di Elvio Bissoli
Il nostro socio e amico Elvio Bissoli ha partecipato all’omaggio che Vicenza ha dedicato a Paolo Rossi dopo la sua morte, avvenuta il 9 dicembre 2020. Ci ha scritto per ricordare i tempi in cui RossiGol (non ancora Pablito) giocava con il Lanerossi Vicenza, e spiegare perché la città ha continuato ad amarlo, fino a perdonargli perfino di aver vestito la maglia dell’Hellas Verona. Ritratto sentimentale di un giovane calciatore.
Quasi diecimila persone, un lungo serpentone che circondava le mura scrostate del vecchio stadio “Menti”, in attesa di poter entrare nel campo di gioco dove era depositata la bara di Paolo Rossi e salutare un amico tornato nella città che ha continuato ad amarlo, anche dopo tante peregrinazioni in squadre molto più blasonate del Lanerossi Vicenza. Eppure Paolo Rossi (per i tifosi vicentini RossiGol) è rimasto solo tre stagioni al Vicenza, ma nessuno come lui è entrato in sintonia con questa città sonnolenta, un po’ ipocrita e troppo spesso immobile e impegnata a rimirare le sue bellezze architettoniche. Così amato da perdonargli di aver concluso la sua breve carriera (a trentun anni) nell’odiatissimo – calcisticamente parlando – Hellas Verona: il più diffuso quotidiano locale lo ha ricordato pubblicando le sue foto con le maglie di tutte le squadre dove ha militato omettendo, piamente o perfidamente, quella in gialloblù.
Tanti altri campioni hanno vestito la maglia biancorossa (Vinicio, Roberto Baggio, Luca Toni), ma per questi è stata o una dignitosa fine carriera o una semplice tappa nella loro vita professionale. Non c’è tifoso che, avendolo incontrato per le vie e le piazze cittadine, non sia stato ricambiato del saluto e del suo sorriso gentile. Paolo non sembrava gentile, era proprio così e le tante volte che l’ho guardato giocare non l’ho mai visto simulare per un fallo non ricevuto o arrestarsi all’improvviso in area per indurre l’avversario a franargli addosso e procurarsi un rigore, pronto poi a consolare il portiere avversario dopo un gol che aveva il sapore della beffa.
Come tanti altri giocatori che non trovavano posto nelle rose dei grandi squadroni, la Juventus lo aveva dirottato al Vicenza, simbolo di quelle squadre di provincia costrette a imbastire squadre con prestiti, scarti o promesse mai realizzate, avvezze a lottare coi denti sino all’ultima giornata per strappare il punto mancante per evitare la retrocessione, a vendere ogni anno gli uomini migliori per sopravvivere economicamente e ricominciare da capo. Squadre dove la vittoria contro uno squadrone blasonato vale molto più che uno scudetto e diventa un’impresa che si ricorda e tramanda per generazioni.
L’arrivo del ventenne Paolo Rossi al Lanerossi coincide con l’avvio di uno splendido ciclo di tre anni, quando il Vicenza diventa il Real Vicenza che contenderà lo scudetto alla Juventus fino all’ultima giornata di campionato. Per quelle misteriose alchimie che spesso governano il calcio, una squadra composta da onesti, ma non eccelsi, giocatori riesce a trovare un amalgama che vale molto più di un collettivo guidato da due o tre ultrapagati campioni capaci di risolvere qualsiasi partita. È quello che è accaduto al Vicenza di Paolo Rossi, assemblato e trasformato da un allenatore che per tutta la sua carriera allenerà solo squadre di provincia, Gibì Fabbri, dall’aspetto di un contadino emiliano che aveva appena lasciato i suoi campi, ma in grado di tirar fuori il meglio dai giocatori a sua disposizione.
È stato facile per qualsiasi ragazzo identificarsi fisicamente in Paolo Rossi, un giocatore dalle spalle strette, mingherlino e quasi sempre sottopeso, con tre menischi su quattro fuori uso, agli antipodi dei marcantoni super tatuati di adesso e che oggi, difficilmente, troverebbe un posto in una qualsiasi squadra di serie A.
Il suo modo di stare in campo a volte era indisponente, un fare caracollante e dinoccolato (alle prime apparizioni in Nazionale molti giornalisti avevano sentenziato che l’Italia, con lui, giocava in dieci), come fosse capitato lì per caso, tanto che molti difensori, dopo un suo gol, si guardavano sconcertati con le mani sui fianchi come dire “ma da dove è sbucato questo?”.
Paolo Rossi non è stato solo un calciatore in biancorosso, oltre la squadra ha vissuto la città e non se n’è mai staccato come testimoniano i frequenti ritorni e la facilità con la quale si poteva incontrarlo, impensabile oggi con i divi del pallone inavvicinabili, protetti da severissimi uffici stampa e circondati da inflessibili bodyguard e avidi procuratori.
P.S. Confesso che a influenzare questo mio ricordo di Paolo Rossi è stato l’oscuro periodo seguito proprio alla fine della sua militanza in biancorosso. Da lì a poco lo strascico degli anni di piombo avrebbe fatto irruzione anche nel tifo calcistico, con gli stadi diventati campi dove la guerra non era più simulata, con gli spalti trasformati in gabbie per contenere e dividere gli opposti schieramenti. Andare allo stadio non era più parte del rito della festa domenicale, ma sottoporsi alle forche caudine tra perquisizioni e poliziotti in tenuta antisommossa. In breve tempo cori e striscioni sempre più truculenti e sanguinari avrebbero soppiantato il classico insulto (oggi improponibile) lanciato contro “l’arbitro fascista” e, per lungo tempo, non sarebbe più stato possibile vedere, come qualche anno prima, il “Menti” intero alzarsi in piedi e, dopo un attimo di stupefatto silenzio, applaudire un gol indimenticabile segnato dal cagliaritano Gigi Riva in rovesciata aerea. Negli stessi anni, anche la malavita allungherà le sue mani sul calcio gestendo le scommesse clandestine, una rete in cui resterà impigliato anche Paolo Rossi.
Nota. Le foto sono tratte rispettivamente dal sito ilnapolista.it e da una galleria fotografica pubblicata sul Giornale di Vicenza. (red)