di Piero Brunello
Piero Brunello riprende alcune questioni sollevate dalla lettera di Lucia Gianolla e dagli interventi all’assemblea pubblica del 3 maggio 2021. Opporsi al progetto di torre varato dalla Giunta comunale nel Quartiere XXV Aprile, sul terreno a lungo utilizzato come campo sportivo, significa contrastare un’idea di città priva di quartieri e di spazi pubblici dove possano svilupparsi relazioni sociali e virtù civiche.
1. Il campo su cui un costruttore ha messo gli occhi per costruire una torre di oltre 70 metri, con l’appoggio della Giunta comunale di Venezia, non è uno spazio vuoto e quindi da edificare, bensì un’area pensata per il quartiere fin dal progetto costitutivo del Villaggio San Marco nei primi anni Cinquanta del Novecento. Lo hanno ribadito gli interventi degli abitanti del Quartiere XXV Aprile di Mestre all’assemblea del 3 maggio 2021, alcuni dei quali abbiamo pubblicato la settimana scorsa.
Quello spazio fu utilizzato per decenni per lo scopo con cui era stato pensato, e cioè come campo sportivo e di gioco, sia della squadra di calcio del Real San Marco, sia per tornei di quartiere. Qualche anno fa è stato poi recintato perché è risultato essere composto da terreni tossici provenienti da Porto Marghera, come del resto tutto il quartiere, e da allora non è stato mai bonificato, a dispetto delle continue richieste degli abitanti.
In una intervista di questi giorni l’architetto Gianfranco Vecchiato ha ricordato a ragione che il Villaggio San Marco avrebbe dovuto e dovrebbe avere un vincolo paesaggistico come è avvenuto per la Città Giardino di Marghera. (Mo.Zi., “Viale San Marco modello che funziona. Tutelarlo è l’unico interesse pubblico”. Vecchiato: sorpreso dal silenzio dello Iuav, “Il Corriere della sera”, Venezia-Mestre, 9 maggio 2021).
Quella della Città Giardino di Marghera è una vicenda che andrebbe ricostruita per mostrare uno dei casi in cui l’iniziativa di singoli cittadini, di studiosi e di associazioni è fondamentale. Il Ministero dei Beni Culturali vi ha posto il vincolo paesaggistico nel 2018, ma il primo passo formale era avvenuto già nel 1995, quando l’allora assessore provinciale Giorgio Sarto aveva fatto approvare in Provincia una proposta di vincolo in quanto Marghera “costituisce un insieme caratteristico del Novecento che testimonia una fase significativa della storia della città, costituendo un paesaggio urbano di notevole interesse per i caratteri d’insieme e delle sue singole parti” (l’approvazione, 2 maggio 1995, online in https://www.veneto.beniculturali.it/). A sostegno della sua iniziativa, Sarto citava gli studi storici fin lì prodotti, compresi i primi di storiAmestre, che allora aveva pochi anni di vita, ma soprattutto la sua mozione poteva contare su un robusto movimento messo in piedi da associazioni, da singoli studiosi e da gruppi di insegnanti fin dagli anni Ottanta, in cui lui stesso aveva avuto un ruolo importante. Lo fa notare anche Remi Wacogne, in uno studio recente (Remi Wacogne, La fabbrica del patrimonio urbano in Italia. Il caso della Città Giardino di Marghera, tesi di dottorato in Architettura, città e design, Iuav, Venezia 2019, pp. 158-159, consultabile online), che cita le iniziative messe in atto presso la biblioteca di Marghera a opera di “associazioni del quartiere”, “singoli studiosi”, “movimenti di sinistra locali” e in particolare dei Verdi, “giovani di Marghera”, oltre all’opera di “urbanisti professionisti o aspiranti tali” che ruotavano attorno a Urbanistica democratica, e di insegnanti dell’Istituto Tecnico Massari, di cui Giorgio Sarto era vicepreside.
Il vincolo a tutela del paesaggio urbano di Marghera è stato posto solo più di vent’anni dopo, nel 2018, su intervento dello Stato, tramite Soprintendenza e Ministero dei Beni Culturali. La delibera della Provincia di Venezia del 1995, infatti, non ebbe subito seguito: la Regione Veneto non dispose il vincolo, sostenendo che il paesaggio urbano era già tutelato a sufficienza dal Piano di Area della Laguna e dell’Area Veneziana (Palav). Quanto il Palav possa tutelare il paesaggio è dimostrato proprio dalla variante urbanistica che consente la costruzione della torre in viale San Marco.
Quartiere XXV Aprile a Mestre visto dal satellite; il terreno in discussione è quello verde lungo via Giuseppe Boerio
2. La lettera di Lucia Gianolla che abbiamo pubblicato il 22 aprile testimonia bene il senso di incredulità e di sconcerto che gli abitanti del Quartiere XXV aprile hanno avuto alla notizia della decisione della Giunta comunale. Tutti, a cominciare dai residenti, hanno sempre dato per scontato infatti che gli spazi verdi fanno parte integrante del progetto di quartiere, e che tali sarebbero rimasti; forse è questa sicurezza a spiegare perché, finora, nessuno aveva mai pensato che fossero possibili operazioni immobiliari o urbanistiche tali da stravolgere il Villaggio San Marco, né, pertanto, di sviluppare un movimento per la tutela paesaggistica del quartiere, come è avvenuto invece per la Città Giardino di Marghera.
Lo sviluppo urbano a Mestre è nato sotto il segno dell’orrore del vuoto (che va edificato) e dell’idea che la terraferma è una tabula rasa priva di segni storici da tutelare (quelli sono tutti a Venezia). Qualcosa del genere si riscontra anche in questa vicenda del progetto di torre, che viene pensata come se si trovasse in uno spazio vuoto e privo di segni storici. Però qui sta avvenendo qualcosa di nuovo, perché mai con tanta chiarezza è apparso che la città immaginata dalla Giunta Municipale di Venezia – e dai costruttori non mi aspetto niente di diverso – è una città priva di quartieri, e senza socialità di quartiere.
Riprendiamo in mano il progetto del Villaggio San Marco, che prevede – a scrivere è Giuseppe Samonà nel 1951 – “unità residenziali autosufficienti”, “insediamenti autonomi che dovrebbero essere svincolati dalle grandi maglie di traffico commerciale e turistico”. Perno del progetto erano le “corti”, immaginate e progettate sul modello dei campielli veneziani, intese “come spazi comuni […] che devono essere di tutti e di ognuno, facilmente accessibili dalla casa e meglio ancora dal soggiorno della casa, come una prosecuzione all’aperto di essa”. Quanto al terreno di cui stiamo parlando, Samonà scrive che “il parco e i campi da gioco dove s’incontrerebbero soprattutto i ragazzi” avrebbero favorito le relazioni sociali (Giuseppe Samonà, Nuova unità residenziale a Marghera-Mestre, in “Urbanistica”, 1951, n. 7, pp. 31-34).
Ora, il mondo non è più quello del 1951, precedente al boom economico, alla motorizzazione di massa e allo sviluppo dei consumi, soprattutto di quelli pensati “in interni”, individuali o familiari. Ma una cosa non è cambiata: e cioè l’idea che gli spazi urbani possano e debbano favorire le relazioni sociali, in una dimensione che è quella del quartiere.
La storia del Villaggio San Marco ha dimostrato quanto più ricca sia stata la socialità rispetto a quella sostanzialmente maschile e di ceto sociale a cui pensava Samonà, il cui progetto distingueva tra uomini “più amanti dell’individualità” (che avrebbero scelto di vivere nei palazzoni) e uomini che invece amano “fuori del lavoro la compagnia dei vicini” (e che avrebbero quindi preferito le corti)1. Anche senza scomodare la storia delle città italiane ed europee, settant’anni di vita del Quartiere XXV Aprile dimostrano che tutto quello che rende attraente questa zona della città, è dovuto alla socialità favorita dalle corti, dagli spazi per lo sport e per i giochi, dalle aree pedonali lungo il viale e dai negozi che vi si affacciano. Del resto l’assemblea del 3 maggio non si sarebbe mai potuta tenere senza quell’area verde davanti il supermercato Cadoro, che mi auguro a nessuno venga in mente di chiamare “un buco” in attesa di cemento.
- Rimando anche a Piero Brunello, Archeologia. Appunti per ricerche da fare, in Id., Mestre è un goniometro. Note, incontri e sopralluoghi, Quaderni di storiAmestre, Mestre 2019, p. 37 [↩]