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Fare o non fare i conti col passato. Il mausoleo comunista a Sofia e la sua distruzione

14/07/2021

Intervista con Tania Vladova, a cura di Andrea Lanza

Proseguiamo le riflessioni sui conflitti che scoppiano attorno ai monumenti, cominciate su queste pagine anni fa, a proposito della preservazione delle scritte murali fasciste, e riprese di recente con corrispondenze dall’America del Nord e dall’America del Sud. Lo facciamo con un’intervista a Tania Vladova. Nata e cresciuta a Sofia, ora studiosa in Francia, qualche anno fa Tania ha dedicato un articolo al più importante edificio monumentale dell’era comunista nel centro della capitale bulgara – il Mausoleo di Georgi Dimitrov, costruito nel 1949 – e alla sua distruzione avvenuta nel 1999. Con lei, ripercorriamo alcune tappe fondamentali dei dibattiti e dei conflitti che hanno preceduto l’abbattimento del Mausoleo per mettere in luce come la distruzione di un edificio monumentale possa nascondere la difficoltà di fare i conti col passato a causa di un’assenza di prospettive nel presente.

Che cos’era il Mausoleo di Dimitrov?

Iniziamo dalla sua posizione: si trovava nel centro di Sofia, in una zona in cui si concentrano, fra l’altro, resti romani, un’ex moschea quattrocentesca divenuta museo archeologico, un paio di importanti edifici ottocenteschi progettati da architetti austro-ungarici (il palazzo reale e il teatro nazionale) e un paio di edifici di architettura socialista (l’ex sede centrale del partito comunista e la presidenza del consiglio). In una piazza circondata da edifici storici di epoche diverse, il mausoleo si distingueva per il suo colore bianco.

Costruito alla fine degli anni Quaranta per ospitare il corpo imbalsamato di Georgi Dimitrov, uomo chiave del Comintern negli anni Trenta e «padre» della Repubblica popolare di Bulgaria nata nel 1946, l’edificio si può dire un tipico esempio di architettura totalitaria. La sua forma risente di almeno tre grandi influenze: la tradizione antica dei mausolei rivisitata secondo i canoni neoclassici; il modernismo tedesco, che s’imporrà con il nazismo, perché l’architetto Georgi Ovcharov, che prese parte al progetto, si era formato al Politecnico di Monaco e, negli anni Venti, si era specializzato nello studio di Paul Bonatz; il modello del mausoleo di Lenin a Mosca. La costruzione, a prima vista anonima, in stile pseudo-neoclassico, era tutta giocata sulle simmetrie. Aveva una forma cubica con una superficie totale di 560 metri quadri e pareti esterne alte 12 metri e spesse 1,20. Il vuoto fra le colonne poteva far pensare a delle finestre, ma in realtà, dietro, c’era un muro continuo. Fatto curioso: il progetto iniziale, firmato, oltre che da Ovcharov, da Racho Ribarov e Ivan Danchov, prevedeva delle colonne doriche e aveva, quindi, un aspetto molto più classico. Questa versione fu rifiutata dal partito e, sia pure a malincuore, i tre architetti rividero il progetto semplificandolo. Più tardi, fu aggiunto una sorta di bunker sotterraneo di due piani. L’edificio, compatto e senza finestre, era quindi una totalità chiusa.

Dal punto di vista architettonico, come era giudicato?

Prima e dopo il 1989, una larga maggioranza di architetti e intellettuali bulgari giudicava l’edificio in maniera sostanzialmente positiva. A livello di opinione pubblica, invece, dopo il 1989, si sono contrapposte due posizioni: una entusiasta – alcuni affermarono che il Mausoleo di Dimitrov fosse il miglior edificio in assoluto costruito da un architetto bulgaro; l’altra profondamente critica, che considerava il mausoleo di Sofia come una brutta copia del mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa, o in altri termini un anacronistico esempio di architettura degli anni Venti riproposta alla fine degli anni Quaranta, senza alcuna originalità.

Era comunque un monumento particolarmente importante per Sofia e la Bulgaria, sbaglio?

Era una delle principali attrazioni di Sofia: nel corso di 40 anni, fra l’inaugurazione e la chiusura, al momento della caduta del regime, il mausoleo aveva ricevuto quasi 18 milioni di visite. Ovviamente parte di queste visite erano obbligatorie, ma si tratta pur sempre di una cifra impressionante, soprattutto se si pensa che la Bulgaria avevo solo 8 milioni di abitanti.

Già prima del 1989, il mausoleo aveva delle caratteristiche contraddittorie: un po’ edificio religioso, un po’ carnevalata. Era un luogo sacro per il culto della personalità, ma anche il luogo di feste organizzate quali promesse di rinnovamento e di una vita migliore a venire. Dal terrazzo, i membri del governo comunista guardavano le parate e le folle osannanti, camminando letteralmente sopra la testa del loro primo leader. Ogni tanto sparivano alla vista della gente e, solo di recente, si è scoperto che lasciavano la tribuna per andare nei sotterranei dove, oltre alle sale tecniche e di sorveglianza, c’era una sala del governo, che poi era una sala per incontri diplomatici o segreti, ma anche di svago, dove si mangiava e beveva.

Poi, nel 1989, cadde il comunismo…

Dopo il 1989, il Mausoleo si trovò in una posizione controversa, che ne bloccava ogni possibile evoluzione: da una parte era un monumento, “Denkmal”, dall’altra, un possibile memoriale, “Mahnmal”. In quanto monumento celebrava l’esempio glorioso del grande leader comunista; in quanto memoriale avrebbe potuto ricordare qualcosa che non bisognava dimenticare affinché non si ripetesse. Nella confusione degli anni che seguirono la caduta del regime comunista, il continuo conflitto fra questi due significati bloccò il Mausoleo nel mezzo di una possibile transizione da tomba di un comunista a tomba del comunismo.

Alla fine il Mausoleo è stato distrutto… Pensi che si possa parlare di iconoclastia? 

Si tratta di iconoclastia perché gli edifici e i simboli sono delle immagini, e delle immagini particolarmente resistenti. In questo caso, la distruzione è avvenuta alla fine di un lungo percorso: il Mausoleo è stato distrutto dieci anni dopo il 1989. Una volta che si è sgretolato il blocco ideologico su cui poggiava, dopo la rimozione della mummia che era destinato a custodire, il Mausoleo non riuscì più a incarnare un messaggio che si potesse facilmente formulare e comprendere. Si è fatto vulnerabile, come se la sua unità fisica e simbolica fosse andata in pezzi.

Nei dieci anni tra il 1989 e il 1999 continuò a essere usato, ad attrarre iniziative?

Dal 1989 al 1999 il monumento funebre di Dimitrov è stato eletto a simbolo principale dei tempi bui, divenendo il punto di riferimento per scioperi e manifestazioni anticomuniste. In quegli anni l’edificio fu fisicamente attaccato e deturpato. Ma la degradazione intenzionale non si accompagnava a nessun tentativo di contrapporre una nuova visione del futuro. Una scritta che mi sembra sintetizzare bene quella fase è: “Il cesso più lussuoso dell’Europa dell’Est”. Vandalizzare l’edificio significava letteralmente desacralizzare un edificio che portava la memoria del passato. È stato attaccato come un monumento, come un simbolo commemorativo, come un “Denkmal” portatore di un’eredità rifiutata. Come ho già detto, questo rifiuto impedì di considerare il Mausoleo anche come “Mahnmal”, come un possibile memoriale di un passato totalitario che aveva fatto parte della storia bulgara.

Le azioni iconoclaste sono cominciate praticamente subito dopo la caduta del regime comunista e hanno preso presto ulteriore forza anche perché le prime elezioni democratiche in Bulgaria, nel giugno 1990, sono state vinte dal partito socialista, erede del vecchio partito comunista. Il Mausoleo è diventato, allora, un ingombrante simbolo della continuità. Del resto, sebbene le visite non fossero più permesse, la mummia di Dimitrov era ancora al suo interno. Durante l’estate 1990, per due mesi, il mausoleo è stato circondato da centinaia di tende, che formavano “la Città della verità”, popolata da 3000 persone che protestavano contro i presunti brogli nelle elezioni. 

La famiglia Dimitrov chiese allora di cremare il corpo, considerando ingiurioso conservare la salma in un edificio imbrattato di graffiti. La salma fu rimossa in sordina, nel cuore della notte del 17 luglio 1990. Il giorno dopo la rimozione della mummia, gli abitanti della città effimera organizzarono una grande “festa della spazzatura” durante la quale chiunque fu invitato a portare libri, medaglie, uniformi e qualsiasi altro oggetto che ricordasse il passato comunista, e a gettarli contro le pareti del Mausoleo. 

Qualche anno più tardi, invece, ricordo una dissacrazione di tutt’altro segno: il mausoleo fu interamente coperto da un grande cartellone pubblicitario coperto di macchie nere che pubblicizzava il film Disney La carica dei 101. Ancora una volta l’edificio diventava un’immagine dell’oblio.

“Immagine dell’oblio” o “immagine della rimozione”?

“Immagine dell’oblio”. L’espressione risale a un dibattito pubblico che si tenne nel marzo 1992, intitolato Il destino dei monumenti d’epoca socialista cui parteciparono molti intellettuali su invito della scrittrice e allora vicepresidente della Repubblica Blaga Dimitrova e del presidente della Repubblica Jelio Jelev. Fu una delle prime discussioni pubbliche in cui si affermò l’idea di conservare l’edificio in quanto monumento storico. “Immagine dell’oblio” piacque e fu rilanciata dai media, prendendo piede. In quella stessa occasione fu anche sollevata la questione della responsabilità nei confronti del patrimonio storico e la necessità di abbandonare il desiderio iconoclasta di cancellare tutte le tracce visive del passato recente. In altri termini, prese forma l’opposizione fra un paradigma della conservazione e un paradigma della distruzione. Al fine di cercare di storicizzare il dibattito, il regista Rangel Valchanov ricorse all’argomento secondo cui un’ipotetica demolizione delle piramidi d’Egitto, della torre Eiffel a Parigi o di San Pietro a Roma, giustificata dalla condanna dei poteri autoritari che fecero costruire quei monumenti, avrebbe unicamente impoverito il mondo. Questa visione apocalittica, in cui un po’ pretestuosamente il Mausoleo era equiparato ai più famosi monumenti mondiali, uno dei quali peraltro costruito in una repubblica formalmente democratica, aveva ovviamente lo scopo di contrastare le persistenti affermazioni di intellettuali e politici di destra secondo cui la “tomba totalitaria” era da distruggere in quanto priva di utilità. Questo confronto, spropositato e privo di prospettiva storica, esemplifica perfettamente la totale mancanza di un significato condiviso attribuito al Mausoleo nel post-1989.

Perciò, prima che fosse decisa la distruzione del mausoleo, ci furono discussioni sulla sua possibile conservazione.

Alla fine del 1990, sotto il governo socialista guidato da Andrej Lukanov, fu organizzato un concorso nazionale di architettura in vista di una possibile trasformazione del Mausoleo, cui parteciparono ventotto proposte. Il premio della commissione andò alla proposta dello scultore Vassil Simitchiev, che fra l’altro era già l’autore degli ornamenti del sarcofago di bronzo di Dimitrov. L’edificio avrebbe dovuto essere come troncato nel lato anteriore e riflettersi in uno specchio d’acqua, con ulteriori installazioni di vetro e luci. L’obiettivo era quello di trasformare l’edificio stesso in un’opera d’arte, mantenendo il suo carattere monumentale, ma facendogli prendere nuovi significati simbolici. Questa “dissezione del Mausoleo” sarebbe stata portatrice di una trasformazione estetica: l’edificio sarebbe diventato un simbolo della vittoria sulla dittatura. Il progetto non fu realizzato per ragioni economiche.

La proposta di demolizione del Mausoleo, invece, la formulò ufficialmente per la prima volta il sindaco di Sofia, Alexander Yanchulev, proprio nel marzo del 1992, a ridosso del convegno che ho evocato poco fa come momento di riflessione pubblica sulla conservazione dell’edificio.

Qualche anno dopo, nel 1997, l’idea della distruzione del mausoleo fu ripresa durante la campagna elettorale, dal successivo sindaco Stefan Sofianski. Imponendosi nell’agenda elettorale l’idea fu amplificata dai media. Di conseguenza il primo ministro Ivan Kostov, capo dell’Unione delle Forze Democratiche, di orientamento conservatore, la fece propria. Secondo Kostov, non essendo nel piano regolatore di Sofia, l’edificio non aveva alcuna giustificazione legale per esistere e doveva essere abbattuto.

Allo stesso tempo, tutte le proposte di farne un memoriale, un museo del comunismo, un museo storico, un luogo di esposizione d’arte contemporanea, o perfino la più grande discoteca dei Balcani, sono state liquidate col pretesto che una tomba non poteva essere trasformata in nient’altro. La mancanza di un sistema giuridico che regolasse la gestione del patrimonio, insieme alla proiezione simbolica della memoria traumatica del passato sull’edificio, resero impossibile ogni progetto per ripensare quello spazio.

Si può dire allora che l’incapacità di fare i conti con il passato elaborando nuovi significati da attribuire al Mausoleo è stata all’origine della decisione di raderlo al suolo. Il rifiuto di una trasformazione duratura, però, non ha impedito che l’edificio fosse utilizzato temporaneamente o estemporaneamente con fini molto diversi, in un certo senso preparandone la distruzione.

L’allontanamento della salma dal Mausoleo fu un primo passo per disinnescare il potere simbolico dell’edificio. Il potere simbolico fu poi annichilito, e non solo attraverso le scritte e il murales. Il cubo fu trasformato in un palcoscenico per diversi eventi artistici, che sistematicamente incrinavano l’idea stessa di opera d’arte totale. 

Nel maggio 1992, al Mausoleo si svolse un concerto rock organizzato da cantanti che appoggiavano l’Unione delle Forze democratiche, durante il quale fu messa in scena la demolizione di un modellino del Mausoleo. 

Più tardi, nel 1997, l’edificio fu dipinto di bianco, coprendo così nuovamente i graffiti, per essere avvolto da un telo da un gruppo artistico d’avanguardia, forse ispirato dall’impacchettamento artistico praticato dall’artista di origine bulgara Christo, che, insieme a Jeanne-Claude, aveva avvolto il Reichstag berlinese due anni prima. A Sofia, questo “impacchettamento del passato” mostrava l’edificio come una scatola vuota, un volume senza contenuto, una presenza senza senso.

Nell’estate del 1997 fu scelto come location per la messa in scena dell’Aida di Verdi. Con la sua forma geometricamente squadrata, il mausoleo era chiamato a rappresentare la base delle piramidi egizie. 

Nell’estate 1999, nel mese che precedette la distruzione del Mausoleo, fu invece rappresentata in quella piazza l’opera di Borodin Il Principe Igor, presentata come “tragedia popolare”, mettendo in evidenza le sofferenze del popolo in tempo di guerra.

È stata però anche una sorta di requiem per il Mausoleo…

Qualcosa di più, fu il primo passo della demolizione del Mausoleo: le stesse impalcature usate per la scenografia servirono a inserire gli esplosivi per la demolizione, che comportò anche la distruzione dei mosaici di Dechko Uzunov, che erano stati coperti con una pittura nera mista a colla proprio per allestire la scenografia dell’opera.

Come avvenne la demolizione?

L’operazione fu tenuta segreta, almeno formalmente, fino al suo inizio: sabato 21 agosto 1999 alle 14 e 37. Anche questa volta, il Mausoleo si ritrovava al centro di una performance. Quello stesso giorno, proprio davanti all’edificio era passata una coloratissima processione di Hare Krishna, cantando canzoni per invocare la purificazione delle anime dopo la morte. Non lontano, stava per essere issato davanti al Parlamento il nuovo stemma della città di Sofia. Solo pochi ma entusiasti osservatori aspettavano, senza avere alcuna idea dell’ora esatta della prima esplosione, che il vice primo ministro Evgenij Bakardjiev desse inizio alla demolizione del Mausoleo. A operazioni già iniziate, i media parlarono di “liquidazione definitiva del comunismo” evitando però ogni riferimento alla demolizione e alle esplosioni. Hanno usato espressioni tecniche quali “rimozione del nucleo del Mausoleo” o “ulteriore smantellamento dell’edificio” per stemperare l’impatto simbolico che temevano essere ancora notevole.

In realtà, la demolizione non andò affatto come previsto: la prima esplosione mandò in frantumi le finestre degli edifici governativi circostanti, una densa nube di polvere coprì la piazza, ma il Mausoleo ne uscì indenne. 

E a quel punto?

A quel punto l’operazione, accuratamente preparata in segreto, si fece farsa. Iniziò una vera e propria battaglia contro l’edificio che cominciò a cedere non prima di quattro esplosioni. Un’altra serie di mine e l’intervento di martelli pneumatici e bulldozer furono necessari per radere al suolo il Mausoleo. 

Paradossalmente la distruzione, durata sette giorni, fu più lunga della costruzione dell’edificio, che era stata completata in soli sei giorni. Le macerie sono state gettate nei sobborghi di Sofia. L’unica preoccupazione di conservazione del patrimonio artistico fu dimostrata nei confronti dei mosaici, già danneggiati fra l’altro, come dicevo, dalla messa in scena del Principe Igor. Si dice che parti sostanziali dei mosaici siano state portate al museo della storia di Sofia, anche se il museo non solo non le espone, ma non fornisce neppure informazioni sulla loro reale esistenza e consistenza.

Dove c’era il mausoleo ora ci sono un giardino e un parcheggio: l’edificio non esiste più. O, meglio, quasi fosse una metafora di ciò che è stato rimosso e di ciò che potrebbe riemergere un giorno: non rimane più nulla di visibile del più potente simbolo del passato comunista bulgaro, ma restano, invisibili, i due piani del bunker sotterraneo. Quello che è stato cancellato dalla demolizione del Mausoleo è un pezzo di storia dell’architettura e una testimonianza visiva del passato totalitario del paese. Ma anche un luogo chiave in cui si sono concentrate energie a volte di culto, a volte di contestazione, un luogo che è stato emblematico di momenti fondamentali della storia di Sofia e della Bulgaria.

Nota. Tania Vladova insegna estetica presso l’École Supérieure d’Art et Design Le Havre-Rouen. È apparso circa dieci anni fa il suo articolo sul Mausoleo Dimitrov: Heritage and the Image of Forgetting: The Mausoleum of Georgi Dimitrov in Sofia, in Heritage, Ideology, and Identity in Central and Eastern Europe: Contested Pasts, Contested Presents, ed. by Matthew Rampley, Boydell Press, Rochester 2012, pp. 131-154.

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