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La salicornia rifiorirà a Fusina? Immagini dell’area della ex Sava (Porto Marghera, 2010)

06/01/2021

di Giovanna Bison

Condividiamo con le lettrici e i lettori del sito il regalo che ci ha fatto la nostra amica Giovanna Bison. Si parte, anche questa volta, da una tesi di laurea triennale in Discipline dell’Arte, della Musica, e dello Spettacolo discussa presso l’Università di Padova: un lavoro compiuto nel 2010 all’interno e nei dintorni della fabbrica abbandonata della ex Sava. Le immagini sono il frutto di una ricognizione cominciata tenendo presente la storia della documentazione fotografica relativa all’area industriale e i modelli dell’archeologia industriale, ma che a poco a poco ha cambiato di senso. Con una conclusione dal sapore leopardiano, in attesa di un nuovo sopralluogo – forse – a dieci anni di distanza.

Laurearsi al DAMS di Padova

Il lavoro che ho fatto per l’Università di Padova ha compiuto dieci anni. Allora mi proponevo una ricognizione fotografica all’interno della fabbrica abbandonata della ex Sava. 

L’esplorazione partiva da un approfondimento bibliografico sulle origini e sullo sviluppo di questa particolarissima zona industriale, con riferimento soprattutto a Fusina, ultima propaggine di Porto Marghera. Seguiva un’indagine, in ordine cronologico, sugli studi fotografici (uno su tutti l’archivio Giacomelli) che avevano compiuto lavori di reportage su queste realtà. Le mie foto dovevano scandire il disfacimento delle cattedrali ferrose, destinate a diventare archeologia industriale. 

A ogni passo, a ogni foto, il mio atteggiamento cominciò però a cambiare. 

La Sava a Fusina 

La Sava (Società Anonima Veneto Alluminio) cominciò negli anni Venti a produrre alluminio, richiestissimo dall’industria militare. Capannoni e forni di fusione crebbero, nonostante la sconfitta e i bombardamenti, fino al boom economico. Tra il 1964 e il 1968 si costruì a Fusina, a ridosso del Canale dei Petroli, un altro impianto destinato alla produzione di alluminio elettrolitico. La struttura più imponente era il laminatoio, lungo 600 metri, uno dei maggiori in Europa. Il successo che sembrava inarrestabile si arrestò invece a causa dei cambiamenti nel mercato mondiale dell’alluminio. La crisi culminò negli anni Ottanta e l’ultima colata avvenne il 12 settembre 1991. 

Proprio da questo paleontologico scheletro in metallo cominciai a fotografare. 

Archeologia

Se solitamente i luoghi oggetto di studio da parte dell’archeologia industriale si caratterizzano da un silenzio e da una fissità senza tempo, la Sava di allora brulicava in modo sorprendente. A ogni angolo, un piccolo movimento o rumore mi inquietava. Da ogni struttura – laminatoi, torri, serbatoi –, sentivo il ronzare di qualche sega elettrica. Da ogni vegetazione uscivano veloci animaletti. 

Ogni edificio era intasato da oggetti frantumati, come se ogni apparecchiatura fosse stata smontata e ridistribuita a casaccio. Ladri di ferro. 

I vetri mandavano riflessi e suggestioni. Il terreno aveva qualche centimetro di grigio polveroso e restituiva affioramenti plastici o di ruggine. 

Probabilmente era il luogo più inquinato di tutta la zona, ma quando si apriva il cielo, apparivano i colori nitidi della laguna di Venezia. 

Abbandonai presto mappe e appunti di lavoro. Come se il fascino e il veleno del luogo avessero partita vinta. 

    

Dal diario 

Parallelo al lavoro della tesi tenevo un diario. Questa è la pagina del 22 ottobre 2010.

Entro nella zona dei serbatoi. Cilindroni ancora imponenti, vegetazione però transitabile. Cambio l’obiettivo. Mi fermo.

Accanto a me un mostro. Un cinghiale enorme. Non mi guarda. Immobile, il suo sguardo mi evita. Sto ferma. Restiamo così, lui guarda la boscaglia, io guardo lui. Cerco di intuirne le zanne. Magari è solo un maiale inselvatichito… no troppo scuro. Sparisce senza rumore. 

Avanzo, fango e schegge, uno stormo si alza rompendo il cielo. Sono germani, anatre, alzavole, comode e poi infastidite. Mi rilasso, sono uccelli di laguna. Vuol dire che non c’è nessuno, una specie di oasi dopo una tempesta. O dopo un diluvio. 

Imposto la macchina con un tempo lento. Dentro il deposito cilindrico non c’è molta luce. L’acqua ristagnante ha riempito tutta la superficie circolare. Ho appena lo spazio per appoggiarmi per fotografare. Poi sento un frinire senza cicale. Guardo l’acqua leggermente scossa. Migliaia di esseri si muovono sul fondo. Piccoli gamberi che si spostano sormontandosi. Mi scosto con paura, schifo. Un brulicare senza senso in un’acqua che dovrebbe essere immobile e stagnante e abbandonata. Alzo lo sguardo. Un’ombra, anzi no. Il suo contrario. Un riflesso disegna una freccia sul metallo. Una freccia luminosa oscillante. Non indica nessuna direzione e si spezza nell’acqua… 

Dieci anni dopo

Questo lavoro, pensato per un corso di Laurea in Discipline dell’Arte, della Musica, e dello Spettacolo, è stato poi esposto in una mostra di foto d’arte; ora, con il tempo, si trasforma in documentazione storica. 

Qualche anno dopo, infatti, una porzione dell’area è stata bonificata e recuperata a uso terminal marittimo, gli edifici demoliti. Tutto intorno, è la natura che continua a riprendersi i suoi spazi, ma restano aperti i conti con i progetti di “riqualificazione” e “riuso”. 

Queste non terre, non acque, che hanno inghiottito la (terza?) zona industriale, inghiottiranno il nuovo porto turistico delle crociere, inghiottiranno anche il canale dei petroli, inghiottiranno le moderne fabbriche pulite, inghiottiranno i nuovi terminal. Tutto sprofonderà di pochi decimetri, e la salicornia rifiorirà. Leggermente più rossastra. 

Nota. Mi sono laureata al Dams di Padova nel 2011 con la tesi Fabbriche a Marghera. Un’esplorazione tra storia, archivi fotografici, suggestioni attuali (rel. Carlo Alberto Minici Zotti). Una copia è consultabile presso la biblioteca di Marghera.

Da questa ricerca è nata la mia prima mostra fotografica personale, Liquidazioni (2012), ospitata sempre dalla biblioteca di Marghera.

Le foto in cui sono ritratta sono state scattate da mio padre.

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