di Mario Tonello
Il nostro amico e socio Mario Tonello ci ha inviato una scheda di lettura di un libro recente, molto discusso in tutto il mondo: La grande cecità – secondo il titolo italiano – dello scrittore e saggista Amitav Ghosh. Una lettura fatta su consiglio di un altro socio e amico, Giacomo Bonan, per accompagnare una sua riflessione sul peso che l’ambiente ha o dovrebbe avere nella pratica storiografica e sul modo in cui storiAmestre ha messo in relazione storiografia e ambiente negli ultimi dieci-quindici anni di attività.
“Chi può dimenticare i momenti in cui qualcosa che sembrava inanimato mostra di essere ben vivo, addirittura pericolosamente vivo? Ad esempio quando un arabesco nel motivo di un tappeto si rivela come la coda di un cane, che, se calpestata, potrebbe provocare un morso a una caviglia”.
Comincia così La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, il saggio di Amitav Ghosh che ho letto grazie a un suggerimento di Giacomo Bonan, che ne parla a lungo in un suo articolo (Gli storici e l’Antropocene: narrazioni, periodizzazioni, dibattiti, “Passato e Presente”, 104, 2018, pp. 129-143).
Lo scrittore, giornalista e antropologo Amitav Ghosh è nato a Calcutta nel 1956, oggi vive tra l’India e gli Stati Uniti, insegna in grandi università, collabora a importanti riviste internazionali. Il suo libro parte da questa domanda: come si spiega che i cambiamenti climatici, che stanno riscrivendo il destino dell’umanità, siano quasi totalmente assenti nell’intera narrativa mondiale contemporanea? Com’è possibile che i posteri che ci seguiranno in un mondo tanto mutato, non troveranno nelle opere della letteratura e dell’arte segnali premonitori dei cambiamenti catastrofici che ci aspettano?
Il motivo per cui ho letto questo libro è per ragionare sulla percezione della centralità del tema dell’ambiente nella ricerca storica e, restando sempre in questo ambito, su una certa attuale tendenza che definirei “ambientalista militante”, ma chiusa in sé stessa.
In altre parole, la storiografia è coinvolta nel processo di rimozione di cui Ghosh parla per la narrativa? La storiografia dà il suo contributo alla “grande cecità” che ci impedisce di vedere ciò che davvero, ora, sta segnando le nostre vite e dando una direzione alla storia dell’umanità?
La scrittura letteraria e quella storica sono per molti aspetti attività molto simili, o la storiografia si schiera nel campo della saggistica? Se si propende per quest’ultima possibilità, allora può considerarsi “coperta” dai tanti autori di studi sui cambiamenti climatici; se invece si ammette la prima ipotesi, o almeno la compresenza dei due aspetti nella pratica storiografica, allora è il caso di chiedersi – con Ghosh – se anche la storiografia è o rischia di essere affetta dalla grande cecità.
È una domanda che riguarda anche storiAmestre, almeno da quando, in seguito all’alluvione che ha colpito Mestre del 2007, la nostra associazione ha cominciato a ragionare sempre più di storia ambientale e di storia (e politica) delle acque.
1. La grande cecità è un saggio di circa 200 pagine, che si compone di tre parti, ciascuna divisa in brevi capitoletti. La prima, intitolata Storie, occupa circa la metà del testo, ed è appunto dedicata alle relazioni tra le opere narrative dei tempi moderni e i cambiamenti climatici in atto. È notevolissima l’ampiezza dello sguardo dell’autore che sviluppa le sue osservazioni sulla produzione letteraria e saggistica mondiale offrendoci uno sguardo di insieme assolutamente inconsueto e affascinante. Siamo indotti a modificare il concetto comune di esotismo.
In questa prima parte del libro, Ghosh rileva che generi, forme e convenzioni letterarie ereditate dalla tradizione rendono difficile parlare dei cambiamenti climatici che riscrivono il destino della terra. Trova che le opere letterarie che affrontano i temi del cambiamento climatico siano classificate con troppo facilità e supponenza nella sottospecie della fantascienza.
Lui stesso dichiara di non essere mai riuscito a utilizzare in un suo libro di narrativa un episodio della sua vita che pure lo ha segnato e su cui ha riflettuto molto: quando a New Delhi si è trovato investito per strada da un violento devastante uragano, si è salvato per essersi trovato giusto nell’occhio del ciclone, il punto dove la sua forza è molto attenuata. E allora racconta di aver avuto l’impressione di essere stato “guardato” dal ciclone. La metafora sta a significare che questi sempre più frequenti eventi naturali non sono più straordinari, provocati da forze sovrumane ma sono opera dell’uomo nell’era del carbonio: fanno parte della storia umana, non della storia naturale e tantomeno della fantascienza. Scrive Ghosh più avanti: “la terra nell’era del surriscaldamento globale è per l’appunto un universo di tenaci e ineludibili continuità, animate da forze di inconcepibile portata” (p. 71).
Poco oltre, giunto al termine di una serie di capitoletti dedicati a vari punti del mondo alle prese con cambiamenti e catastrofi ambientali, e sempre riflettendo su come di tutto ciò può o non può nutrirsi l’immaginario letterario, cita la situazione paradossale di Venezia minacciata costantemente da inondazioni, in cui una delle lingue che più spesso si sente per le strade è il bengali, parlato da chi è fuggito dal suo paese a causa dell’innalzamento dei mari.
Meno convincente è, almeno per me, il capitoletto (cap. 14) in cui attribuisce la capacità di intendere e di volere a tutto l’esistente, animali, vegetali e perfino a realtà materiali. Ma Ghosh sviluppa poi sul piano della storia letteraria il rapporto tra umano e non umano, notando che Frankenstein di Mary Shelley, il prototipo del genere fantascientifico, non fu affatto considerato estraneo alla letteratura tradizionale, e fin dal ‘700, agli “albori della modernità”, il rapporto tra letteratura e scienza era molto stretto e rivendicato da molti scrittori come Goethe, Melville, Tolstoj, ecc. (io retrodaterei a Galileo, a Machiavelli, se non addirittura a Lucrezio) e gli interessi scientifici non erano affatto in contraddizione con quelli letterari.
Il surriscaldamento globale tuttavia resiste all’assorbimento nella letteratura fantascientifica a cui sembrerebbe destinato: infatti appartiene non a un mondo “altro”, o a un tempo o a una dimensione “altra”. La sua collocazione è fuori dal dominio della fantasia e si dispone sul nostro tempo e sul nostro futuro.
Gli ultimi capitoli della prima parte sono di grande interesse, ma tralascio di parlarne perché da un lato sono più centrati sulle forme letterarie, dall’altro sconfinano in ambiti antropologici o filosofici, come l’antinomia individuale/collettivo, la pluralità dei linguaggi non verbali (umani e non-umani, cioè naturali o tecnologici) e altro.
2. La seconda parte del libro si intitola Storia. Senza esitazioni né circonlocuzioni indica subito il punto centrale: la causa del cambiamento climatico è il capitalismo; con una ulteriore precisazione: c’è “un aspetto altrettanto importante del surriscaldamento globale: l’impero e l’imperialismo”. Questa precisazione permette a Ghosh di affermare che, al contrario della corrente convinzione per cui “il discorso sul problema climatico [sarebbe] in buona sostanza eurocentrico”, “il continente asiatico è di fondamentale importanza per ogni aspetto del surriscaldamento globale” (p. 110).
I parametri presi in considerazione sono sintetizzabili come segue.
1. Il numero di abitanti dell’Asia fa prevedere che il maggior numero di vittime del surriscaldamento globale si troverà appunto in Asia, come è avvenuto sempre più frequentemente anche nel recente passato.
2. Attività umane come le dighe e l’estrazione di acque freatiche e di petrolio hanno abbassato ulteriormente i delta dei fiumi aggravando le conseguenze dell’innalzamento del livello dei mari.
3. Lo sfruttamento dei grandi fiumi ne ha prodotto l’interramento (l’Indo oggi non arriva più al mare, come un quarto dei fiumi del mondo, per lo più asiatici) e la salita del cuneo salino ha distrutto mezzo milione di ettari di terreno agricolo.
4. L’innalzamento del livello marino in India può provocare tali distruzioni agricole che saranno costretti a migrare 50 milioni di indiani, e 75 milioni di bengalesi, e un decimo dei vietnamiti.
5. Siccità e desertificazione colpiscono l’entroterra continentale.
6. Lo scioglimento dei ghiacciai provoca inondazioni disastrose assieme a siccità estreme.
Un confronto aiuta a capire la specificità dell’Asia: le falde acquifere si stanno prosciugando sia nei 450.000 chilometri quadrati del bacino dell’Ogallala negli Stati Uniti, che nei 3200 chilometri quadrati della Cina settentrionale; ma mentre nel primo caso sono coinvolti 2 milioni di abitanti, in Cina sono minacciati 214 milioni di persone. Questo intende Ghosh parlando di centralità della questione asiatica (cap. 2).
I capitoli seguenti sono dedicati alla storia dell’era del carbone e dei combustibili fossili. Raccontano della precocità dello sfruttamento dell’energia fossile anche in Asia, della spinta inarrestabile del mondo occidentale verso il suo uso pressoché esclusivo, e verso l’incremento dei consumi, del precipitare della crisi quando in tempi molto recenti anche l’Asia ha conosciuto un eccezionale sviluppo produttivo.
Ciò ha mandato in frantumi il presupposto centrale della civiltà moderna, che fosse cioè possibile limitare l’accesso alla modernità solo a una piccola minoranza della popolazione mondiale.
L’Asia è stata risucchiata dentro a questo scenario e lo shock è stato tale – dice Ghosh – che ne è rimasta sgomenta e ammutolita, e “ha messo a nudo col proprio silenzio, i silenzi sempre più evidenti che stanno al cuore del sistema di governance globale” (cap. 3).
Perché i paesi asiatici più popolosi si sono industrializzati solo alla fine del Novecento e non prima? La risposta dà conto del perché Ghosh attribuisca la responsabilità della crisi ambientale al capitalismo allargandolo però al suo aspetto imperialista, che come indiano Ghosh conosce benissimo: la potenza dominante, l’Inghilterra, non si sarebbe sviluppata se avesse lasciato che le materie prime fossili fossero utilizzate nei paesi dominati: l’economia del carbone poteva funzionare solo a patto che nessun altro la adottasse (cap. 7).
Le emissioni di carbonio sono state fin dall’inizio strettamente legate al potere, e l’evidenza storica dimostra che “l’industria e il commercio del sistema capitalistico non possono sussistere senza il sostegno del potere militare e politico”. A ulteriore controprova sta il fatto che il processo di decolonizzazione ha coinciso con lo sviluppo delle economie asiatiche degli ultimi decenni. Queste osservazioni portano però a una conclusione paradossale: il freno allo sviluppo dell’industria nei paesi ex coloniali ha ritardato l’avvento della crisi climatica globale. Di qui l’apparente ragionevolezza di una richiesta di perequazione e risarcimento da parte da parte dei paesi poveri. Vale la pena di riportare la disperata constatazione che conclude il capitolo 8: “questo ragionamento non fa che renderci più consapevoli di quanto siamo impantanati nella Grande Cecità: la nostra vita e le nostre scelte devono tener conto di un contesto storico che sembra non lasciarci altra via di uscita che l’autodistruzione”.
L’ultimo capitolo della seconda parte richiama a una consapevolezza dei numeri coinvolti. Gandhi ammoniva che se i 300 milioni di indiani (nel 1930, ora i milioni sono 1200) avessero seguito il modello occidentale dello sfruttamento delle risorse, il mondo ne sarebbe stato spogliato come da un’invasione di cavallette. Questa schietta constatazione costituisce un notevole precedente delle teorie della limitazione della crescita (oggi si imporrebbe anzi una decrescita) basata sull’energia del carbonio. In effetti dobbiamo convenire che la finitezza delle risorse oggi è largamente taciuta o esplicitamente irrisa. È però vero che non tutti i paesi asiatici hanno seguito fedelmente la via capitalistica occidentale, ricorda Ghosh. Corea e Giappone hanno adottato misure di mitigazione o almeno hanno dichiarato intenzioni in tal senso. La Cina non ha ridotto i consumi ma i consumatori (con la politica del figlio unico).
Questa seconda parte del saggio, dedicata alla Storia, si chiude con un salto di piano che può lasciare perplessi o sconfortati, ma che mi sembra il frutto ultimo della considerazione globale del ruolo della specie umana nella crisi climatica del pianeta. Nonostante l’estrema diversità con cui diversi gruppi umani vi hanno contribuito, “il surriscaldamento globale è il prodotto della totalità delle azioni umane nel corso del tempo”.
La conferenza di Parigi ha parlato efficacemente di “responsabilità comuni ma differenti”. Ghosh si spinge ad affermare che “Nella misura in cui rappresentano la totalità delle azioni umane nel corso del tempo, gli eventi del moderno clima in mutamento rappresentano anche il capolinea della storia”.
Questo punto di vista che supera le polarizzazioni consuete noi/loro, buoni/cattivi, avanzati/arretrati costituisce a mio parere uno dei pregi più rilevanti di questo saggio e uno dei contributi più fecondi per un approccio appropriato al problema del cambiamento climatico in quanto evita le semplificazioni e ne mette in evidenza la profonda complessità.
Attenzione però a non attribuire all’espressione “capolinea della storia” il valore di giustificazione ipocrita delle disastrose politiche energetiche dominanti, come nel diffuso luogo comune “è colpa di tutti, quindi colpa di nessuno”, o tantomeno assimilarla alla “fine della storia” teorizzata da qualche intellettuale neoliberista per dichiarare raggiunta col liberismo la perfezione dei sistemi politici. Al contrario il “capolinea della storia” non indica che si è raggiunta la perfezione bensì che la storia è arrivata al suo punto più basso. Inguaribile catastrofismo? Vediamo: la terza parte del saggio parla di Politica.
3. Un termine ha accompagnato la formazione giovanile di molti di noi nei primi decenni del dopoguerra: impegno. Specie gli intellettuali e gli artisti erano giudicati in base al loro livello di engagement. Questo concetto si è usurato al punto da essere pressoché bandito o usato ironicamente dal linguaggio giornalistico.
Che c’entra questo con il cambiamento climatico? Ghosh apre la terza parte (Politica) con la constatazione che l’idea di libertà, il più importante concetto politico dell’era moderna, centrale non solo per la politica ma anche per le scienze umane, le arti e la letteratura, è stata messa in crisi dal cambiamento climatico. Dall’illuminismo l’idea di libertà è stata studiata in funzione dei rapporti tra gli uomini, contro l’oppressione, l’ingiustizia, la disuguaglianza. La polarizzazione tra Natura e Civiltà pende a favore della seconda come l’unica su cui l’uomo può influire, su cui può costruire la sua libertà.
Le arti figurative hanno prediletto l’astratto contro il figurativo, tendono “a cercare sé stesse piuttosto che la realtà esteriore”: è il moderno. Anche l’Asia ha partecipato a questa deriva modernista, creando così fratture vistose con forme espressive in cui prevaleva la rappresentazione della realtà non-umana. Qui si pone la domanda cruciale, che richiede una lunga citazione:
“È forse possibile che le arti e la letteratura del nostro tempo vengano un giorno ricordate non per la loro audacia, non per la loro difesa a spada tratta della libertà, bensì per la loro connivenza con la Grande Cecità? Si arriverà forse a sostenere che «l’atteggiamento intransigente di opposizione all’ordine costituito» oggi adottato dagli artisti e dagli scrittori sia stato, dal punto di vista dell’Antropocene, una forma di complicità?”.
Una citazione da Guy Debord è particolarmente tagliente. Le forme più spettacolari di ribellione non sono in alcun modo incompatibili con “la beata accettazione di ciò che esiste […]: ciò traduce semplicemente il fatto che l’insoddisfazione stessa è divenuta una merce” (Ghosh cita da La società dello spettacolo, prima ed. 1967, tesi 59).
Perché questa affermazione ci fa sobbalzare? Gli intellettuali non hanno costituito (o si sono costituiti) come l’avanguardia, anche nel campo della vita pubblica? E qui Ghosh lancia un’altra delle sue provocazioni rivelatorie: gli artisti si sono costituiti con maggior convinzione come avanguardie soprattutto quando le emissioni di carbonio sono aumentate. Se disegniamo – continua Ghosh – un grafico dell’impegno politico degli artisti nell’ultimo secolo, esso risulterebbe pressoché parallelo al grafico delle emissioni di carbonio nello stesso periodo, con impennate nel periodo della prima guerra mondiale in cui la crescita della produzione industriale bellica ha coinciso con quella letteraria, in gran parte politica. Lo stesso risultato si avrebbe per il periodo tra le due guerre, mentre le due linee divergeranno solo nei primi decenni del secondo dopoguerra, quando le emissioni non tennero il passo dell’impegno politico degli artisti sul piano mondiale. Le linee si sarebbero di nuovo appaiate con l’industrializzazione dell’Asia degli anni Ottanta. La frenesia dell’essere “avanti”, dalla “parte giusta della storia”, ha continuato ad alimentare il terrore dell’obsolescenza, moderna forma della dannazione eterna. E questo terrore ha impedito a molte generazioni di intellettuali di dare ascolto ai cupi “brontolii della terra”.
Questo capitolo si chiude con una sentenza piuttosto raggelante: l’avanguardia, lungi dall’essere “avanti” era con ogni evidenza in ritardo. Con un gesto autoprotettivo sembra abbia volto lo sguardo in direzioni che celavano ai loro occhi proprio quello che cercavano di indagare: l’avvenire (cap. 1).
Ghosh riporta un altro fenomeno significativo: l’India e i paesi asiatici si sono fortemente politicizzati, con grandi manifestazioni e vivaci dibattiti, ma pur essendo territori estremamente vulnerabili ai cambiamenti climatici, questi temi non accendono gli animi. Nonostante i disastri si siano già manifestati con intensità crescente in questi paesi, “la politica si è andata concentrando su problemi connessi all’identità: religione, casta, appartenenza etnica, lingua, genere, e così via”. Questo fatto “indica un mutamento nella natura stessa della politica. Non riguarda più il bene comune e le scelte collettive. Riguarda qualcos’altro”. Cosa?
L’argomentazione sulla natura della politica del nostro tempo è troppo interessante per essere qui riassunta. Mi limiterò a qualche spoglia citazione dal cap. 2, nella speranza di suscitare curiosità.
La “politica [è] sempre meno attenta alla gestione della cosa pubblica e sempre più concepita come «avventura morale individuale», ovvero viaggio interiore guidato dalla coscienza” (p. 157).
La “crisi climatica ci sfida proprio a immaginare altre forme di esistenza umana, perché se c’è una cosa che il riscaldamento globale ha perfettamente chiarito è che pensare al mondo solo così com’è equivale a un suicidio collettivo” (p. 159).
“Questa visione della politica come avventura morale ha avuto anche la conseguenza di creare una sempre maggiore dissociazione tra la sfera pubblica della performance politica e l’ambito della governance reale, che è ormai controllata da istituzioni per lo più invisibili guidate da imperativi suoi propri” (ivi).
A dimostrazione è riportato un aneddoto: prima della guerra in Iraq, nel 2003, si è svolta a Manhattan, e in altre 600 città in 60 paesi del mondo la più grande manifestazione di dissenso della storia: vi parteciparono decine di milioni di persone. La guerra fu scatenata ugualmente.
“I paesi occidentali sono ormai per molti versi ‘spazi post-politici’ gestiti da apparati di vario tipo. Per molte persone ciò crea un angosciante senso di smarrimento che si manifesta in un desiderio di una vera democrazia partecipativa. […] Il senso di impotenza che ne deriva e la sempre maggiore ingerenza del mercato hanno prodotto anche […] forme nichiliste di estremismo che ricorrono a una violenza spettacolarizzata” (cap. 2).
La commistione tra politica e morale, definire cioè il cambiamento climatico una questione morale – ovvero di comportamenti individuali, come si sente affermare sempre più spesso: “dov’eri tu quando…” – finirà per spostare il problema sui comportamenti individuali, mentre è palese che le emergenze climatiche sono di dimensione tale da essere affrontabili solo con decisioni collettive. Pensare in termini di moralità individuale “significa abbracciare le premesse del neoliberismo” (cap. 3).
I paesi di lingua inglese – dalla Gran Bretagna alle antiche colonie di matrice anglosassone, Stati Uniti compresi, ovvero quel mondo che con un termine recente si definisce “Anglosfera” – sono l’ambito culturale che ha prodotto la maggior parte degli studi ambientali e agguerritissimi gruppi di attivisti climatici. Ma lo scenario in questi paesi si tende tra due polarità: un diffuso negazionismo e un vigoroso attivismo, trasformando la questione climatica in un problema identitario: i negoziati sul clima diventano, secondo gli Stati Uniti, “una minaccia al nostro stile di vita”; già Reagan definiva la riduzione dell’uso del petrolio “un attacco a ciò che significa essere americani”. Questa autodefinizione identitaria rispecchia il grande successo che l’ideologia liberista ha avuto nell’Anglosfera negli ultimi due secoli. Il negazionismo della crisi ambientale e climatica è un riflesso del terrore di veder scosse le basi stesse della loro visione della vita. Si è creato insomma un incanto potente come ogni altra mitologia.
Ben altro approccio hanno invece gli apparati militari, che dedicano un’attenzione strategica al cambiamento climatico. Investimenti giganteschi sono stati stanziati dalle forze armate per ricerche e iniziative sui combustibili rinnovabili. Ma se si pensa alla previsione generalizzata di movimenti sociali estremi in termini di carestie, crisi energetiche, migrazioni di massa, sommosse e vandalismi, si deve concludere che le forze armate stanno all’erta per evitare o reprimere forti spinte destabilizzanti per gli stati: il che non è affatto sorprendente (cap. 4).
Il saggio si avvia alla conclusione: il cap. 5 analizza le conseguenze destabilizzanti delle emigrazioni climatiche: punto di vista che stenta a farsi consapevolezza comune, sopraffatto per ora da considerazioni umanitarie o economiche o culturali, conseguenza che Ghosh contribuisce a mettere in primo piano.
L’approccio “malthusiano” delle nazioni coloniali è stato fin dall’Ottocento prassi comune: il tabù dominante è stata la sacralità del libero mercato, e quindi il mantenimento dello status quo, sempre prevalente sulla salvezza della vita umana. La redistribuzione del potere e della ricchezza mondiale imposta dalla “giustizia climatica” terrorizza i paesi dominanti, che affidano sempre più alle forze armate il compito di tenere a bada queste tendenze in ogni ambito. È la strategia della “scialuppa armata” enunciata dal giornalista e studioso americano Christian Parenti: i paesi dominanti cercano di salvare la loro posizione allestendo difese del tutto inadeguate che agiscono sugli effetti e non sulle cause (una “scialuppa” appunto), ma a ogni buon conto, non confidando sulla loro efficacia, la muniscono di armi.
Pertanto attribuire al capitalismo la responsabilità di tutta questa crisi è limitativo: bisogna includere tra i fattori decisivi anche l’impero, richiamando così la tesi iniziale esposta nel cap. 2.1 della Storia. (cap. 6)
Ghosh non si sottrae alla discussione di alcuni fattori che possono rivelarsi realistici, per quanto altrettanto cinici della “scialuppa armata”. Per esempio gli abitanti dei paesi sviluppati si rivelano molto più fragili dei paesi poveri, che hanno una soglia di sopportazione molto più alta. I ricchi hanno molto più da perdere che i poveri. Due esempi: i danni di un black-out negli USA provocano gravi difficoltà, mentre nei paesi del sud globale inconvenienti del genere sono molto più frequenti e tutti sono abituati ad arrangiarsi. Le ondate di calore estremo hanno provocato molti più morti in Europa e in Russia che nell’Asia meridionale in cui pure sono stati raggiunti i 72 gradi centigradi.
Questo forse potrebbe dare al Sud maggiore forza contrattuale, ma “sarebbe difficile convincere i poveri a fare sacrifici solo per dar modo ai ricchi di continuare a godersi i frutti della propria ricchezza”. Gli “odierni negoziati somigliano a un gioco d’azzardo ad alto rischio, in cui la carta che prende tutto è la catastrofe” (cap. 7).
4. Il 2015 è stato un annus horribilis: il cambiamento climatico è stato evocato costantemente su tutti i mezzi di comunicazione, nessun ambito ne è stato escluso, salvo le arti e la narrativa. Due importanti pubblicazioni hanno fatto eccezione: l’enciclica Laudato si’ del papa, e l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico. Sono due “testi” (Ghosh tiene a sottolineare questa loro natura di opera di scrittura minuziosa sul piano letterario e anche editoriale) molto diversi, che hanno tuttavia un aspetto in comune: entrambi “danno per assodati i risultati delle ricerche climatologiche”, mettendo una pietra sopra a ogni pretesa di dignità scientifica del negazionismo. È una vittoria della climatologia. Ma per altri versi i due testi si differenziano radicalmente: l’enciclica è molto più concreta e puntuale dell’accordo, complesso e stilizzato. Di quest’ultimo Ghosh fa una analisi che ne mostra la vacuità addirittura comica, nella sua composizione di un “vertiginoso virtuosismo”: riferisce per esempio di un unico periodo di migliaia di parole separate da innumerevoli virgole, punti e virgole e due punti, che si estende per ben 15 pagine. L’enciclica al contrario è notevole per la sua sobria chiarezza; dal confronto esce vittoriosa non solo per il desiderio di trasparenza contrapposto a una intenzione di opportunistica opacità dell’Accordo, ma anche e soprattutto per le sue prese di posizione, come quella estremamente decisa contro l’idea di “una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia”. Nell’Accordo di Parigi non c’è traccia di critica verso il paradigma della crescita perpetua, che è “gelosamente custodito nel cuore del testo”. L’analisi continua impietosa, riscontrando nell’Accordo “riservatezza e chiusura […], linguaggio usato come strumento di dissimulazione e ritegno”, rivolto più al “ceto dei burocrati di alto livello lontani e isolati dalla moltitudine degli esclusi”. La retorica dell’Accordo rivela il suo intento, già in parte raggiunto, di “creare un’ulteriore frontiera neoliberale dove le grandi aziende, gli imprenditori e i funzionari pubblici potranno unire le forze per arricchirsi a vicenda”.
Tra l’enciclica e l’Accordo si apre anche un altro abisso. L’enciclica infatti respinge la concezione per cui la “povertà” è una condizione “in sé” e non dipende invece da politiche che producono disuguaglianze sociali; la povertà è sempre coniugata alla “giustizia”, tanto più quando la situazione climatica planetaria porta in primo piano lo sfruttamento coloniale e neocoloniale delle risorse e la diffusione mondiale dei fattori inquinanti. Ghosh sviluppa il confronto tra i due testi proprio per indicare la necessità di unificare l’approccio sociale e quello ambientale, come imporrebbe l’unicità del problema.
Secondo Ghosh il concetto stesso di “giustizia” è estraneo alle politiche dominanti, il che è differente dalla pratica delle ingiustizie che possono essere di diverse forme e intensità, e sviluppate apertamente o mascherate da atteggiamenti di mitigazione o di filantropia o ancora di redistribuzione ai fini di stabilizzazione temporanea degli equilibri di potere (vecchio liberismo).
La politica dominante rifiuta con ancora più determinazione l’idea di “risarcimento” perché significherebbe ammettere di aver provocato un danno storico nei riguardi dei paesi coloniali (“l’impero”), i più danneggiati dal cambiamento climatico. L’Accordo invece avalla le posizioni neoliberiste: nessuna responsabilità, caso mai forme di “filantropia” per attenuare i danni. Ciascun uomo è libero, padrone del proprio destino. Sullo sfondo l’idea che “l’uomo è imprenditore di sé stesso”.
Questa sottolineatura è interessante, anche perché – così a me sembra – individua un forte tentativo di discontinuità nella dottrina sociale della Chiesa, o almeno nella sua vulgata. Il fondamento ideologico delle dottrine sociali della Chiesa cattolica sta nella “carità” come principio cosmogonico (“l’amor che muove il sole e l’altre stelle”, “per l’amor di Dio!”). Nella storia la traduzione della carità in precetto morale è stato un fattore di divisione profonda nella chiesa: Bergoglio ha scelto la sponda francescana, come constata anche Ghosh. La svolta consisterebbe nel sostituire l’affermazione che “i poveri li avete sempre con voi” (Marco, 14, 1-11) con il comandamento di agire contro l’ingiustizia e la povertà indicandone esplicitamente i responsabili. Non sarebbe una svolta da poco.
Nella Laudato si’ è limpidamente indicato il discrimine fondamentale che colloca i due documenti in campi contrapposti: l’idea che “l’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. […] Egli è spirito e volontà, ma anche natura”.
Il rifiuto di questa consapevolezza porta Ghosh a rispondere alla sua domanda iniziale, sul perché i cambiamenti climatici trovano così poco spazio nelle arti e nella letteratura contemporanea: la risposta è che l’idea della illimitatezza della libertà umana è anche ciò che “impedisce loro di misurarsi con le realtà del tempo in cui viviamo” (cap. 8).
Il saggio si conclude con il riconoscimento di alcuni segnali positivi, tra cui il principale è il sempre maggiore coinvolgimento di grandi gruppi religiosi (posizione notevole per la laicità delle motivazioni). È chiaro che le istituzioni politiche e gli stati-nazione non sono in grado di affrontare la crisi climatica, se non altro perché non c’è il tempo necessario. La mobilitazione di forze popolari laiche richiede anni o decenni per costituirsi, anche per il contrasto delle forze di sicurezza. Servono organizzazioni di massa già esistenti in grado di mobilitare molte persone, e queste sono quelle religiose, capaci si pensare a cambiamenti non lineari, a responsabilità intergenerazionali, all’accettazione di limiti e vincoli proporzionati alla crisi (cap. 9).
In altre parole: che Dio ce la mandi buona.
Nota. Amitav Ghosh è stato ospite del Festival della rivista “Internazionale”, a Ferrara, nel 2017, dove ha parlato del suo libro: lo si può ascoltare in questa intervista filmata. Suggerisco comunque la lettura diretta del suo saggio per la qualità delle sue argomentazioni, per la ricchezza della sua documentazione e per la gradevolezza della sua prosa.
Il libro è uscito nel 2016; in Italia è uscito l’anno dopo, per Neri Pozza, e ha avuto due altre edizioni con il marchio BEAT nel 2019 e 2020.