di Lorenzo Feltrin
Dopo averci raccontato perché Porto Marghera fosse l’incubo di Eugenio Cefis, Lorenzo Feltrin riassume la vicenda transnazionale del fosfato: scavato nelle miniere in Marocco e in Tunisia, lavorato a Porto Marghera dagli anni Venti per produrre fertilizzanti a uso di un’agricoltura industriale (malgrado fosse chiamata la “rivoluzione verde”), finito nei fanghi gettati in Adriatico o per imbonire l’area del Villaggio San Marco e l’attuale Parco San Giuliano sulla riva della laguna. A partire dagli anni Ottanta, mentre attorno a Marghera si sviluppano movimenti ambientalisti e si chiude la storia della produzione di fertilizzanti, dai bacini minerari in Marocco comincia una emigrazione verso l’Italia causata dalla disoccupazione. Spunti per scrivere una storia di Porto Maghera da un punto di vista diverso e per trovare connessioni inaspettate, con un appello a scambiare informazioni su questi temi.
1. La letteratura su Porto Marghera si concentra sulle vicende interne della zona industriale, contestualizzandole tuttalpiù nell’ambito dello sviluppo economico regionale e nazionale. Molto meno si è discusso sulla dimensione globale di Porto Marghera. Una significativa eccezione è però Porto Marghera 1902-1926: Alle origini del “problema di Venezia” (Marsilio, Venezia 1979) di Cesco Chinello. In questo libro, lo storico comunista analizza il ruolo del “teorico” di Porto Marghera Piero Foscari e del suo “realizzatore” Giuseppe Volpi, uomini d’affari entrambi impegnati in prima persona nelle avventure coloniali del belpaese, nonché esponenti di punta del fascismo. Chinello mostra così come la stessa fondazione di Porto Marghera sia una tappa chiave dell’ascesa dell’imperialismo italiano, “base per un nuovo livello storico del potere di classe del grande capitale, quello che darà vita al fascismo” (ivi, p. 181).
Su questi presupposti, molto ci sarebbe da riflettere sulle vie che – attraverso la circolazione delle merci, e poi sempre più di capitali e forza lavoro – hanno connesso il complesso portuale e industriale veneto con i quattro angoli del mondo. Scrivere una “storia decoloniale” di Porto Marghera – che racconti il suo ruolo nella gerarchia della divisione internazionale del lavoro e della nocività, ma anche le solidarietà internazionaliste che questa gerarchia hanno sfidato – sarebbe un’impresa enorme, ma di grande interesse. Questo breve articolo è infinitamente meno ambizioso, e propone alcuni spunti provvisori e circoscritti a una sostanza: il fosfato.
2. Il fosfato è un composto di fosforo e ossigeno estratto nelle miniere di mezzo mondo, oggi i grandi produttori sono Cina, Marocco e Stati Uniti. I suoi usi industriali sono molteplici, ma è principalmente utilizzato per produrre fertilizzanti chimici. Il fosfato, infatti, è uno dei Big Three (azoto, fosfato e potassio) della “Rivoluzione verde” che ha generalizzato l’odierna agricoltura industriale. Tuttavia, questa risorsa non rinnovabile presenta diversi problemi ambientali.
La percolazione di fertilizzanti nelle acque è un’importante causa di eutrofizzazione, ovvero la proliferazione di alghe che priva l’acqua d’ossigeno. Si espandono così le “zone morte”, aree dove la vita marina non può svilupparsi a causa della povertà d’ossigeno. Questo fenomeno ha coinvolto anche il Mare Adriatico (si veda per esempio qui).
Un altro problema riguarda gli scarti della produzione del fosfato, i fosfogessi. Essendo leggermente radioattivi, i fosfogessi dovrebbero essere stoccati in modo da evitare che la popolazione vi sia esposta.
I fosfati furono presenti a Porto Marghera fin dalla sua creazione. Di fatto, Marghera fu creata anche per rimuovere dalla Venezia insulare lo scarico di sostanze inquinanti come petrolio, carbone e fosfato.
Una delle prime fabbriche di Marghera, costruita tra il 1922 e il 1924, è stata proprio la Montecatini Fertilizzanti. A valle, la Montecatini integrò Porto Marghera con la “fabbrica verde” dell’allora incipiente agricoltura industriale veneta ed emiliana, e fu un importante propulsore della sua espansione. Come osservava Guido Bianchini in un’analisi del ciclo Montedison scritta nel 1969: “Lo sviluppo della chimica […] comanda lo sviluppo dell’agricoltura” (in Guido Bianchini. Ritratto di un maestro dell’operaismo, a cura di Giovanni Giovannelli e Gianni Sbrogiò, DeriveApprodi, Roma 2021, p. 69).
A monte, però, la Fertilizzanti integrò Porto Marghera con quello che lo storico Simon Jackson chiama l’arcipelago del fosfato (The phosphate archipelago: imperial mining and global agriculture in French North Africa, “Jahrbuch für Wirtschaftsgeschichte”, vol. 57, no. 1, 2016, pp. 187-214) una rete di spazi di estrazione e produzione sulle due rive del Mediterraneo sotto l’egemonia dell’imperialismo francese (le spedizioni fasciste nella Libia occupata, invece, non furono in grado di trovare le riserve di fosfato del paese).
Il primo grande centro di estrazione del fosfato fu il bacino minerario di Gafsa in Tunisia, già attivo dalla fine dell’Ottocento. I minatori erano sia arabi (tunisini, ma anche marocchini e algerini) che italiani. Negli anni Venti del Novecento esisteva addirittura un accordo tra Francia e Italia per cui l’Italia riceveva fosfato in cambio di mano d’opera (ivi, p. 195). Il bacino minerario fu poi una base della lotta armata tunisina per la liberazione nazionale e un pilastro del movimento operaio dopo l’indipendenza (si vedano per es. Rebecca LeAnn Gruskin, Capitalism, Resistance, and Environment in Tunisia’s Gafsa Phosphate Mining Region, 1880s-1960s, Stanford University, Stanford 2021; S. Hamzaoui, Conditions et genèse de la conscience ouvrière en milieu rural. Cas des mineurs du Sud de la Tunisie, Thèse 3ème cycle, Sociologie rég., E.P.H.E., VI° section, Paris 1970). Le ristrutturazioni tecnologiche e organizzative del periodo neoliberista portarono alla Rivolta di Gafsa del 2008, il preludio della Rivoluzione tunisina del 2011 (si veda: Larbi Chouikha, Eric Gobe, La Tunisie entre la “révolte du bassin minier de Gafsa” et l’échéance électorale de 2009, consultabile online). La rivolta è raccontata anche nel documentario Che sia maledetto il fosfato di Sami Tlili. Dopo la Rivoluzione, sono continuati fino agli anni recenti i blocchi stradali dei giovani disoccupati che chiedono lavoro e sviluppo (si veda Stefano Pontiggia, Il bacino maledetto. Disuguaglianza, marginalità e potere nella Tunisia postrivoluzionaria, ombre corte, Verona 2017). Nel frattempo, nella città portuale di Gabes – dove il polo chimico che lavora il fosfato scarica i fosfogessi direttamente in mare danneggiando l’agricoltura, la pesca e la salute degli abitanti – è esplosa una battaglia per la salute e l’ambiente, raccontata anche da Habib Ayeb nel documentario Gabes Labes (si veda inoltre Renata Pepicelli, “People Want a Clean Environment”. Historical Roots of the Environmental Crisis and the Emergence of Eco-Resistances in Tunisia, “Studi Magrebini”, online publication date 14 June 2021).
Ma il più grande centro produttivo dell’arcipelago del fosfato è Khouribga in Marocco che – come confermano documenti custoditi dal Fondo Fertimont ora conservato dalla Fondazione Pellicani – nel secondo dopoguerra era il principale fornitore di fosfati di Porto Marghera. Come per la Tunisia, l’estrazione di fosfato in Marocco cominciò sotto il diretto controllo del Protettorato francese, in questo caso a partire dal 1921. Anche le miniere di Khouribga furono teatro di importanti scioperi. In essi ebbe un ruolo il leader marxista-leninista di origini ebraiche Abraham Serfaty, che negli anni Sessanta lavorava come ingegnere nella società mineraria. E anche in Marocco, la sconfitta del movimento operaio portò alla ristrutturazione neoliberista e a una sottoccupazione endemica. A Khouribga però le proteste per il lavoro dei giovani disoccupati sono state messe relativamente sotto controllo dal regime. Una soluzione più comune è quella della migrazione. Infatti, Khouribga è una delle principali zone di provenienza dei migranti marocchini nel Nord Est d’Italia.
Le lotte sociali di Khouribga sono state molto meno studiate rispetto a quelle di Gafsa e Gabes, almeno che io sappia. La mia ricerca di dottorato mi ha portato a Gafsa, Gabes e Khouribga, ma essendo all’epoca la mia scala d’analisi quella nazionale non ho avuto modo di approfondire. Spero che qualcuno abbia modo di studiare l’estrattivismo del fosfato a Khouribga nel futuro, e prego chi abbia informazioni in merito di contattarmi.
Infine, il fosfato di Marghera non proveniva solo dall’arcipelago del fosfato del Mediterraneo. Su questo, una fonte preziosa è Porto di Venezia. Rivista mensile del provveditorato, che pubblicava un dettagliato annuario statistico sui beni che transitavano nel porto, divisi per settore merceologico e provenienza. Se prendiamo per esempio i primi anni Settanta , colpisce la totale insignificanza delle importazioni dalla Cina. Anzi, la Cina rispetto a Marghera era un importatore netto soprattutto – guarda caso – di fertilizzanti. In generale, i traffici rispecchiavano una divisione internazionale del lavoro “classica” (o classicamente coloniale), in cui il Sud Globale forniva soprattutto materie prime che venivano poi esportate da Marghera una volta trasformate in beni industriali. Ma le cose non sono mai lineari, infatti un importante fornitore di fosfato a Marghera era proprio la prima potenza mondiale, gli Stati Uniti.
In Florida, la regione della Tampa Bay contiene una concentrazione di riserve di fosfati tra le più grandi del mondo (si veda per esempio Steve Newborn, History Of Phosphate Mining In Florida Fraught With Peril, “wusf public media”, online 16 June 2021). La storia della Florida, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni recenti, è costellata di grandi perdite di fosfati riversatisi nelle sue acque. Residenti e lavoratori hanno denunciato le aziende per i danni alla salute e all’ambiente causati dall’estrazione e lavorazione del fosfato senza sufficienti misure di sicurezza. La regione è cosparsa di “gypstacks”, montagne di fosfogessi alte fino a 150 metri, la cui radioattività perdurerà per oltre mille anni. Insomma, il rischio di contaminazione delle acque esisterà anche secoli dopo l’esaurimento delle riserve di fosfato.
L’inizio della fine del fosfato a Marghera risale al 1984, quando un gruppo di ambientalisti avviò una campagna contro lo scarico dei fosfogessi nell’Adriatico da parte della Montedison (che aveva rilevato lo stabilimento Fertilizzanti della Montecatini) (si veda Michele Boato, Eppure soffia. Spifferi e tempeste ecologiche in Veneto, Ecoistituto del Veneto, Mestre 2013, Supplemento n. 1 di “Tera e Aqua”, 74). Questa lotta contro l’eutrofizzazione continuò per anni, con episodi spettacolari come gli inseguimenti della nave che effettuava gli scarichi – la Achille Elle – da parte degli ambientalisti a bordo di piccole imbarcazioni. Nel 1988 le deroghe che autorizzavano gli scarichi in mare non furono più rinnovate. Complice la concorrenza internazionale, gli impianti di fertilizzanti di Porto Marghera vennero chiusi gradualmente nel corso degli anni ’90. I fosfogessi che non sono finiti in mare sono tuttora interrati nell’area del Parco San Giuliano a Mestre, ai Pili a Marghera e in altre zone circostanti.
3. Ecco dunque qualche sprazzo della storia di come il fosfato abbia collegato Porto Marghera con mezzo mondo. Un’operazione simile si potrebbe fare con il petrolio, il gas, il carbone, ecc. Ma già qui ci sono molti spunti di riflessione interessanti.
Fertilizzanti e pesticidi chimici sono stati un tassello centrale della “Rivoluzione verde”, che negli anni Settanta è stata interpretata come funzionale alla rottura della resistenza antimperialista dei contadini nel Terzo Mondo (si veda la dissertazione di Harry Cleaver, The Origins of the Green Revolution, Stanford 1974, ora disponibile online con una nuova prefazione dell’Autore, oggi professore emerito alla University of Texas at Austin).
Nel frattempo, la divisione internazionale del lavoro si è trasformata profondamente ma non è cambiato il suo carattere squilibrato e gerarchico, cosa che ha fatto sì che paesi come il Marocco e la Tunisia – oltre ai fosfati – esportino oggi al Nord Globale donne e uomini colpiti dalla sottoccupazione e dalla crisi ecologica.
Gli stessi fertilizzanti e pesticidi chimici sono ormai considerati come la base tecnica di un’agricoltura insostenibile, da cui il rinnovato interesse per le sperimentazioni nel campo dell’agroecologia. Sperimentazioni arrivate anche a Marghera, per esempio quando – a metà del decennio scorso – un gruppo di cittadini riqualificò il Parco Emmer inserendovi tra le altre cose un orto sinergico. Orti urbani condivisi esistono oggi anche in altre zone del quartiere, come la Cita e via Bottenigo, sulla scia dell’espansione del fenomeno in moltissime città del Nord e del Sud Globale. Una nuova connessione tra Marghera e il resto del mondo.
Nota. Questo contributo è stato realizzato con l’appoggio della borsa di ricerca ECF-2020-004 della Leverhulme Trust. (l.f.)