di Jules Vallès, a cura di Enrico Zanette
Oggi è un anniversario: il 2 dicembre 1851 Luigi Napoleone Bonaparte – che Victor Hugo chiamava Napoléon le Petit per distinguerlo sarcasticamente dallo zio – compiva un colpo di Stato contro le istituzioni della repubblica francese. Jules Vallès raccontò la fallita resistenza a Parigi nel suo romanzo Il diplomato, di cui abbiamo già parlato su questo sito. Ne riprendiamo ancora un capitolo: una giornata buia e cupa, spostamenti inutili, esitazioni, rassegnazione. E soprattutto la scoperta – per l’alter ego letterario di Vallès, Jacques Vingtras – di ritrovarsi tra redingote, tra «borghesi»; il popolo di Parigi, le bluse, gli operai, non li avrebbero seguiti. Per loro la repubblica era già morta da un pezzo, nelle giornate del giugno 1848, quando proprio quei repubblicani borghesi erano stati i loro carnefici, assassini della repubblica democratica e sociale, un sogno durato solo pochi mesi.
«Vingtras!».
Mi sfondano la porta!
«Vingtras, Vingtras!».
È una specie di grido di terrore! Salto giù dal letto e vado ad aprire, stordito… Rock! pallido, stravolto!
«Il colpo di Stato!…».
Mi viene la pelle d’oca.
«Hanno appeso i manifesti; l’Assemblea è sciolta; la Montagna è stata arrestata… Ritrovo da Renoul, tutti, tutti!».
Salgo all’ultimo piano e recupero da sotto un’asse una pistola e un sacchetto di polvere. È da molto tempo che ho questa pistola e questa polvere; le ho tenute da parte per la lotta!
Alexandrine si aggrappa a me – mi ero dimenticato di lei. Lei non conta più ora, lei non conterà per un po’, finché durerà la battaglia; sul piatto della bilancia non pesa quanto una cartuccia. Non le dico che due parole: «Se sono ferito, mi curerete?».
«Non sarete ferito, – non ci si batterà!».
Non ci si batterà? – Vorrei schiaffeggiarla. Mi riempie l’animo di terrore! È che in fondo – dentro di me – c’è nascosto, come strisciante nel fango, il presentimento dell’indifferenza generale!… La locanda non è in subbuglio! Gli altri inquilini non sembrano indignati, non c’è umiliazione né eccitamento. Pensavo che tutti si sarebbero precipitati nella sala, chiedendo come ci saremmo divisi il lavoro, dove trovare le armi, chi al comando: «Coraggio! avanti! Viva la Repubblica! In marcia sull’Eliseo! Morte al dittatore!».
Non ci si batterà? Le vie sono già in piedi e in fiamme? Ci sono i capi delle barricate, gli uomini delle società segrete, i vecchi, i giovani, quelli del ’39, quelli di Giugno e dietro di loro la folla fremente dei repubblicani? Solo qualche piccolo assembramento! qualche goccia di pioggia, e fango sotto i piedi, – i manifesti bianchi appaiono splendenti in quest’aria cupa e bucano, come un bagliore, la grigia foschia. Sembrano i soli a esser vivi di fronte a queste facce da morto! Verranno strappati? si griderà? No. La gente legge i proclami di Napoleone, con le mani in tasca, senza rabbia! Oh! Se il pane fosse aumentato di un centesimo, ci sarebbe più clamore!… I poveri hanno ragione o torto?
Non ci si batterà! Siamo perduti! Lo sento, il mio cuore me lo grida! i miei occhi me lo dicono! La Repubblica è morta, morta!
Dieci in punto
Siamo riuniti in assemblea da Renoul.
«Ci siamo tutti?».
Sì, tutti e anche qualche altro amico. Devono arrivarne altri verso mezzogiorno… A mezzogiorno? Ma nel frattempo, dobbiamo far partire l’agitazione! Bisogna che a mezzogiorno la via sia in fiamme, che la battaglia sia iniziata, che si conosca la parola d’ordine e che si gridi di barricata in barricata, e questa volta per davvero, «Sentinelle! state attente».
Non ci si batterà! Ecco che arriva un ragazzone moro, grande e grosso, fratello di un volto noto del 1848. Più vecchio di noi, protetto dal suo nome, prende parola, lo ascoltiamo. Che dice?
«Cittadini, vi porto la parola d’ordine della resistenza. – “Non insorgere; aspettare; lasciar logorare la truppa!”».
E viene anche ascoltato! non viene preso e buttato in strada a tirar su il primo pezzo della barricata? Mi indigno!
«Dichiariamo piuttosto che è tutto finito, perso! Ritornate a casa, mettetevi a lutto! È questo quello che volete?…».
Gli altri protestano.
«No? E allora dimostrate, in un lampo, che tutte le braccia, tutti gli animi, protestano e si rivoltano… Subito all’opera! Ve lo chiedo in nome della Rivoluzione!».
«Quindi, che vuoi fare?».
«Fare quello che si può, scendere in strada, sollevare il pavé, gridare all’armi! all’armi!… Compagni, fidatevi di me!…».
Mi bloccano. Il tizio moro grande e grosso si rivolge agli amici e domanda se vogliono seguire la parola d’ordine dei deputati che ha appena incontrato, oppure se vogliono ascoltare proprio me: scendere in strada, sollevare il pavé, gridare all’armi!…
«Bisogna obbedire ai comitati» dice la banda.
Ne arriva un altro. Anche lui è per lasciar logorare la truppa? Sì… e ci aggiunge qualcosa.
«Faremo girare» dice, «una parola d’ordine per stasera. Stasera, appuntamento in place des Vosges…».
I compagni mi guardano; sono convinto adesso?
«Convinto? Sono convinto che siamo spacciati… Convinto che siamo dei ragazzini, convinto che, se fossimo uomini d’azione, avremmo già cominciato una barricata…».
«Saremmo completamente soli…» prova a dire Renoul con voce fremente, comunque il più pronto a schierarsi con me.
«Soli! Ma se tutti dicono così, è la vigliaccheria su tutta la linea! Che quelli che parlano di logorare la truppa stiano pure dietro ai soldati, con le mani in tasca e i calzini di ricambio!… Signore, voi andate pure a cercare i calzini, io dico che dobbiamo andare a cercare gente pronta a combattere, e mobilitarla cominciando noi lo scontro».
«Dove lo cominciamo?».
«Dove vorremo, insomma! Qui sotto casa… non importa dove! E mi offro io a sradicare il primo cubetto di porfido».
Non è per dimostrare che ho coraggio, ma per indicare che sento la sconfitta arrivare a passi felpati! Non credo che noi possiamo, solo noi dieci, salvare la Repubblica; ma saliremo su un mucchio di pietre, sul mucchio più alto, e grideremo: «A noi! a noi! Vedete, siamo in dieci; dieci uomini di diciotto anni, in redingote… dieci studenti! Che le bluse vengano a comandarci!».
Scruto gli abiti e gli occhi dei miei compagni… Sembra che io stia dicendo una follia. Disapprovano […]
«Ci farà beccare e verranno a ucciderci! ecco quello che succederà» ha detto Lisette, mentre io gridavo ad alta voce.
Bisogna arrendersi!… Arrendersi alla mercé del fratello di un delegato! Tento ancora un appello supremo: «Voi credete che ci vuole disciplina… la disciplina, sempre la disciplina… ma è l’indisciplina a essere l’anima delle lotte popolari!… Ah! borghesi!…».
Mi mettono la mano sulla bocca; ancora un po’ e mi soffocano. Hanno dalla loro la forza, è la loro convinzione ad agire; ma perché questo carattere di obbedienza, questo rispetto per le parole d’ordine dell’attesa e del segnale da ricevere? Vogliono dei capi! e perché? È il più audace quello che comanda.
3 dicembre
Da ieri alle undici corriamo in cerca del pericolo, presagendo la disfatta. Alla fine, ci siamo riconciliati e accordati per chiamare alle armi, pubblicamente. E ci siamo battuti qua e là con una sciarpa rossa legata a un bastone – non come si doveva per vincere. Alexandrine aveva ragione. Le redingote hanno preso il fucile; le bluse, no!
Una frase, una frase sinistra mi è stata detta da un operaio al quale indicavo la barricata che avevamo iniziato: «Venite con noi!» gli gridavo.
Mi ha risposto, squadrando il mio soprabito, che pure è bello rovinato: «Giovane borghese! è tuo padre o tuo zio che a Giugno ci ha fucilati e deportati?».
Hanno conservato il terribile ricordo di Giugno e hanno riso quando hanno visto imprigionare quell’Assemblea di deportatori e fucilatori.
Qualche coraggioso ha dato fuoco alle polveri – gli operai non si sono mossi. Cinquecento in guanti che sparano e muoiono, questa non è una battaglia!… Il fratello del delegato va in giro in continuazione a dire: «Andiamo a logorare la truppa».
4 dicembre, sera
Non abbiamo logorato la truppa, e non riesco più a reggermi in piedi, non ho più fiato in gola; riesco appena a far venir fuori dai polmoni una voce rotta, tanto ho gridato: «Viva la Repubblica! Abbasso il dittatore!», tanto ho dispensato rabbia e disperazione da quando Rock ha bussato alla mia porta…
Sono le… non so che ora. Ho raggiunto non so come la locanda – sorreggendomi ai muri, trascinando i piedi, sostenendo con le mani la testa che mi pesava, pesava come se ci fosse entrato del piombo – e mi sono buttato sul letto. Non sono ferito, non sanguino; rantolo… Il sonno mi prende, ma mi sembra che una mano mi spinga la bocca nel cuscino; mi sveglio soffocando, chiedendo grazia, apro la finestra. Sento il rimbombo di alcuni colpi di fucile! Quindi ci si batte ancora? Mi era stato detto che era finita, che tutti coloro che avevano coraggio erano esausti o morti. Sono senza dubbio dei prigionieri che vengono finiti; dicono che in Prefettura si uccide… E se la lotta fosse ricominciata! Devo esserci!… Il mio posto non è in questo letto di locanda. Provo a riprendermi, per andare a vedere… Ma il sonno mi vince, le gambe rifiutano il servizio, ho il braccio destro come se fosse legato a un peso. Altri colpi di fucile! Oh! Scenderò lo stesso! […]
Sono riuscito a trascinarmi in strada. Com’è buia!… Vado fino al ponte. Alcune sentinelle montano la guardia.
«Dove andate?».
Se avessi coraggio, se fossi un uomo, gli direi dove sto andando… dove penso di dover andare. Griderei: «Abbasso Napoleone!». Forse in futuro rimpiangerò più di una volta di non aver lanciato quel grido e di non aver lasciato lì la mia vita… Ho balbettato qualcosa, girato a sinistra…
La Senna scorre muta e scura. Si dice che un ferito ancora vivo sia stato gettato dentro e che sia riuscito a raggiungere l’altra riva, lasciando dietro di sé una scia di sangue. Potrebbe essere rannicchiato in un angolo, moribondo. Non c’è una chiazza rossa da qualche parte? Non sento più sparatorie, solo le sentinelle che riappaiono, vittoriose e insolenti.
È finita… finita… Non si leverà più nessun grido di rivolta verso il cielo! Sono rientrato, il cervello spento, il cuore trafitto, barcollando come un bue che cade e si accascia sotto i colpi della mazza, nel sangue fumante del macello!
Nota. Tratto da Jules Vallès, Il diplomato, cura, traduzione e postfazione di Enrico Zanette, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2020, pp. 92-98. Abbiamo già presentato alcune pagine da questo libro in ottobre.