di Gianni Rodari
Ricordiamo Gianni Rodari nel centenario della sua nascita (Omegna, 23 ottobre 1920) ripubblicando la cronaca che scrisse, come inviato speciale dell’Unità, all’indomani della sparatoria della polizia sugli operai della Breda, nel marzo 1950.
(Dal nostro inviato speciale) Venezia, 15 [marzo]. – Sul cancello del Cantiere Breda – una pesante lastra di lamiera grigia – e sui muri rotti della portineria, gli operai hanno contornato con un piccolo cerchio di gesso i segni lasciati dai proiettili della polizia. Vi sono scrostature in alto, sopra la porta riservata all’ingresso delle maestranze maschili (gli impiegati e le donne entrano da altre porte); e c’è una fitta gragnuola di tracce in basso, ad altezza d’uomo: all’altezza del capo di Virgilio Scala, dell’addome di Nerone Piccolo, della gamba di Vittorio Motta, i tre operai che sono stati raggiunti dai colpi di arma da fuoco. Altri tre sono stati colpiti coi calci dei fucili e solo le radiografie potranno rivelare le eventuali lesioni interne o fugarne il timore.
Celerini e carabinieri hanno sparato in basso le loro raffiche micidiali. A Venezia come a Modena, come a Melissa, la polizia ha mirato all’uomo, ha sparato per uccidere. Sino a questo momento sembra che non ci sia riuscita: i due feriti gravi, Scala e Piccolo, pur permanendo in condizioni difficilissime, hanno passato una notte abbastanza calma.
Le condizioni dei feriti
Entrambi erano complessi interventi operatori, e nulla viene trascurato per salvare le loro vite generose.
Virgilio Scala non parla: la testa emaciata posa sui cuscini fra un groviglio di bende insanguinate; gli occhi sono chiusi nelle occhiaie paurosamente infossate. Qualche lamento, un sospiro più affannato: nulla più. Rivede egli, dalle dolorose profondità in cui l’ha gettato la crudele ferita al cranio, le immagini amate dei suoi sette figli? Scala non è del Cantiere Breda, ma della fabbrica INA, del gruppo Montecatini. È accorso coi suoi compagni quando le sirene del Cantiere hanno chiamato per aiuto, ma non è giunto sino al Cantiere: il proiettile l’ha abbattuto lungo il muro di cinta.
“Come va al cantiere?”
Il giovane Nerone Piccolo ha dato stamane una nuova prova della sua generosità; al segretario della C.d.L. di Mestre che lo visitava e si informava delle sue condizioni, ha sussurrato con un filo di voce: «Come va al Cantiere?». Ieri, ai compagni che lo raccoglievano, aveva detto: «Se muoio, levate più in alto la bandiera rossa!».
Gli altri feriti stanno sensibilmente meglio, ma il merito non è certamente della polizia. La polizia ha sparato per uccidere, adempiendo ciecamente ad un compito barbaro ed assurdo: dare piombo a chi da quattro mesi e mezzo deve ricevere il salario, a chi è costretto nella miseria a difendere con le unghie e coi denti il suo posto di lavoro, esasperato dalla beffa delle promesse governative.
Cinque mesi di promesse hanno portato ad una sola brutale conclusione: una carica di polizia, che giornali indegni hanno cercato stamane di giustificare come un’azione di legittima difesa o necessaria tutela dell’ordine pubblico.
Le testimonianze
Oggi il sindaco di Venezia, avv. Gianquinto, ed i senatori Ravagnan, Flecchia e Pellegrini hanno raccolto, unitamente ad alcuni legali, le testimonianze degli operai, degli impiegati e dei tecnici presenti ai fatti. Da queste deposizioni emergono le seguenti circostanze.
Primo: già lunedì sera alcuni ufficiali di polizia avevano espresso la loro intenzione di «passare a vie di fatto» con le maestranze del Cantiere che distribuivano alle macchine transitanti sul ponte per Venezia manifestini in cui si illustravano i motivi dell’agitazione. Ieri mattina, poi, molto prima delle otto, stazionavano nelle vicinanze del Cantiere, senza apparente motivo, notevoli forze di polizia.
Secondo: gli operai non avevano istituito nessun blocco stradale, com’è stato insinuato, ma continuarono a distribuire volantini alle automobili di passaggio e senza neppure fermarle. Due gruppi si erano posti ai lati della strada, un terzo gruppo al centro della pista asfaltata, in modo da non ostacolare il traffico nei due sensi. Non esisteva perciò la necessità di ristabilire un traffico che non era mai stato interrotto.
Terzo: ad una prima ingiunzione di abbandonare il centro della strada gli operai hanno risposto mettendosi a sedere sull’asfalto. La polizia ha tentato di farli alzare, ma non v’è riuscita. Alle 10,30 il commissario di P.S. Pirrò ha ordinato la carica e gli agenti, servendosi degli sfollagente e dei calci dei moschetti, hanno sgomberato completamente la strada. Gli operai si sono ritirati verso il Cantiere, attraversando i binari di un raccordo ferroviario che passava dinanzi alla portineria. A questo punto, anche l’inutile orgoglio del commissario Pirrò avrebbe potuto considerarsi soddisfatto. La strada era sgombra. Invece, fu proprio mentre gli operai si dirigevano verso il Cantiere, che caddero in mezzo a loro le prime bombe lacrimogene. Agenti e carabinieri continuarono a lanciare spezzoni anche quando gli operai si furono ritirati nel Cantiere. Purtroppo, anche questo non doveva essere che un preludio.
La sparatoria
Quarto: la sparatoria si è iniziata quando gli operai hanno tentato di rimettere il capo fuori dai cancelli. A che scopo? Con quale pretesto? Nessuno, assolutamente nessuno. Gli ufficiali avevano ormai perso il senso della misura e si sentivano alla guerra: quelle teste che sporgevano sembravano loro la avanguardia d’una minacciosa sortita. Intanto, al richiamo delle sirene, gli operai delle fabbriche vicine accorrevano verso il cantiere: essi sono stati presi senza indugio sotto il fuoco. Perché costituivano un blocco stradale? Minacciavano gli agenti? Essi sono stati presi di mira da una distanza di venti, trenta metri, senza preavviso, senza giustificazioni; unica giustificazione, l’intenzione di uccidere, e senza che in quel momento vi fosse un solo articolo del Codice Penale da far rispettare. E anche se vi fosse stato, certo non avrebbe contemplato la pena di morte.
Era una guerra assurda. Tanto assurda che tre carabinieri hanno dovuto togliere il moschetto dalle mani di un loro compagno, che stava prendendo di mira un operaio, rifugiato su un terrazzino, sovrastante la portineria. Non sapremo mai i nomi di quei tre tutori dell’ordine di buon senso. In testa agli aggressori, il commissario già nominato e un capitano dei carabinieri. Il quale, con una escoriazione all’orecchio, è l’unico poliziotto «ferito». Anche un altro ha preso una sassata, senza conseguenze.
Quinto: è falso, assolutamente falso, che gli operai siano stati i primi a colpire, servendosi di sassi e di bulloni: la carica è cominciata sull’asfalto e sull’asfalto non vi sono sassi. Operai, eventualmente posti più dietro, fra i binari, non avrebbero potuto tirare, per non colpire i loro compagni, che si trovavano a diretto contatto con gli agenti. Semmai sono corsi ai sassi più tardi, e per poco, quando l’esasperazione era giunta al colmo. Questi sono i fatti e non sono tutto.
La carica è stata ordinata mentre due membri della Commissione interna, tra cui un liberino, di nome Mazzero, discutevano a Venezia con l’amministratore giudiziario del cantiere sull’impiego di trenta milioni, giunti in mattinata.
Si sarebbe, almeno, dovuto attendere la fine di questa discussione. Ma anche i trenta milioni (cifra ridicola, di fronte ai bisogni del cantiere) sono serviti di pretesto per ridicole menzogne. Il commissario di P.S., annunziandone l’arrivo agli operai, ha dichiarato che «prima di sera sarebbe stata pagata la quindicina, e, dunque, bisognava smettere l’agitazione». Invece, ancora oggi, a ventiquattro ore dalla strage, non si sapeva se i milioni potranno essere convertiti in paghe.
Simonini telefona al parroco
Il ministro Simonini ha telefonato al parroco del Lido di Venezia (guarda a chi fa le sue comunicazioni il ministro saragattiano della Marina mercantile!) che il sindaco Gianquinto era al corrente fin da domenica dell’arrivo dei trenta milioni: e anche questa è una spudorata bugia.
Il governo non può sottrarsi alla diretta responsabilità per quanto è accaduto: non più tardi di sabato, in un ordine del giorno votato all’unanimità, il Consiglio comunale di Venezia richiamava la sua attenzione sullo stato di esasperazione e di tensione creatosi a Porto Marghera; protestava vibratamente contro la incomprensione degli organi centrali e chiedeva una riunione urgente dei ministri che possono decidere per la salvezza del cantiere Breda. Il drammatico appello è stato votato senza esitazione anche dai consiglieri democristiani: anche alle loro sollecitazioni, dunque, il governo ha risposto con il piombo.
La feroce risposta ha provocato l’indignazione di tutta Venezia. Lo sciopero generale è stato oggi nella città lagunare compatto e impressionante. Non un negozio aperto, tranne gli alimentari, nelle prime ore del mattino. Alle 10 i gondolieri hanno sospeso il servizio dei traghetti, mentre i vaporetti non hanno compiuto nemmeno un viaggio. Delegazioni di donne, di operai e di cittadini, hanno tempestato di proteste la Prefettura.
Ad una delegazione di Sestriere di Castello il prefetto ha risposto, accusando gli operai di avere sparato contro la polizia: ciò che nessuno ha osato sostenere, né ieri, né oggi.
Scuole, accademie, università, tutto fermo. Silenziose e vuote le mercerie e salizzade. Deserta la stazione centrale. Stanotte i treni si arrestavano a Padova. A mezzogiorno di oggi si trovavano in quella stazione ventisette convogli.
La protesta popolare
Cortei di giovani hanno percorso le calli e i campi cantando inni patriottici. Uno di questi cortei ha dimostrato vivacemente sotto la finestra dell’Ambasciata americana in Campo Sant’Angelo. Sul muro dell’Ambasciata i giovani hanno scritto, a grandi caratteri: «piano Marshall uguale fame». Alla periferia di Mestre, stando alle vanterie di un funzionario di Questura, 1500 poliziotti e 200 automezzi e autoblindo sono a disposizione del questore di Venezia, che fu questore di Siena all’epoca dei fatti di Abbadia San Salvatore.
Soltanto una cosciente disciplina li trattiene dal compiere gesti disperati: ma sono al colmo dell’umana sopportazione. La resistenza di cui danno prova costa a ciascuno di loro sacrifici, debiti, fame e miseria più nera.
Curvi sui manubri delle biciclette, con un piede a terra, cupi, attendono. Tutta Venezia è con loro. Non un solo uomo dovrà essere licenziato. Se si tentasse l’attuazione dei licenziamenti lo stesso Consiglio comunale di Venezia occuperebbe il cantiere, trasportandovi il glorioso gonfalone di San Marco.
Alle 18, in piazza San Marco, si è rinnovato il magnifico, civilissimo spettacolo di una manifestazione che, come l’altra sera, ha mobilitato tutti gli strati della cittadinanza nella protesta e nella esecrazione dei barbari metodi della polizia. Il vasto rettangolo della piazza, tra la Basilica e l’area Napoleonica, era gremito. Venezia difendeva, unita, il suo onore, decine di migliaia di operai, fuse nel suo glorioso nome. Decine e decine in una sola enorme folla con migliaia di impiegati di esercenti, di professionisti, di donne di ogni ceto, hanno ascoltato il discorso del senatore Roveda, giunto a portare a Venezia la solidarietà della C.G.I.L., a nome di tutti i lavoratori italiani. Hanno parlato anche il Senatore Flecchia, il sindaco Gianquinto ed i rappresentanti di Modena e di Sesto San Giovanni cioè della città delle Fonderie Riunite e della cittadella della Breda.
Il senatore Roveda ha annunciato di avere chiesto al prefetto la sospensione dei funzionari di polizia che hanno ordinato il fuoco, in attesa di accertarne le responsabilità, ma di avere ricevuto un rifiuto. Il sindaco ha dato notizia di un telegramma spedito al Presidente della Repubblica, a nome della Giunta comunale, per chiederne l’autorevole intervento in difesa dei diritti della civiltà e della democrazia, calpestati dal governo.
Domani i lavoratori del cantiere Breda riceveranno un acconto di salario. Ci si chiede, con profonda amarezza, perché debba tanto spesso correre il sangue prima che i lavoratori ottengano le più modeste soddisfazioni, ci si chiede sino a quando un prezzo così terribile debba essere pagato. Servirà, il triste spettacolo della Laguna insanguinata, a far tornare il governo al rispetto del costume democratico? Servirà se i lavoratori lotteranno con l’energia, la compattezza, la disciplina di cui oggi Venezia ha dato prova.
Nota. L’articolo di Gianni Rodari uscì sull’edizione veneta dell’Unità datata giovedì 16 marzo 1950 (pp. 1 e 6). Riprendiamo il testo dal Quaderno 1 di storiAmestre: Breda, marzo 1950. L’intervento del sindaco Giobatta Gianquinto. Le cronache di Gianni Rodari, a cura di Mirella Vedovetto, postfazione di Giorgio Molin, storiAmestre, Mestre 2005, pp. 50-55.
L’agitazione alla Breda era cominciata nel novembre 1949. Rodari era già stato inviato dal giornale a Porto Marghera in occasione dello sciopero del gennaio 1950; i suoi articoli uscirono il 6 e il 7. Pochi giorni dopo avrebbe raccontato, sempre da inviato speciale, sulla prima pagina dell’edizione nazionale dell’Unità, la strage compiuta da polizia e carabinieri a Modena: 6 morti e 200 feriti tra i manifestanti durante la giornata di sciopero generale del 9 gennaio, legato alle lotte degli operai delle Fonderie Riunite. Queste vicende ispirarono a Rodari la poesia Bambino di Modena, pubblicata per la prima volta nell’edizione milanese dell’Unità il 29 gennaio seguente.
Scrive Mirella Vedovetto presentando le cronache (Gianni Rodari a Porto Marghera, in Breda, marzo 1950 cit., p. 37): “Rodari tornò a Porto Marghera in marzo; i suoi articoli uscirono sull’edizione veneta dell’Unità dei giorni 16, 17 e 18. Stese la cronaca del 14 marzo sulla base delle deposizioni di operai, impiegati e tecnici raccolte il giorno dopo gli scontri dal sindaco Gianquinto e dai senatori Ravagnan, Flecchia e Pellegrini in presenza di alcuni avvocati. […] Rodari non descrisse la manifestazione che si tenne quello stesso giorno. Fu un articolo di Giuseppe Capaldo, pubblicato il 15 marzo sulla prima pagina dell’Unità (edizione nazionale), a fare il resoconto della reazione popolare seguita agli scontri”.
Dalla Introduzione di Mirella Vedovetto (in Breda, marzo 1950 cit., pp. 13-14) riprendiamo una breve cronologia dei fatti che precedettero la sparatoria:
“Dal 9 marzo 1950 [il prefetto di Venezia] inviò di continuo telegrammi a Roma, preoccupato per l’ordine pubblico: considerava «allarmante» la situazione nella zona di Porto Marghera e Mestre.
Il 10 marzo gli operai della Breda, alla notizia che le pratiche per il finanziamento del cantiere avrebbero subito ulteriori ritardi, indicevano per il giorno dopo una nuova manifestazione a Venezia con mogli e figli. Il prefetto allora chiese di mettere in atto «misure preventive», in altre parole far intervenire la polizia.
L’11 le maestranze della Breda assieme a un centinaio di donne e bambini si riunirono in campo Santo Stefano dove presero la parola membri della Commissione interna e dirigenti sindacali.
Il 12 il Consiglio comunale di Venezia si riunì d’urgenza in seduta straordinaria. Gianquinto aggiornò sulla situazione del cantiere e sui nuovi ostacoli che si frapponevano all’attuazione dei provvedimenti concordati nonostante le trattative si dilungassero ormai da cinque mesi. Il Consiglio comunale, rilevando «uno stato di esasperazione nei dipendenti della Breda, di tensione in tutta la zona industriale di Marghera e di preoccupazione in città», chiese al governo un «congruo acconto» su salari e stipendi, il finanziamento dei lavori tra cui quelli della nave Nino Bixio, l’esecuzione del contratto previsto per la costruzione dei pontoni sovietici e i finanziamenti previsti dalla legge Saragat o l’equivalente in tonnellate di naviglio dalla Finmare. In caso contrario sarebbe stata impedita la partenza della nave Conte di Savoia.
Il 13 gli operai della Breda distribuirono agli automobilisti di passaggio di fronte al cantiere volantini che spiegavano la situazione in cui si trovavano da mesi; la polizia mantenne «attiva vigilanza» per tutta la giornata e non intervenne.
Martedì 14 marzo continuò la distribuzione dei volantini. Vi furono scontri con le forze dell’ordine e la polizia sparò. Cinque operai rimasero feriti: Nerone Piccolo e Virgilio Scala furono i più gravi. Il giorno successivo venne indetto uno sciopero generale di 24 ore”.