804, e quella della battaglia di Austerliz, nel 1805). In rete si trova facilmente il testo francese, si può ricorrere tra le altre cose al sito gallica.bnf.fr.
Hugo (1802-1885) era deputato all’Assemblea nazionale quando Luigi Bonaparte fece il colpo di Stato. Con altri colleghi, tentò di organizzare una resistenza, che fallì: è quella che le lettrici e i lettori del nostro sito conoscono dal punto di vista di Jacques Vingtras/Jules Vallès. Per sfuggire alla repressione Hugo partì in esilio ed è nella condizione di esule che scrisse il suo libello per denunciare malefatte, tradimenti, bassezze del nipote di Napoleone Bonaparte. Per Hugo gli eventi del 1851 furono uno spartiacque: le sue posizioni politiche, fin lì liberali moderate, si fecero sempre più radicali.
L’immagine, tratta dal sito Look and Learn, è una caricatura realizzata da Alfred Lepetit (1841-1909), uscita sulla prima pagina del periodico Le Pétard il 24 marzo 1878; commentava la recente uscita di Histoire d’un crime, l’ultimo libro di Hugo, cominciato sin dal 1851 e completato solo nel 1877-78 (per il testo e la sua storia si può consultare questa edizione elettronica).