a cura della redazione di storiamestre.it
18 marzo 1871-18 marzo 2021. Per il centocinquantesimo anniversario dell’inizio della Comune di Parigi, riprendiamo due commenti apparsi a caldo – compatibilmente con il tempo che ci voleva perché le notizie circolassero – sul quotidiano della Scapigliatura milanese “Il Gazzettino Rosa” il 21 e 22 marzo 1871. Un esempio di prosa rivoluzionaria ottocentesca, pensando al futuro che non è stato e a come potrebbero tradursi oggi quelle parole, quelle idee, quelle aspettative per un avvenire che fatichiamo a immaginare.
I primi dispacci su quanto stava accadendo in Francia erano comparsi sul “Gazzettino Rosa” il 20 marzo: le notizie erano ancora confuse, soprattutto arrivavano unicamente da fonti conservatrici o reazionarie. A Milano quegli eventi riattivavano l’anniversario delle cinque giornate del 1848, cominciate il 18 marzo, anche allora sulla scia delle notizie di una vittoriosa rivoluzione nella capitale francese. A distanza di ventitré anni dalle sconfitte del 1848, Parigi di nuovo insorgeva e dava il segnale: il pensiero correva alla rivoluzione, alla repubblica, al riscatto delle “grandi idee di progresso umanitario dalla polvere insanguinata in cui caddero le rivoluzioni assassinate dai despoti”. Il gruppo di giovani repubblicani, mazziniani e garibaldini riuniti a Milano, che si stava battendo contro l’esito conservatore del Risorgimento italiano, accoglieva la Comune come una promessa d’avvenire: gli “scapigliati predicatori della libertà eccessiva, demolitori pigmei del colosso sistema”, sorvegliati dalla polizia, bersagliati dalla censura, si identificavano ora con quei comunardi che avevano preso Parigi.
1. «Parigi è di nuovo il faro che rischiara la via»
Le notizie che da jeri giungono dalla Francia sono di una gravità eccezionale. Parigi ha scosso il giogo sotto cui volevano domarla il signor Thiers, i suoi ministri e l’Assemblea reazionaria di Bordeaux. Le truppe inviate contro gli insorti o hanno fraternizzato col popolo, o si sono rifiutate di battersi e si sciolsero dai ranghi.
Dal canto loro, Thiers e i suoi ministri, si ritrassero a Versailles, dopo avere, come Parti fuggenti, lanciati alla Guardia Nazionale, all’esercito ed ai cittadini, una serqua di proclami, redatti colla solita fraseologia dei governi dispotici, odiati e prossimi a cadere, nei quali non si risparmia alcun vitupero agli uomini della rivoluzione e si tira fuori, per spaventare la paurosa borghesia e la piccola proprietà, quell’arnese da frusto che è lo spettro del Comunismo.
Noi non possiamo naturalmente giudicare con piena cognizione di causa il carattere del movimento parigino, perché le notizie che abbiamo sono tutte della fonte avversaria. Tuttavia procedendo per induzione logica, dobbiamo inferirne che è la democrazia francese la quale per un istante battuta dalla mostruosa alleanza dei clericali legittimisti, orleanisti e bonapartisti riprende ora il sopravvento, rivendica i suoi diritti e s’accinge a restaurare le sorti della nazione basandone l’assetto sui suoi grandi e immortali principj. E perciò salutiamo con profonda gioia la coraggiosa e nobilissima iniziativa della generosa Parigi.
Ma avrà quest’iniziativa un esito felice? Non saranno gli eroici conati della capitale paralizzati dall’inerzia, dall’indifferenza del resto della Francia, od anche sopraffatti dalla reazione delle plebi rurali, capitanata dai più perniciosi nemici della Francia, fautori delle cadute dinastie imperiali e reali? Noi crediamo che no.
A Parigi batte il cuore della Francia. Lo ha dimostrato la stessa Assemblea che ratificò gli ignominiosi preliminari di pace, non avendo il coraggio di presentarsele [sic] e decretando il proprio trasferimento da Bordeaux a Versailles. E ce n’era ben d’onde! Parigi non avrebbe tollerata un giorno un’Assemblea che sì turpemente disconobbe i servigi resi alla Francia da Garibaldi e l’insultò villanamente; un’Assemblea che trasse nel fango l’onore della nazione; un’assemblea che si prepara a ricacciare la patria nella servitù; un’Assemblea che si professa repubblicana, perché nessuna delle diverse fazioni che la compongono si sente abbastanza forte per imporre alle altre il proprio candidato al trono, e briga e si destreggia per acquistare la necessaria prevalenza; un’Assemblea i cui istinti liberticidi si manifestarono fin dal suo primo adunarsi.
E d’altronde Parigi non è sola. Lione, Marsiglia, Bordeaux e tutti i più importanti centri francesi sono con essa; già prima di Parigi si erano pronunciati per un governo strettamente democratico e se non abbatterono prima il così detto Governo della Difesa Nazionale, di cui si notavano le tendenze moderate, si fu per riguardo a Parigi che si trovava nelle spire dell’assedio prussiano.
Non appena un Governo sinceramente democratico sarà istaurato a Parigi, sotto gli auspici di nomi autorevoli e ben noti pei loro principj repubblicani, e farà udire la sua voce alla Francia, tutta la Francia illuminata si solleverà contro coloro che ora vogliono portarsela in sella e guidare i freni; tutta la Francia obbedirà ai cenni di Parigi e concorrerà a stabilire il nuovo ordinamento della nazione. E in tale opinione ci rafferma un dispaccio che ci giunge mentre scriviamo queste linee. Il generale Binoy colla truppa e la gendarmeria ha lasciato Parigi; un telegramma del sindaco di Versailles, risum teneatis amici!, eccita la popolazione ad agevolare l’installamento del governo. E contemporaneamente si annunzia che il governo ha lasciato nella capitale un segretario con pieni poteri per accordare tutte quelle concessioni che fosse per chiedere il Comitato centrale della rivoluzione.
Evidentemente il signor Thiers e i suoi accoliti sentono mancarsi il terreno e vogliono tentare una conciliazione, all’interno di disarmare Parigi, riservandosi di ribadirne i ceppi quando avranno ben avviati i loro intrighi. Ma Parigi non cadrà nel volgare tranello, come – mercé Carlo Cattaneo – non cadde Milano in quello tesogli da Radetsky nelle cinque giornate, delle quali ricorre appunto l’anniversario.
Parigi resisterà, noi lo speriamo; sventerà le mene della vecchia volpe orleanista, compirà la grande opera della emancipazione della Francia, dai preti e dai reazionarj d’ogni colore e d’ogni partito e fonderà il reggimento democratico, modello ed esempio per le altre nazioni d’Europa, oppresse dai privilegi delle caste che sostengono il monarcato.
Né crediamo che le armi prussiane vogliano opporsi a ciò; prima perché la pace conchiusa è troppo vantaggiosa per loro; poi perché andrebbero ad impegnarsi in una lotta di popolo d’esito troppo dubbio, di nessun profitto e che solleverebbe contr’essi l’opinione del mondo civile e le stesse popolazioni tedesche, ormai stanche di guerra.
Possano codeste nostre fauste previsioni avverarsi; e la Francia, che sembrava caduta nell’ultimo stato di prostrazione, si rialzerà gigante e sarà ancora il faro che rischiarerà la via del progresso in Europa.
(B., La rivoluzione a Parigi, “Il Gazzettino Rosa”, Milano, 21 marzo 1871)
2. «Quella plebe è avida di libertà e di giustizia»
I servitori della monarchia erano troppo lieti di vedere la Francia nelle mani di Thiers; la repubblica cogli uomini che fecero la pace ignominiosa non li metteva in apprensione, e perciò appunto non avevano ritegno nel vilipendere il popolo francese, calpestando com’è loro costume e oltraggiando codardamente un infelice caduto. Ora essi insultano agli sforzi generosi del popolo di Parigi per sostituire al governo repubblicano di nome il governo repubblicano di fatto, per togliere dalle mani insidiose degli uomini che firmarono la capitolazione, il potere acquistato a prezzo dell’onore della Francia.
«Non è una rivoluzione, ma una rivolta di plebe, la quale non sa neppure quel che si voglia». Così si esprime un giornale della consorteria, il Corriere di Milano diretto da quel figuro che si chiama Treves1
Quella plebe che si ribella al tradimento, sa benissimo quel che si vuole e lo sapeva anche quando stretta Parigi d’assedio spingeva il governo ad una vigorosa azione militare, pronta a morire piuttosto che scendere a patti. In quella plebe scorre il sangue nobile della Francia, e la disperazione a cui l’hanno ridotta i falsi repubblicani che finora per carità di patria dovettero obbedire, è non solo logica, ma legittima.
Anche in Francia come qui la peste del giornalismo venduto, ha ingannato ed inganna continuamente l’opinione. Stiamo in guardia contro codesti detrattori di mestiere, e facciamo voti che i nobili figli della Francia riescano a sollevarla dal disonore col soffio potente della libertà.
Noi abbiamo fede nei destini della democrazia e guardiamo con sicurezza all’avvenire. Voi che andate gridando ai quattro venti come non ci sia uomo di buon senso che sogni un mutamento della forma di governo, che tutti si avvinghiano alla monarchia che è l’ordine, agli uomini del governo che sono la sapienza, come ad ancora di salvezza contro l’anarchia e lo sfacelo sociale; voi che strombazzare le istituzioni che ci reggono aver posto salde radici nella nostra terra, che l’esercito è il baluardo inespugnabile delle vostre libertà, che dall’universale si sorride di compassione e si tengono per pazzi, o fanciulli, o peggio questi scapigliati predicatori della libertà eccessiva, questi demolitori pigmei del colosso sistema; voi che affettate tanta sicurezza e tranquillità, perché non lasciate che si sfiatino a loro posta codesti giornalacci che incontrano il disprezzo del pubblico; perché di tratto in tratto vi prende lo spavento di cospirazioni che, stando a quanto a ciò che voi dite, dovrebbero essere impossibili; perché tanto lusso d’armi, di polizia e di spie; perché tanta gente pagata a dir bene di quello che secondo voi è già ottimo; perché si inventano o si comprano gli applausi al re ed ai principi; perché nell’esercito si imprigionano, si degradano e si mandano alle compagnie di discipline i poveri soldati per un semplice sospetto di repubblicanismo e nelle caserme, nei reggimenti v’è una polizia organizzata e i colonnelli hanno le spese segrete di cui rendono conto solo al ministro?
Da una parte gli uomini che raccolsero le grandi idee di progresso umanitario dalla polvere insanguinata in cui caddero le rivoluzioni assassinate dai despoti, e se ne fecero una religione; i giovani temprati alle battaglie della libertà, allevati alla scuola dei sublimi ardimenti del valore e del genio personificati da quella grande figura dell’epoca che è Garibaldi, i quali non vogliono aver cimentata la vita, e sofferto durissime fatiche e lasciati tanti amici sepolti nelle obliate fosse di campi lontani per quella spudorata ironia che si chiama libertà costituzionale; le anime caste ereditiere delle severe virtù che ebbero culla in Italia, e la fecero un tempo ammirata; gli incorruttibili che sdegnano i facili onori e le lodi insidiose, e vogliono inaugurato il regno del lavoro fecondo di virtù cittadine e di forza; i cuori ardenti che il nostro cielo ispira ai coraggiosi concetti del vero e del grande, rivendicatori della dignità che procede a fronte alta e rovescia ogni ostacolo.
Dall’altra parte i giullari della corte, sacerdoti delle pompe, a cui talenta dall’alto gozzovigliando riguardare con ischerno le plebi abbarbagliate e plaudenti; le vanitose nullità cresciute all’ombra dei troni, paladini da medio evo armati di fuscello in luogo di spada, colle tasche piene di immagini di santi da distribuire al popolo, consiglieri della paura, rotti al tradimento e all’inganno, maestri nell’arte di ubbidire al forte e schiacciar il debole; le anime volgari e vigliacche, il cui dio è il ventre, che non hanno neppure il coraggio del male, e nel lezzo del loro egoismo gettano il disprezzo su tutto ciò che è nobile e grande; le coscienze vendute, i parassiti che non hanno mai fatto nulla per la patria, e si atteggiano a padri coscritti, sentenziando di politica, di arti di governo, di autorità.
In mezzo stanno le masse popolari stanche delle spogliazioni, avide di libertà e di giustizia.
Di chi è l’avvenire?
(Burbero, Di chi l’avvenire?, “Il Gazzettino Rosa”, 22 marzo 1871)
Nota. Presentiamo i due articoli sotto titoli redazionali. Uscirono sul “Gazzettino Rosa” firmati, rispettivamente, da B. e da Burbero. Non è possibile sciogliere con sicurezza quella B.; fosse stata una ulteriore sigla per Burbero? Quest’ultimo era lo pseudonimo di Vincenzo Pezza (1841-1873) che proprio in seguito agli avvenimenti della Comune avrebbe maturato una rottura con Mazzini e gli ambienti mazziniani, diventando un militante dell’Internazionale. Sarebbe morto giovane, di tubercolosi; da qualche anno, si possono leggere alcune note biografiche sul suo conto anche nel Dizionario Biografico degli Italiani.
Vale comunque la pena ricordare un’altra B. del “Gazzettino Rosa”, quella di Achille Bizzoni (1841-1904), a lungo direttore del giornale, che spesso firmava con lo pseudonimo Fortunio. Proprio il 22 marzo 1871 il giornale lo riaccoglieva sulle sue pagine dopo alcuni mesi di assenza: Bizzoni era stato a combattere in Francia, tra i volontari garibaldini che erano accorsi in difesa della neonata Repubblica del 4 settembre 1870 (aveva già seguito Garibaldi nel 1866 e nel 1867). La voce del Dizionario biografico degli italiani a lui dedicata, firmata da Raffaele Colapietra, risale al 1968.
L’immagine tra i due articoli – una foto presa nel 1871 dal fotografo Franck (1816-1906) – si riferisce a un episodio più tardo, ovvero l’abbattimento della colonna napoleonica di place Vendôme, deciso in aprile e messo in atto il 16 maggio 1871; la fonte è wikipedia; su questa vicenda rimandiamo a: La Comune antimilitarista, di Enrico Zanette.
Per la ricostruzione degli eventi del 18 marzo, i loro antecedenti, il loro contesto, ci permettiamo di rimandare ad altri contributi che abbiamo pubblicato nel corso degli anni, intorno alla Comune di Parigi e al 18 marzo. In particolare:
– per la situazione a Parigi: La festa della Commune. 18-28 marzo 1871, tre testi di Jules Vallès, a cura di Filippo Benfante;
– sul “Gazzettino Rosa”, la ricezione della Comune in Italia e l’adesione all’Internazionale, abbandonando la tradizione mazziniana e garibaldina: “Siamo noi, questi refrattari”. La Comune, Jules Vallès e Felice Cameroni, di Filippo Benfante;
– sugli anniversari del 18 marzo 1848 e 1871 (e su quello mazziniano del 17 marzo, sovrapposto a quello ): Anniversari di chi?, di Piero Brunello; Godiamoci il 18 marzo. Omaggio alla Comune di Parigi, di Enrico Zanette; a cui ora si aggiunge anche: Perché a Venezia non si ricorda il 18 marzo. Un discorso all’Avamposto di Rialto, di Piero Brunello.
Concludiamo ricordando Innocenzo Cervelli (1942-2017), che nel 2015 ha pubblicato un libro importante: Le origini delle Comune di Parigi (Viella, Roma 2015). Su questo sito ne hanno dato notizia Filippo Benfante e Enrico Zanette.
- Emilio Treves (1834-1916), giornalista, imprenditore ed editore: nel 1872 avrebbe associato suo fratello Giuseppe (1838-1904) all’impresa che prese il nome “Fratelli Treves”. Ndr [↩]