di Claudio Pasqual
Il nostro amico e socio Claudio Pasqual ha osservato tre monumenti “ai caduti nelle guerre del Novecento” che presentano una particolarità: hanno incastonate le foto dei volti dei morti. Spunti per una riflessione su memoria individuale e collettiva, privata e pubblica, locale e nazionale, rapporti tra Stato e Chiesa, Stato e cittadini (e un’idea di cittadinanza maschile centrata sul servizio militare e la disponibilità al sacrificio in guerra), spazi e monumenti pubblici, trasformazioni nella loro percezione e nel loro uso. Le foto sono dell’autore.
Tre monumenti ai caduti nelle guerre del Novecento fra i tanti sparsi nella terraferma veneziana si distinguono per un elemento che negli altri manca: recano affisse le fotografie dei soldati morti. È stato proprio questo dettaglio che ha catturato la mia attenzione ed è all’origine del presente scritto.
I monumenti si trovano a Dese, Trivignano e Bissuola. Ho scritto “guerre del Novecento” perché nell’insieme essi celebrano tutti i conflitti armati dell’Italia nel XX secolo. I primi due appartengono alla disseminazione di monumenti commemorativi verificatasi in tutto il Paese all’indomani della Grande guerra, ma a Dese è stato aggiunto un tributo ai caduti durante il secondo conflitto mondiale, mentre a Trivignano si ricorda anche uno scomparso nella guerra di Libia del 1911-12; il terzo, quello alla Bissuola, è dedicato al 1940-45.
Dese e Trivignano fanno parte del Comune di Venezia dal 1926; in precedenza erano frazioni dei Comuni di Favaro Veneto e Zelarino: due centri minori dunque, un tempo piccoli paesi, oggi estrema periferia urbana, sul margine impalpabile dove la città metropolitana sfuma nella campagna. Bissuola invece è un rione di Mestre.
A Bissuola si optò per una lapide; peraltro in un altro punto del quartiere, in largo dell’Ulivo, esiste un monumento ai caduti di tutte le guerre, una scultura in forma di globo sormontato da rosse lingue metalliche (metafora del mondo in fiamme?).
A Dese e Trivignano furono eretti degli obelischi. L’uno e l’altro sono opere di ridotte dimensioni, realizzate in pietra e marmo bianco e di modesta fattura, senza grandi pretese estetiche, dallo stile semplice, essenziale, di modello classico, direi. In entrambi un piccolo obelisco è collocato su un alto piedestallo a pianta quadrata, poggiato al suolo su uno zoccolo basso. Il manufatto di Dese risulta un po’ più ricercato dell’altro, presentando anche qualche elemento decorativo. Il piedestallo non è un blocco unico come a Trivignano ma è formato da due cubi sovrapposti, separati fra loro e terminanti in alto con altrettanti cornicioni ornati con modanature a listello e a cubetto; le quattro facce dell’obelisco sono suddivise in riquadri da scanalature orizzontali, che spezzano con le loro linee l’uniformità delle superfici; il basamento è costituito da due gradini in marmo e non da un basso zoccolo di pietra grezza come a Trivignano. Sui quattro lati del piedestallo, ma a Dese anche in ogni ultimo riquadro in basso dell’obelisco, compaiono i nomi dei caduti, affiancati da un tondo con il ritratto in fotografia su porcellana del defunto. L’abbinamento non fu possibile con tutti i caduti: al termine della raccolta, a Trivignano, che aveva contato quaranta morti, mancarono nove foto; a Dese due su trentanove.
Per Dese non ho trovato notizie, ma considerati la tipologia e le caratteristiche formali del monumento, l’apparato simbolico e l’ubicazione, presumo che esso risalga allo stesso periodo dell’omologo di Trivignano, cioè agli anni dell’immediato dopoguerra e prima dell’avvento al potere del fascismo, e che non molto diverso sia stato l’iter che condusse alla sua realizzazione.
Promotori e cronologia della costruzione mi sono noti solamente per Trivignano. L’allora parroco di Trivignano, don Francesco Muriago, annotò nella cronaca della parrocchia che il monumento era stato inaugurato il 25 aprile 1921; alla cerimonia, l’orazione “di prammatica” fu tenuta da don Federico Tosatto, arciprete di Zelarino. L’opera, scriveva ancora, era stata finanziata “con offerte private e con il concorso del Municipio di Zelarino”1. Dunque, com’è la regola in tutta Italia in questa fase della monumentalizzazione, l’iniziativa scaturì “dal basso”, probabilmente con la costituzione di un comitato promotore paesano, e soltanto in un secondo momento fu coinvolta l’amministrazione comunale. Quanto al ruolo da essa giocato nella vicenda, in una sua ricerca sul monumento ai caduti di Zelarino Claudio Zanlorenzi riferisce che un’erogazione di 4.000 lire, da dividersi in parti uguali fra il capoluogo e Trivignano, fu deliberata dal Comune il 18 dicembre del 1923, dunque posteriormente alla data indicata da don Muriago per l’inaugurazione. L’obelisco, protetto da una ringhiera in metallo, fu collocato all’ingresso del sagrato della parrocchiale, giusto di fronte alla chiesa dedicata a San Pietro in Vincoli2.
L’inaugurazione il 25 aprile, probabilmente non a caso nel giorno di san Marco, – il 4 novembre, giorno dell’armistizio, fu ufficialmente proclamato festa nazionale solo nel 1922 –, il sito del monumento e la figura dell’oratore – l’arciprete di Zelarino e non una autorità civile –, fanno pensare alla collaborazione tra Stato e Chiesa, che si era rafforzata nel corso della guerra e, nello specifico a una concordanza di vedute, riguardo alle ragioni e finalità del monumento, tra amministrazione pubblica e comunità ecclesiale. D’altra parte nei piccoli paesi il sagrato è spesso il solo spazio che può essere qualificato come pubblico.
Anche a Dese il monumento si trova nell’area della chiesa parrocchiale della Natività di Maria. Su questo obelisco l’unico simbolo presente è la croce; emblema cristiano, ma che potrebbe interpretarsi anche come segno di una sacralizzazione in chiave politica della figura del soldato morto nella guerra nazionale e patriottica. Le due declinazioni del sacro, trascendente e mondana, possono benissimo convivere, e l’autorità laica trovare la propria convalida nella condivisione di uno spazio e nella compartecipazione al rito, insieme civile e religioso, in un Paese cattolico al tempo profondamente credente come l’Italia, nel quale la liturgia funebre e la commemorazione dei defunti appartengono per tradizione alla Chiesa3.
I monumenti di Dese e Trivignano risalgono al periodo precedente l’avvento al potere del fascismo, quando ancora non si è costruito il mito della Grande guerra in chiave di vittoria sui nemici dell’Italia e imposto l’utilizzo dei monumenti commemorativi come strumento al servizio della propaganda ideologica del regime. Entrambi sono scevri di retorica nazionalista e bellicista. A Dese manca un’epigrafe, uniche scritte sono un “A perenne memoria”, le date dei due conflitti mondiali, i nomi dei caduti. L’iscrizione di Trivignano non fa esplicito riferimento alla nazione, all’Italia: “Trivignano a suoi figli caduti 1915-1918”. Qui a essere evocata semmai è la “piccola patria”, il luogo che a quei giovani uomini ha dato i natali e che essi hanno dovuto lasciare per andare incontro alla morte. Siamo ancora nel momento della pietà e del cordoglio, della dolente partecipazione di un piccolo mondo rurale e contadino alla tragica sorte di così tanti compaesani. I monumenti commemorativi sono una forma istituzionalizzata di elaborazione collettiva del lutto. Intendono eternare nella memoria di una comunità, rammentare nel presente e tramandare alle generazioni seguenti “il ricordo di eventi storici dolorosi e delle loro vittime”4 – “A perenne memoria”, secondo l’espressione tanto asciutta, essenziale, antiretorica, scritta a traforo alla base dell’obelisco di Dese. Nel nostro caso, per le forme discorsive e simboliche adottate nei monumenti, l’impressione è che per comunità si possa intendere la collettività locale, avulsa o lontana da istanze più ampie, generali, quali la Nazione e lo Stato. In quel “suoi” Trivignano pare quasi voler rivendicare un’esclusiva sul diritto all’affetto; una dimensione locale che sembra voler rinchiudere dentro al circuito dei propri confini i sentimenti del dolore e del rimpianto.
Ma non può essere così. Questi giovani uomini non sono morti per Dese o Trivignano, o solo per essi. Perché i monumenti ai caduti nella Prima guerra mondiale, capillarmente distribuiti in ogni dove, città e villaggio, del nostro Paese sono una forma di risposta a un trauma vissuto dall’intera nazione, da tutto il popolo italiano. Collettiva, per quanto detto sopra. Democratica, perché accomuna tutti i caduti senza fare distinzione di grado militare e di condizione sociale. E “conciliativa”, nell’interpretazione che ne dà Mario Isnenghi5, per il loro valore simbolico di omaggio: un controdono offerto all’universalità dei caduti in segno di riconoscenza per il sacrificio della vita – il dono –, a mo’ di risarcimento, inteso a colmare la frattura fra quanti aderirono per convinzione alla guerra e quanti, la stragrande maggioranza, vi furono obbligati. Appunto, per elaborare il lutto occorre dare una giustificazione alla morte e questa, sempre seguendo Isnenghi, trova un motivo unificante, che supera la frammentarietà dei tributi locali, nel riconoscimento del comune sacrificio per la patria più grande, la nazione italiana.
Osserviamo i simboli ed emblemi sui nostri due monumenti. Se a Dese campeggia soltanto, in cima all’obelisco, la croce, simbolo di cristiana pietà, a Trivignano troviamo, oltre alla croce, anche la corona d’alloro e, sulla sommità, l’aquila ad ali spiegate. Essa è simbolo della vittoria, e così il serto di lauro, ma il secondo è anche segno di gloria imperitura. L’elemento consolatorio sta dunque nel riconoscimento offerto a questi caduti di aver contribuito con il proprio sangue alla guerra vittoriosa della nazione italiana sui suoi nemici – si stabilisce così la circolarità tra piccola patria e Grande Italia di cui scrive Bruno Tobia6. Il “premio”, simboleggiato nel monumento, è la gloria che i combattenti si sono guadagnata sul campo di battaglia, versione secolarizzata e laica dell’immortalità, il cui “luogo” è la memoria dei viventi e dei posteri, materializzata, cristallizzata nel marmo e nel bronzo dei monumenti.
Memoria e cordoglio sono elementi strettamente intrecciati. In questi monumenti della Prima guerra mondiale la memoria riguarda l’universalità dei caduti ma contemporaneamente è anche memoria individuale dei singoli7. Su entrambi i nostri manufatti sono riportati i nomi dei caduti, come accade per la massima parte dei monumenti disseminati in tutta Italia. Ma qui c’è qualcosa di più e di diverso, ciò che, dicevo all’inizio, aveva attirato la mia attenzione. Qui ci sono le fotografie dei morti. Ora, “per quanto attiene la sua origine e il suo impianto, il ritratto è collegato con l’elaborazione del lutto e con l’esperienza della perdita […] Le immagini perseguono una rappresentazione dei morti, una loro presentificazione in modi di apparire fisici”8. La ridondanza ottenuta attraverso il raddoppio dell’individuazione, abbinando segno grafico e iconico, è modalità con cui aumentare il potenziale di rammemorazione.
Dove troviamo accompagnati nome e fotografia di un defunto? Sulle tombe nei cimiteri. È possibile che ora pecchi di eccessiva immaginazione, ma per i parenti di caduti il cui corpo è sepolto in un luogo lontano e spesso ignoto, senza un nome sul sepolcro, il monumento diventerebbe una sepoltura virtuale, il luogo dove raccogliersi anche privatamente – fosse solo con il pensiero, con la mente – per piangere il proprio caro defunto, come si fa di consueto al cimitero.
Scenari, pellegrinaggi che possiamo pensare di ritrovare più di vent’anni dopo, all’indomani di un’altra guerra. A monumenti del genere dei nostri si possono aggiungere nuove effigi, quelle delle vittime della Seconda guerra mondiale. Cambia la dedica, da adesso ai “caduti di tutte le guerre” – le guerre del Novecento. Commemorare questi morti risulta incompatibile con i monumenti grondanti retorica bellicistica e nazionalistica eretti durante il fascismo, con questi nostri si può. Lo consentono la loro fattura e lo stile, alieni da una definita connotazione politica e ideologica. A Dese si aggiungono la scritta “Guerra 1940-45” e la foto dell’unico caduto, Mariano Giacomello – il quale si riconosce immediatamente, perché il suo ritratto sta in fondo a una fila, in una cornicetta quadrata con dentro il nome e non in un tondo come gli altri.
Oggi i monumenti della Prima guerra mondiale, non soltanto i nostri, sono circondati da una generale indifferenza, oggetti tanto consueti, tanto compenetrati nel paesaggio, da aver raggiunto l’invisibilità. Essi sono muti per le masse, non parlano più al tempo presente, non alla maggioranza delle persone, nemmeno alla comunità locale. Eventi bellici e vittime ormai lontani tra gli ottanta e i cento anni, mutamento o completo abbandono di una “religione civile” di cui la Patria è la divinità laicizzata e i caduti in battaglia i martiri, con quanto ne consegue sulla “sacralizzazione” dei monumenti commemorativi. A dimostrazione del fatto che l’aura di sacralità che avvolgeva i nostri due obelischi si sia grandemente indebolita o addirittura svaporata – a meno di non intendere un certo comportamento di cui dirò un caso di conflittualità legata proprio al concetto del sacro – vorrei riferire un fatto passato e un particolare riuso attuale del monumento.
Segnalavo in precedenza come l’obelisco di Trivignano fosse stato collocato esattamente di fronte alla chiesa. Questo occupare il fulcro del solo effettivo spazio pubblico paesano significava fuor di dubbio la centralità che si intendeva attribuire all’evento bellico e ai suoi funesti frutti per la memoria collettiva della comunità e ai lutti che aveva provocato. Adesso però il monumento non si trova più là. È sempre ospite del sagrato della parrocchiale, dal 1968 dedicata a San Pietro Apostolo, ma in posizione decentrata sulla destra guardando la chiesa, in fondo a uno spiazzo erboso; vi conduce un corto vialetto lastricato, sorvegliato agli angoli dell’imboccatura da due cespugli potati a palla; è stata rimossa la ringhiera. Non so quando sia avvenuto lo spostamento, non ho avuto modo di accertarmene. In una foto del luglio 1967 si vede l’obelisco dov’era. Il sagrato e l’area antistante hanno conosciuto una risistemazione, nel 1983 è stato restaurato il campanile: può essere che la ricollocazione sia avvenuta allora. Stabilire la data esatta non è comunque così dirimente9. La decisione sarà stata senz’altro dettata da ragioni pratiche, il monumento “disturbava” le cerimonie religiose, matrimoni e funerali. Tuttavia è evidente il valore simbolico di una tale scelta: essa disvela la perdita di centralità dell’evento commemorato, l’eclissi del sentimento del sacro di cui si diceva.
Quanto al riuso, uno caratterizza, come detto, il secondo dopoguerra. Riutilizzo omologo, per la medesima fruizione. E poi, più nulla? È molto probabile che in passato i nostri monumenti siano stati teatro abituale di giochi di bimbi, ma non è più così in questo presente di inverno demografico e di regolazione adulta del tempo libero infantile (quando non si tratta proprio di completa interdizione ai bambini di stare all’aperto, come accaduto nei mesi dei lockdown, totali o parziali, nel corso del 2020 e 2021). I nostri monumenti non hanno condiviso la sorte di numerosi altri, diventati punto di ritrovo per compagnie di ragazzi o appetibile supporto per scritte spray e graffiti. Ma se si osservano con un minimo di attenzione per i particolari, ci si accorge che un’altra forma di riutilizzo si è data, dai connotati controversi e forse non così triviali come di primo acchito potrebbe sembrare. A Trivignano, alcune foto sono state staccate, il marmo conserva l’impronta del legante. Altre risultano danneggiate, scheggiate, i volti cancellati da colpi inferti con un oggetto pesante e appuntito. Dal biancore dei margini, la ferita sembra recente. Soltanto vandalismo favorito dalla posizione appartata del monumento? (A Dese lo scempio non c’è stato, l’obelisco è ben visibile dalla trafficata via principale del paese.) Forse semplice incuria? Una lettura più suggestiva potrebbe intravvedere nell’atto un gesto sacrilego, una negazione del sacro che non può darsi senza presupporne l’implicito riconoscimento.
Veniamo alla lapide mestrina. La si può vedere affissa sulla facciata del seicentesco oratorio di Santa Maria della Pace in via Bissuola. Non sono riuscito a sapere né quando sia stata murata né per iniziativa di chi. Commemora sette defunti, con fotografia, nome e cognome e data di nascita e di morte, fatta eccezione per un alpino “disperso”, forse in Russia.
L’epigrafe recita “caduti per la patria”. Bisognerebbe intendersi su quale patria. Perché si commemorano cinque militari, quattro marinai – questi con l’indicazione della nave su cui erano imbarcati – e l’alpino, ritratti in divisa, e morti prima dell’8 settembre 1943 – un marinaio in realtà, vedremo in quale circostanza, il 9 settembre – ma anche un “partigiano” e un “patriota”.
Qui dunque si commemorano nello stesso spazio pubblico due guerre: quella di aggressione dell’Italia fascista alleata della Germania di Hitler e quella di Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Metterle sullo stesso piano, non fare distinzioni, esprime una volontà di pacificazione e conciliazione nazionale il cui corollario è il silenzio sulle colpe e responsabilità del regime.
Dei soldati di Dese e Trivignano abbiamo il nome e la foto. Per i caduti di Bissuola qualche informazione ulteriore: data di nascita e di morte, corpo militare e qualifica, per i marinai il nome della loro nave. Ciò mi ha permesso di ricostruire per alcuni di loro almeno le circostanze della morte.
Si fa notare la distinzione fra “partigiano” e “patriota”. È fondamentale fare attenzione alle date. Di Romeo Crivellaro, classe 1913, non so null’altro che il giorno della morte, il 7 maggio 1943. Ecco quasi certamente perché “patriota” e non “partigiano”; ma morto di morte violenta per mano del regime in quali circostanze, nel maggio ’43: in un carcere fascista o dove, e come?
Del partigiano Omero Scattolin invece qualcosa sappiamo. Nato nel 1924, con ogni probabilità tra i militari sbandati dopo l’8 settembre, si unisce ai partigiani liguri, prendendo il nome di battaglia di Loris. Dall’estate del 1944 è inquadrato nella terza Brigata Garibaldi Libero Briganti della Divisione Gin Bevilacqua, costituita il primo agosto di quell’anno. Muore ventenne a Bardineto in provincia di Savona il 29 novembre 1944 – ed è ricordato anche nella località ligure sulla lapide ai “Caduti della Resistenza” inaugurata il 12 settembre 2015. È sepolto nel cimitero di Mestre.
Dei militari, come si diceva, quattro su cinque sono marinai, il quinto un alpino. Questi si chiamava Luigi Sartori, era nato nel 1912, lo si ricorda “disperso”, forse nella campagna di Russia, anche se non ho trovato il suo nome negli elenchi dei militari dell’Armir10. Veniamo ai marinai. Giuseppe Serena, classe 1919, era imbarcato sull’Orsini, un vecchio cacciatorpediniere della Prima guerra mondiale, in servizio durante la seconda nel Mar Rosso a protezione di Massaua; muore il 21 giugno 1940; la sua nave sarà autoaffondata nell’aprile 1941 per non farla cadere in mano gli inglesi. Giulio Gardinal, del 1921, imbarcato sulla Tarigo, nella lapide erroneamente “Torigo”, affonda insieme alla sua nave il 16 aprile 1941 durante uno scontro con unità britanniche nel Mediterraneo Centrale. Giuseppe Bruson, del 1916, era invece marinaio su un piroscafo a vapore da carico armato, il Salpi, affondato da un sommergibile inglese il 9 febbraio 1942 al largo di Capo Ferrato in Sardegna. Egli però era morto esattamente un anno prima, il 9 febbraio 1941, quando la sua nave alla fonda nel porto fu colpita in occasione del bombardamento navale britannico di Genova, nome in codice Operation Grog. Infine, la morte del ventiduenne cannoniere Vittorio Giacomello è legata all’episodio più noto e più tragico, anche per la data e le circostanze in cui avvenne: l’affondamento, il 9 settembre del 1943, dunque il giorno seguente all’armistizio, del Roma, la corazzata ammiraglia della flotta italiana di stanza a Genova e La Spezia, in navigazione senza protezione aerea – imperava il caos: il re era scappato, gli alti comandi volatilizzati, l’esercito allo sbando – verso Malta per consegnarsi agli Alleati e colpita a morte dall’aviazione tedesca al largo dell’isola dell’Asinara; con la nave perirono ben 1.393 uomini dell’equipaggio11.
- I due quaderni con le cronache dal 1921 al 1984, conservati presso l’archivio parrocchiale, si trovano pubblicati in Brevi appunti di cronaca della parrocchia di Trivignano (Venezia). 1921-1984, a cura di Alfio Beriotto, Trivignano 2003; la notizia sul monumento è a p. 70. [↩]
- Claudio Zanlorenzi, Il Monumento di Zelarino ai Caduti della Grande Guerra, “Esde”, 10, 2015, p. 335; per la collocazione di fronte alla chiesa cfr. Brevi appunti cit. [↩]
- Si vedano a tale proposito le considerazioni di Mario Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Mondadori, Milano 1989, pp. 343-344. [↩]
- Nicolas Pethes, Jens Ruchatz, Dizionario della memoria e del ricordo, ed. italiana a cura di Andrea Borsari, Bruno Mondadori, Milano 2002, s.v. “monumento commemorativo”. [↩]
- Isnenghi, Le guerre degli italiani cit., pp. 343-45. [↩]
- Bruno Tobia, Monumenti ai caduti dall’Italia liberale all’Italia fascista, in La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, a cura. di Oliver Janz e Lutz Klinkhammer, Donzelli, Roma 2008, p. 58 [↩]
- Pethes, Ruchatz, Dizionario cit., s.v. “morte, morti”. [↩]
- Pethes, Ruchatz, Dizionario cit., s.v. “ritratto” e “morte, morti”. [↩]
- La collocazione in faccia alla chiesa ancora nella seconda metà dei Sessanta si può verificare in una foto del 2 luglio 1967, pubblicata in Brevi appunti cit., p. 283. [↩]
- Si veda il sito dell’unione Nazionale Italiana Reduci di Russia. [↩]
- Per la storia della corazzata Roma si veda https://www.regianaveroma.org/. Nel sito è consultabile l’elenco nominativo di tutti i caduti, nel quale figura anche Vittorio Giacomello. [↩]