di Andrea Lanza
Il nostro amico e socio Andrea Lanza parte da una statua imbrattata – vista durante una passeggiata nel centro di Toronto dove vive – per riflettere sul rapporto tra memoria e storiografia, uso e ruolo sociale della storiografia, rapporti tra forme diverse di confronto con il passato. Sapendo che la vita è una cosa, la sua memoria e la sua storia sono un’altra.
Con il suo articolo, Lanza riprende da un altro punto di vista la discussione sulla public history avviata su storiamestre.it quasi un anno fa da Piero Brunello e Pietro Di Paola.
Egerton Ryerson con le mani macchiate di rosso
In una delle mie passeggiate da lockdown nel centro di Toronto mi fermo davanti alla statua di un uomo dell’Ottocento che insegna tenendo un libro nella mano. Dietro di lui, su una sorta di capitello, sono appoggiati altri libri. È Egerton Ryerson (1803-1882), pastore metodista e, come si legge sul basamento, fondatore del sistema scolastico dell’Ontario. Al suo impegno politico progressista e alla sua opera legislativa si deve infatti l’istituzione delle scuole pubbliche e gratuite nella maggiore delle province anglofone del Canada. Da quest’estate, la statua è coperta di vernice verdognola, mentre le mani sono sporche di rosso.
Alla scritta scolpita nel basamento ne sono state sovrapposte altre: “Land back” e “Apartheid”. Il sistema scolastico organizzato da Ryerson includeva anche le “residential schools” che hanno svolto per quasi un secolo e mezzo il ruolo di strumenti di integrazione culturale coatta dei bambini Inuit e delle Prime Nazioni. Hanno anche favorito e coperto un numero impressionante di violenze fisiche e psicologiche e di abusi sessuali1.
La statua è finita al centro di aspre discussioni. Alcuni militanti sono stati denunciati per le azioni di vandalismo. L’università, proprietaria del monumento, ha risposto a una petizione che richiedeva la sua rimozione istituendo una commissione per studiare i rapporti fra Ryerson, i popoli indigeni e i famigerati convitti. Nel frattempo la statua non è stata pulita.
Qualche mese fa, commentando in un tweet la foto di una statua di Colombo sporcata di rosso, e condividendo sentimenti e preoccupazioni diffuse2, il filologo italiano Lorenzo Tomasin lamentava la mancanza di “un rapporto adulto con la storia”. Rapporto adulto con la storia: è quest’idea che vorrei tenere sullo sfondo delle note che seguono.
Nuovi bisogni di storia, nuovi usi della storia
Nello sfregio o nell’abbattimento dei monumenti così come nella difesa delle statue, e ancora prima nella loro edificazione, si condensano, oltre che rapporti di forza, bisogni opposti della società che coinvolgono il nostro rapporto con il passato. Almeno su una parte di questi ultimi può essere utile interrogarsi.
Un bisogno è quello legato al processo di legittimazione delle identità collettive (che sono sempre anche identità individuali, costitutive del vissuto personale) che spesso passa attraverso il riferimento ai torti subiti. La figura sociale della vittima cerca la sua consacrazione nella scienza storica. Ciò evidentemente rientra in un processo circolare, perché a sua volta la scienza storica è ripensata, ed è ripensata in modo inedito. Allo stesso tempo la progressiva presa in considerazione dell’eterogeneità delle popolazioni occidentali ha definitivamente imposto alla storia di superare il paradigma universalista. Le storie si differenziano perché i pubblici cui si riferiscono e che coinvolgono sono eterogenei.
Questi nuovi bisogni di storia nelle nostre società ne incrociano un altro essenziale: quello degli studi universitari di fuggire alla propria tendenziale autoreferenzialità. È a questo incrocio che si colloca una recente disciplina accademica che, anche in Italia, ha preferito definirsi con l’espressione inglese di public history. Sebbene in molteplici casi la pratica della public history si riduca alla classica divulgazione scientifica, il suo aspetto più interessante è quello di voler sperimentare una modalità di ricerca nuova attraverso un ruolo attivo del “pubblico”, delle persone.
Con questo fine, quale ruolo è chiamato a svolgere lo storico? Fra i termini utilizzati nelle autopresentazioni della public history, due mi sembrano particolarmente interessanti: compagno di strada e mediatore3. Entrambi i termini hanno avuto da sempre un loro ruolo nell’attività storiografica, ma oggi tendono ad assumere un significato diverso.
Il compagno di strada e il mediatore: come intenderli?
La prima formula, “compagno di strada”, rimanda a una collaborazione in quella che è una tradizione ormai lunga, di cui evidenzierei almeno due fasi precedenti: quella caratterizzata dalla storia dal basso o delle contro-storie dei vinti e quella della riscoperta della storia locale. Questa seconda rispondeva alle esigenze di una società che faceva i conti con la cosiddetta fine delle ideologie. La storia dal basso era invece la risposta a una società caratterizzata da una conflittualità diffusa, dalla presa di parola di ceti e gruppi sociali la cui voce era stata fino ad allora se non esclusa, almeno messa in sordina. Storici e storiche scoprirono nuovi campi di studio e nuove metodologie per esplorarli: l’attenzione fu posta sulle tracce di vite, esperienze, pratiche, oggetti, discorsi fino allora trascurati. La vita delle donne, le esperienze del lavoro, la socialità quotidiana, le sofferenze degli esclusi o dei reclusi, le loro battaglie e le loro sconfitte divennero argomento di studio e d’inchiesta storica. Non di rado queste storie alternative a quella dei potenti, queste storie dal basso, erano scritte in dialogo con chi condizioni simili le viveva nel presente.
Si trattava di una public history ante-litteram? No, la sintonia nasceva dal comune sentimento di partecipare a una medesima lotta. Questa dimensione militante è oggi sempre meno presente, al punto che si tende a non coglierne neppure uno degli elementi pertanto fondamentali: lo storico scriveva e parlava a persone per cui la conoscenza del passato era interconnessa con la volontà di comprensione della società e con l’impegno nel cambiarla nel presente. In altri termini, la militanza e le ideologie, intese come tentativi di spiegazione sistematica della realtà, da una parte stimolavano l’interesse nella storia, dall’altra fornivano una base per relazionarsi al senso che il passato ha nel nostro presente, nelle nostre identità e nel nostro pensare il futuro.
La seconda figura possibile di storico è quella del mediatore, che naturalmente può svolgere diverse mediazioni, complementari o alternative fra loro. Innanzitutto, la mediazione fra narrazioni del passato diverse che si riflettono in conflittualità latenti o manifeste nel presente, in secondo luogo la mediazione fra diverse forme di sapere sul passato.
Il primo tipo di mediazione riflette oggi la difficoltà di comprendere il conflitto e la divisione e si alimenta del mito della pacificazione. Le identità collettive, nelle loro diverse declinazioni (politiche, sociali, culturali, religiose, sportive, ecc.) si nutrono di memorie del passato proprie. L’interazione fra queste e la storia è non solo auspicabile, ma anche necessaria. Questa interazione deve però darsi nel gioco di una duplice molteplicità: da una parte le memorie non possono che essere diverse e tenderanno sempre a dividersi, dall’altra la storiografia continuerà anch’essa a dividersi, riproducendo parzialmente le divisioni della società o applicando metodologie differenti e divergenti. Lungi dallo svolgere il ruolo del mediatore che consacra in virtù della propria metodologia scientifica la narrazione storica (resa omogenea) di una comunità (pretesa omogenea), le storiche e gli storici non possono che mettere in discussione, da angoli diversi, contribuendo quindi a proprio modo e col proprio linguaggio a quel confronto, che permane irrisolvibile, fra le memorie, fra le voci e fra le fonti.
Basti pensare alle diverse memorie della Resistenza che hanno alimentato la democrazia italiana, e al ruolo che ha giocato la storiografia nell’accompagnarle e nel punzecchiarle o nel cercare di imporre nuove categorie. Era compito della storiografia, o di una parte di essa, giungere a indicare l’idea di guerra civile, tuttavia non poteva essere la storiografia a permettere un’elaborazione collettiva in grado di pensare la Resistenza nella forma di guerra civile come mito fondativo della Repubblica4.
Il secondo tipo di mediazione, quella fra tipologie di sapere del passato, è altrettanto delicata. Questo tipo di mediazione è legato all’ambizione della public history ad andare oltre la buona divulgazione o la valorizzazione di gruppi e individui che, avendo studiato in percorsi istituzionali o come autodidatti, producono lavori storiografici fuori dal contesto universitario. L’ambizione dichiarata è quella di lavorare con le comunità, con il pubblico. Non si tratta allora solo di inventare nuove forme per diffondere il sapere storico (la divulgazione), né di valorizzare la produzione diffusa di materiali storici (storia erudita e locale), né di trarre linfa dai saperi diffusi (storia orale o, magari anche osservazione partecipante per studiare le memorie collettive e individuali), ma di accompagnare le comunità locali o i gruppi sociali a elaborare la propria storia. La sfida mi sembra lodevole e stimolante, a condizione che non alimenti un’ulteriore ambizione: quella di fondere il piano della storia e il piano della memoria che, invece, non dovrebbero mai essere confusi. A condizione, cioè, di non credere che nella società ideale il solo “rapporto adulto” con il passato sia quello della storiografia.
Quale rapporto adulto con il passato?
La storiografia, intesa come scienza storica, come sapere sul passato che riflette sulla propria metodologia, è definita innanzitutto per un processo di oggettivazione, di definizione dell’oggetto di studio come altro da sé. L’oggettivazione non implica l’oggettività: sull’oggetto di studio lo storico proietta i propri interessi e valori, ma presume o finge che il tempo storico sia segmentabile, che le dimensioni della realtà siano separabili, e si concentra su un insieme definito di fatti e implicazioni, limitati cronologicamente. Procede esattamente come il fisico che presume o finge che, di una mela, possa considerarne unicamente la massa, e del gioco infinito di attrazioni in cui è presa, unicamente la più determinante, la gravità terrestre. Le conoscenze prodotte da questa attività di oggettivazione storica possono essere appassionanti o curiose, a volte noiose, talvolta anche in qualche modo utili. Del vivere umano e delle trasformazioni del vivere in società, si evidenziano fattori strutturali, tendenze ricorrenti, irriducibili differenze.
Questo sapere oggettivante è uno dei saperi che la nostra società ha del passato, è uno dei modi di rapportarsi al passato. E dobbiamo essere consapevoli che non è neppure il più rilevante. L’esempio già evocato della Resistenza è eloquente. Come le immagini (diverse, complementari, opposte, in perpetua tensione e conflitto) della Resistenza hanno dato senso al presente? E come allo stesso tempo quelle immagini hanno ripreso senso nel presente? Nel descrivere come la società italiana si sia rapportata alla Resistenza, la storia della storiografia non è che un capitolo e, probabilmente, non il primo da scrivere. Si sa quanto importante sia stata infatti la narrativa a ricostruire nella coscienza civile collettiva in Italia e in Europa il periodo della guerra in tutti i suoi aspetti. Restando sempre nell’ambito del nostro esempio, la memoria o le memorie della Resistenza si sono nutrite anche delle esperienze delle lotte degli anni Cinquanta, non senza tensioni e contraddizioni nelle rappresentazioni della discontinuità e della continuità, nelle celebrazioni della Repubblica nata dalla Resistenza e negli scontri con la celere di Scelba. Si sono plasmate nell’antifascismo della rivolta di Genova e dei morti di Reggio Emilia. Si sono ridefinite con le nuove generazioni, le stragi di Stato e i venti golpisti. Sono involute nei sogni sanguinari della lotta armata e nelle lotte contro di questa. Sono cambiate ulteriormente con i movimenti contro la corruzione, la potenza della mafia e la destra al governo. Quelli delle memorie collettive e individuali, sono saperi con temporalità diverse da quelle della scienza storica che pensa il tempo distinto e separabile. La Resistenza è (o è stata) un mito fondativo, con la temporalità, appunto, del mito.
La classe operaia ha vissuto nutrendosi della memoria di una propria continuità morale e politica. Si è parlato di “invenzioni del passato”: l’espressione è probabilmente fuorviante. Il punto è che queste “invenzioni” funzionano, e poi smettono di funzionare. L’operaio di Mirafiori si riconosceva nelle rappresentazioni di un fabbro ottocentesco; il biker di Foodora no, nonostante non sarebbe difficile trovare le molteplici analogie fra le loro condizioni.
Le temporalità diverse non si possono mediare. Il problema non è solo che la mediazione non può essere portata a termine se l’arbitro coincide con una delle due parti in conflitto. È anche che le diverse temporalità non possono confondersi. La questione è chiara se torniamo al nostro punto di partenza: le statue, il vandalismo e il “rapporto adulto con la storia”.
Vandalismo?
Soffermiamoci un momento sul termine “vandalismo”: la sua origine risale alla Rivoluzione francese quando fu coniato per designare in modo spregiativo quelle forme di censura, protesta e violenza che non si accontentavano di far cadere le teste di re e regine viventi, ma colpivano anche, in effigie, quelle dei tiranni del passato. La difesa delle statue allora era argomentata non in nome del rispetto per i morti, ma del valore storico-artistico delle opere. Quest’ultima è una formula solo in parte anacronistica, perché quella straordinaria proiezione nel futuro che fu la Rivoluzione francese, in cui da subito si oppose il vecchio mondo, l’Ancien Régime, al nuovo che stava iniziando, marcò anche un’accelerazione nel mutamento del rapporto al passato e al patrimonio che questo lascia in eredità. Alcuni iniziano a tacciare di “barbarie” la distruzione di ciò che, ai loro occhi, nel presente non ha più un valore celebrativo, ma unicamente un valore storico-artistico. Meno di un secolo più tardi, una tensione analoga si ripropone: la barbarie però è invocata per descrivere il militarismo e l’elogio della forza bruta di cui la colonna di Place Vendôme è inequivocabilmente simbolo. La Comune di Parigi ne decreta così la distruzione, come Enrico Zanette ha raccontato anni fa su storiamestre.it. L’accusa di vandalismo e barbarie fu poi rivolta a chi ne aveva voluto la distruzione. Ma è ancora, per esempio, contro la barbarie nazi-fascista che innumerevoli decorazioni del regime sono ridotte in briciole a colpi di scalpello, una prima volta la sera del 25 luglio 1943, poi di nuovo alla Liberazione. Alla fine del Novecento, in nome della democrazia, le statue dei piccoli padri del socialismo reale sono state abbattute, e con loro quelle di Marx e Engels. Così quelle di Saddam Hussein nel 2003, con le immagini televisive che rilanciavano la celebrazione del gesto iconoclasta a livello mondiale. Un paio di anni prima, in Afganistan, la dirigenza talebana aveva abbandonato la sua precedente posizione in difesa delle opere che precedevano l’islamizzazione, estendendo la lotta all’idolatria a ogni statua.
Barbarie o civiltà? Nella distruzione dei simboli, la questione riguarda il presente e il futuro: l’idea di civiltà definisce la barbarie che non merita memoria e i criteri per giudicarla (morali, politici, religiosi, estetici che siano).
Nel tweet che citavo all’inizio, implicitamente il rapporto adulto con i monumenti consisterebbe nel saperli guardare con la giusta distanza, ricollocando i personaggi rappresentati nel loro contesto, relativizzandone quindi quelle che ora, agli occhi di oggi, appaiono deprecabili colpe o imperdonabili compromissioni. Bisogna allora chiedersi chi non è più in grado di cogliere il senso di un monumento: chi lo contesta in nome di valori presenti o chi lo difende come un oggetto del passato? La risposta mi sembra univoca: la temporalità del monumento non è quella della statua da osservare in un museo, da mettere a distanza e contestualizzare; è quella della memoria che celebra uomini, donne o eventi del passato per onorarne nello spazio pubblico certi valori.
Se il fautore dell’istruzione pubblica e gratuita dell’Ontario, Egerton Ryerson, è coperto di vernice rossa, è per il ridefinirsi, oggi, dell’identità del Canada multiculturale. Come ogni ridefinizione d’identità, il processo non può che essere conflittuale e non può che investire la temporalità della memoria e gli irriducibilmente diversi significati attributi al passato condiviso. L’atto inaugurale della colonizzazione europea e la secolare integrazione culturale forzata sono inseparabili dal senso che oggi si vuole dare al multiculturalismo. Ryerson diviene il simbolo di un progresso prevaricatore ed eurocentrico. È infantile prendersela con un simbolo? Senza simboli non si dà società, non si dà politica. Tutte le azioni politiche sono intrinsecamente simboliche, fosse anche la presa della Bastiglia o del palazzo d’inverno.
Chi davvero abbatte i monumenti?
Tutto questo non significa che sia giusto distruggere le statue, né che lo storico non abbia nulla da dire. Significa che, nei corridoi delle istituzioni accademiche o nel confronto col pubblico, la funzione stessa dello storico è, suo malgrado, quella di abbattere i monumenti. Lo storico toglie la vita alle statue. Le riduce a oggetti inerti, i cui significati passati, debitamente contestualizzati, sono riassunti in corte etichette esplicative o in lunghi e articolati volumi. Questa musealizzazione dei simboli può, a volte, essere utile a dissimulare le divisioni, altre volte a permettere dialoghi e sintesi. Nei migliori dei casi, può contribuire a rendere più complesse le memorie collettive, e soprattutto a fornire strumenti utili al loro confrontarsi.
Le pagine di storiamestre.it, quasi dieci anni fa, ospitarono un confronto sul problema della conservazione e del restauro della simbologia fascista: quelle presenti nel Forte Mezzacapo a Mestre e quella sulla facciata di una casa nel paese di Sutrio nella Carnia; due casi fra loro molto diversi per tipi di restauro, di contesto e di co-testo5. L’esperienza diretta permetteva di cogliere le molteplici implicazioni di tutte le scelte che s’imponevano, da quelle più di principio a quelle più concrete: cosa ristrutturare e come tenere traccia di ogni stratificazione? Come riportare alla luce slogan e simboli del passato fascista e dell’alleanza con la Germania nazista? Come mostrare anche il passaggio di uno scalpello che a caldo aveva voluto distruggere gli emblemi dell’oppressore sconfitto? Come evitare la riabilitazione di una dittatura o anche la banalizzazione di frasi e nomi fino allora banditi? La messa a distanza propria della storiografia era lì chiamata a giocare il proprio ruolo nel contrastare due facce di un medesimo processo: da una parte la rimozione, dall’altra il riproporsi di quel passato rimosso senza essere elaborato. In un caso la scelta fu quella di porre nello spazio pubblico un luogo complesso e stratificato in cui la simbologia fascista e nazista, come la sua parziale cancellazione, era un elemento di una riflessione più larga su un luogo militare che cambiava di uso e di senso. Nell’altro caso, la scritta veniva riproposta nello spazio pubblico in un modo di fatto indistinguibile da quello originario. Entrambe le operazioni erano anche segni dei cambiamenti nella memoria degli italiani.
La memoria, che vive nell’esperienza del presente, deve potersi nutrire dei lavori storiografici e della loro messa a distanza, ma avrà altre temporalità. L’unico modo che lo storico ha per capirlo fino in fondo è di ammettere i limiti del proprio ruolo. Abbandonare l’illusione che quella messa a distanza e quella messa in contesto possano essere l’unica maniera adulta di rapportarsi al passato. Vestendosi a scienza ed esibendo i titoli accademici, il sapere storico si crede superiore e pensa di avere l’ultima parola; tuttavia, così come la vita precede ed eccede qualsiasi analisi o autoanalisi, così il senso stesso del lavoro degli e delle storiche segue e insegue eventi e memorie che non potranno mai interamente determinare, né interamente capire.
Nei tempi in cui viviamo, un monumento vandalizzato resta più vivo di una statua debitamente contestualizzata.
Ringraziamenti
La redazione di storiamestre.it discute sempre minuziosamente tutti gli articoli che pubblica; questa volta è toccato a me, che ne faccio parte, approfittare di letture ed editing, critiche e suggerimenti dei miei compagni Filippo Benfante, Piero Brunello e Enrico Zanette.
- Peraltro le denunce di questi abusi sono cominciate sin dall’inizio del XX secolo; si leggono informazioni in italiano in una voce di wikipedia. [↩]
- Si può leggere per esempio quanto ha scritto Alessandro Portelli sul “manifesto” nel giugno 2020, o gli articoli che Riccardo Venturi ha pubblicato sul sito doppiozero già nell’ottobre 2017, Furia iconoclasta parte prima e parte seconda, per poi riprendere l’argomento nel giugno scorso. [↩]
- Si veda per esempio l’introduzione di Serge Noiret, presidente dell’Associazione Italiana di Public History, al secondo congresso nazionale, disponibile su youtube. [↩]
- A tal proposito rimando al breve scambio di Giovanni Levi con Piero Brunello e Filippo Benfante pubblicato su storiamestre.it in occasione dell’anniversario del 20 settembre 1870 [↩]
- Oltre ai due articoli di Claudio Zanlorenzi e di Anna Di Qual, raggiungibili cliccando i link attivi nel testo, rimando all’intervento di Ruggero Zanin che li seguì. [↩]