di Marco Pandin
L’etichetta discografica Materiali Sonori ha da poco ristampato in un album doppio le vecchie raccolte che uscivano allegate alla fanzine “Rockgarage”, creata nei primi anni Ottanta da un gruppo di amici e amiche di Mestre, Marghera e Venezia. Per l’occasione, Marco Pandin, che ci aveva già parlato di questa esperienza in un’altra occasione – quasi vent’anni fa –, ripercorre la storia del gruppo di “Rockgarage” sulla base di ricordi e cose scritte nel corso degli anni. Alla sua dedica a Marco, Franco e Loris, noi aggiungiamo un pensiero per Paolo Finzi.
“Rockgarage” era una fanzine nata tra Mestre Marghera e Venezia verso la fine del 1981 da un gruppo di ragazze e ragazzi, di amici di quartiere ed ex-compagni di scuola che s’erano messi presuntuosamente in testa la voglia di fare qualcosa di intelligente. Tra questi c’ero anch’io.
Eravamo una specie di branco, età media 20-22anni. Francamente non avevamo alcuna idea o velleità rivoluzionaria, né orientamenti politici simili, sebbene vivessimo tutti in una zona essenzialmente operaia – più che altro perché non era quello il nostro terreno di confronto. Piuttosto, a noi piaceva ascoltare musica, leggere, disegnare, fantasticare – tutti passatempi a prezzo zero o quasi.
Dove l’orientamento generico prevalente tra i nostri coetanei era sistemarsi, nelle nostre teste c'era invece parecchio posto per i sogni. Per la musica e per le poesie, non per progettare una vita senza vie d’uscita fatta di fidanzamento-servizio militare-matrimonio-lavoro-figli e altre assurdità. Da quel futuro potevamo solo scappare, anche se temporaneamente: senza arrivare alle droghe pesanti bastava procurarsi un walkman (rigorosamente una sottomarca, o roba rubata). Ascolto le musiche che voglio e affanculo tutto e tutti. Eccoci, eravamo così, non molto diversi dai tossici: anche noi poveri, sfigati, emarginati e completamente fuori posto nel paesaggio. Noi però dell’eroina avevamo paura – abbiamo tutti avuto un amico o un compagno di scuola o uno che abitava nel nostro stesso condominio trovato morto una mattina per strada o da qualche parte. Rassegnati a restare, eravamo ben consapevoli della situazione: la provincia addosso ci stava stretta, ma avevamo gli occhi troppo belli e non avremmo abbandonato quelle periferie indecise tra campagna e casermoni per andare a ficcarci nel buco del culo di una grande città.
Il punk è stato importante perché ha ci ha acceso sotto i piedi la miccia del coraggio: non eravamo certo un collettivo punk (sebbene in città e dintorni molti ci vedessero come tali), ma sono passati attraverso il punk alcuni messaggi e atteggiamenti che ritrovavamo come nostri e che abbiamo adottato – per esempio il fatto dell’autogestione, dell’organizzazione dal basso, della non verticalità dei rapporti. L’attitudine rompicoglioni e la “mancanza di rispetto” verso le istituzioni e l’autorità l’avevamo già nelle ossa, visto che si viveva in quartieri di merda e si erano fatte scuole di merda (tutte esperienze che fortificano e orientano il pensiero) e si erano confusi spesso e volentieri giochi da strada e piccolo teppismo. Insomma, chi più chi meno avevamo attraversato certi anni caldi, qualcuno in piazza con una fionda in tasca o un sasso in mano, altri con una chitarra elettrica a tracolla immaginando fosse un fucile carico.
Nell’estate del 1979 esce Unknown pleasures dei Joy Division, un disco che qui da noi lascia i segni addosso. Parlo per me: nessun altro prima mi aveva sbattuto in faccia in maniera così precisa, determinata e violenta tutto quello che non andava tra me e il resto del mondo. Era la descrizione perfetta del mio disordine interiore: quel sapersi mal sintonizzati, quel continuo sentirsi con la testa piena di cose sbagliate, nel posto sbagliato al momento sbagliato e non poterci fare niente. Sembrava che ogni canzone di quel disco mi fosse stata strappata di dosso, come se l’avessero scritta mettendoci dentro dei pezzi della mia testa, del mio stomaco, dei miei ragionamenti, dei battiti del mio cuore, del mio malessere e del mio casino. Come mai quei ragazzi di Manchester, mille chilometri e passa da casa mia, miei coetanei, erano riusciti a spalancare gli occhi e arrivare così lontano oltre l’orizzonte? Come mai io e i miei compagni eravamo invece così ciechi, tutti lì a brancolare nel nostro buio familiare umido e tiepido, così miseri a crogiolarci nella nostra solitudine, nelle nostre stanze senza uscite, così persi e disperati nelle nostre periferie – grigie come piombo, e grigie come le loro?
I Joy Division hanno fatto il nido nella mia testa e pure in quella di quasi tutti i miei amici. Allora i dischi noi li si ascoltava spesso in branco, a casa di qualcuno: mezz’ore intere seduti zitti a rimuginare tenendo gli occhi bassi, come concentrati in meditazione, un respiro profondo e un’occhiata veloce in giro a incontrare altri sguardi giusto il tempo di girare il vinile dall’altra parte poi un’altra mezz’ora di apnea.
Marco, uno del nostro giro, aveva fatto in quell’anno una prima timida spedizione in treno a Londra e ci aveva portato i suoi racconti – tutto diverso da come funzionava da noi, gli incontri, i suoni, i posti, i colori, le idee, il modo di stare insieme. Londra era la meta preferita dei viaggi che facevamo in sogno – la musica, i vestiti, i concerti tutto accadeva là.
Sono riuscito ad andarci anch’io nell’estate del 1981, riportando a casa un cuore traboccante e sulle spalle uno zaino strapieno di carta e vinile. Un giorno coi miei amici ce ne stavamo lì a guardare queste cose pensate realizzate e stampate dai ragazzi di lì, e improvvisamente abbiamo avuto quest’idea: facciamo(ci) anche noi un giornale.
Una fanzine come valvola di sfogo per tutto il malessere e la sfiga che condividevamo: tutti suonavamo e scrivevamo e facevamo disegni ma tenevamo tutto per noi, così è stato naturale raggrupparci attorno alle nostre seghe mentali, con la frustrazione, la povertà e l’incazzatura a fare da collante. Fare una fanzine allora sembrava una risposta non solo accettabile ma addirittura intelligente alle domande che ci si stavano accumulando dentro, o quantomeno un tentativo da fare, con una certa urgenza, per trovare altre strade per crescere senza essere costretti a ingoiare il grigio della mediocrità del nordest e il nero del non futuro che propagandavano i Sex Pistols – gruppo che a me stava proprio sul cazzo.
Per pagare il primo numero abbiamo fatto così: chi aveva un lavoro ha prestato qualche risparmio personale, abbiamo improvvisato una colletta a una festa/concerto alla biblioteca di Oriago e s’è rastrellato un tot consistente fingendoci volontari della parrocchia e raccogliendo ferrovecchio, bottiglie da riciclare, carta straccia ed elemosine. Non avevamo la più pallida idea di cosa fare e come fare, così nella prima uscita abbiamo ficcato dentro tutto quello che ci sarebbe piaciuto leggere: il primo numero di “Rockgarage” è stato infatti una grande colossale enorme sega collettiva.
Già il secondo numero era qualcosa di più personale, e il terzo era ancora più caratterizzato – stavamo imparando, e lo abbiamo fatto da soli. Bestie giovani e selvatiche, diffondevamo cultura in via orizzontale e inconsapevolmente anarchica: nessun caporale da seguire, nessun centro organizzativo cui fare rapporto, nessun negozio da mandare avanti. Ma a un certo punto proprio con la scusa del giornale, che a una prima occhiata di superficie si presentava piuttosto bene e ci dava un minimo di credibilità, abbiamo provato ad alzare la voce – abbiamo preteso e siamo riusciti a utilizzare spazi minimi in città per organizzare concerti, incontri, performance, mostre di fumetti e grafica, rassegne di cinema e video, tutte cose che in zona non c’erano mai state e delle quali avevamo un improvviso ed urgente bisogno.
Se andate in giro in rete e nei canali televisivi troverete decine di esperti che vi raccontano gli anni Ottanta come un periodo di feste in discoteca, di musica leggera ballabile e sintetica, di tette e culi facili dentro i tubi catodici. Io ne ho un ricordo diverso: si era impegnati in una guerra sotterranea contro il mondo e il dilagare di gruppi pop col sintetizzatore non ha reso la nostra vita meno difficile. Nei nostri discorsi di allora non c’era così tanto posto per vestiti accessori e pettinature, per i duranduran o per gli spandauballé o altri gruppetti pop di merda: stavamo passando attraverso il 1984, che era come aspettare l’apocalisse, e tra noi si discuteva di casini in famiglia e di lavoro che non si trovava se non in nero, di repressione e di spazi da reclamare, di centrali atomiche e guerra nucleare. Il “non futuro” punk era un buco nero di disoccupazione e sfruttamento in cui ci si ritrovava incastrati. Un’oppressione complessiva e schiacciante: in Italia si erano attraversati gli anni di piombo e comandavano la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista di Bettino Craxi, si viveva nell’ombra sinistra della guerra. Il muro di Berlino era saldamente in piedi, c’erano ancora sulle carte geografiche e nella realtà politica e sociale la Yugoslavia e la Cecoslovacchia e l’Unione Sovietica… Non è che allora noi ragazzi si vivesse così tranquilli, a cazzeggiare tra new wave, spritz e sorrisetti.
Per via delle radio, dei primi meeting fiorentini delle etichette indipendenti e degli incontri e scambi universitari siamo venuti a contatto con i vari collettivi di Bologna Milano Pordenone ecc. ma tra noi non c’è davvero mai stata collaborazione né, con ogni probabilità, alcuna stima. Non ci sentivamo parte di alcun movimento: gli “organizzati” noi li si guardava con un certo sospetto e da cani randagi quali eravamo preferivamo starcene alla larga. Abbiamo imparato presto che il punk e la scena indipendente erano in mano a vere e proprie organizzazioni che di alternativo e indipendente non avevano proprio nulla.
Per quanto a Milano, Torino e Bologna gli anarcopunk si sbattessero e facessero rumore, il giro che contava era in mano a gente ricca che già allora metà anni Ottanta poteva permettersi personal computer e videocamera e stampava giornali approfittando del sostegno dei partiti politici, brutte facce che andavano a predicare in televisione – la mattina impiegati a farsi pagare in banca, la sera dee-jay della nuova onda a farsi pagare in discoteca.
Una copia di “Rockgarage” costava mille lire, una miseria. Non avevamo una rete organizzata di distribuzione: la fanzine la si dava via ai concerti, alle code al cinema, davanti alle scuole, per strada, per passaparola, per corrispondenza. Eravamo partiti solo con una speranza tenue di rientrare dalle spese, eppure sembrava avessimo inventato e stessimo sfruttando una nuova fetta di mercato perché “Rockgarage” funzionava, e alla grande: con nostra sorpresa sono rientrati presto i soldi che avevamo anticipato e ne sono stati raccolti degli altri. Appena possibile abbiamo fatto uscire un secondo numero, che siamo riusciti a diffondere altrettanto velocemente così da ritrovarci con quello che per noi era un sacco di soldi. Che ne facciamo? La risposta era sotto i nostri occhi, anzi dentro alle nostre orecchie: c’erano dei musicisti tra noi, abbiamo pensato allora di allegare a ogni numero della fanzine un disco con dentro le nostre canzoni. Ispirati dalla precarietà a noi familiare di raccolte come Bullshit detector dei Crass, abbiamo fatto un primo disco collettivo. Ci ha dato una mano Giampiero Bigazzi della Materiali Sonori, facilitandoci enormemente nell’impresa di rapportarci con le ditte che stampavano il vinile – gente senz’altro abituata a clienti dall’aspetto socialmente accettabile e con un qualche blocco delle fatture.
È andata benissimo così ne abbiamo fatto presto un altro, e poi un terzo, un quarto. A Torino, Udine, Firenze, Bolzano e altri posti con il pretesto della musica abbiamo fatto amicizia con ragazze e ragazzi press’a poco come noi – difficili, spigolosi, storti, introversi, arrabbiati.
Di “Rockgarage” si parlava in giro, e a Ermanno Rioda e a me, poi anche a Mirco Salvadori, è stato proposto di collaborare con “Rockerilla” – allora la più stimata testata musicale. A un certo punto ho iniziato a scrivere di cose di musica su “A/Rivista Anarchica”. Allora i lettori del giornale erano una popolazione di ascoltatori di Pietro Gori, dei Canzonieri anarchici, delle raccolte di registrazioni sul campo pubblicate dai Dischi del Sole, dei canti della guerra di Spagna. I punks e parecchi dei miei amici non leggevano “A/Rivista Anarchica” perché non gliene fregava niente, dai più intransigenti (quelli con chiodo e anfibi addosso anche d’estate) era addirittura considerata “un organo di propaganda degli anarchici tradizionalisti”, frase che non sono davvero mai riuscito a tradurre in un qualchecosa a me comprensibile.
Su ispirazione di Paolo Finzi, responsabile di “A”, ho provato ad aprire un buco nel muro. Il mio primo pezzo è stato pubblicato su “A” 118, aprile 1984:
“La ragione principale della nascita di questa nuova rubrica è il prendere coscienza di un importante fenomeno: in questi tempi sono davvero tante le aggregazioni musicali che caratterizzano la loro attività anche da un punto di vista non solamente spettacolare e concertistico. In molti casi, l’organizzarsi in una band è il pretesto per fare dell'attività sociale autonoma ed autogestita, un mezzo alternativo all’associazione politica tradizionale per tentare di intervenire nelle situazioni locali e intrecciare relazioni e contatti con esperienze di altre città e circuiti…”.
Avevo 26 anni, adesso ne ho 63.
Qualche mese fa mi chiama Giampiero Bigazzi della Materiali Sonori, proprio quello che ci aveva dato sostegno tecnico e organizzativo per i nostri dischi di “Rockgarage” e che poi ci ha insegnato a fare da soli. Mi chiede “se ho qualche cosa in contrario” al fatto che vengano ristampate su vinile le nostre vecchie uscite – vi dirò, ho apprezzato parecchio questa cortesia, ben consapevole che i dischi di “Rockgarage” “appartengono tecnicamente” alla sua etichetta discografica. In un ambiente di squali che tendono a rapportarsi al mondo tramite studio legale e a usare i carri armati per rastrellare cinquanta centesimi di royalties è davvero piacevole ritrovarsi a comunicare con degli esseri umani. Il resto è tutto qua: hanno raccolto e sistemato le nostre vecchie registrazioni e messo intorno una bella confezione trattando tutto con parecchio rispetto, e diffondono questo lavoro a un prezzo onesto. Non solo, hanno utilizzato una vecchia cosa a proposito di “Rockgarage” scritta da me tempo fa e recuperata in internet cui ho chiesto di aggiungere giusto qualche riga per ricordare Marco, Franco e Loris – tre compagni del nostro branco che purtroppo non ci sono più, e senza dei quali la nostra fanzine e la nostra vita sarebbero state senz’altro peggiori.